La tragedia dei profughi e la filosofia

Francesca Rigotti commenta uno studio tedesco che affronta temi di rilievo filosofico relativamente alla questione dei profughi: la distinzione tra rifugiati politici e migranti economici; il soggetto dell'origine regionale, culturale e religiosa dei profughi, come pure quello riguardante il senso del «noi» della domanda: la prospettiva da assumere è solo locale, europea, internazionale? Rigotti discute, inoltre, la questione di un possibile ma non (ancora?) esistente diritto universale alla libertà di movimento e di insediamento.

«Immagina di svegliarti una mattina trasformato in un profugo siriano». Come vorresti essere trattato? Non vorresti essere accolto amichevolmente in un paese sicuro?

E’ questo l’esperimento mentale, seguito da alcune domande, di uno degli autori del volumetto uscito di recente in Germania a cura di Thomas Grundmann e Achim Stephan, ”Welche und wie viele Flüchtlinge sollen wir aufnehmen?”. Philosophische Essays (Quali e quanti profughi dobbiamo accogliere? Saggi filosofici), Reclam, Stuttgart 2016.

Tutti i contributori del libro sono stati selezionati tra i più di cento partecipanti a un concorso, bandito dalla Società tedesca di filosofia analitica nel settembre del 2015, aperto a filosofi di ogni stile, analitico o continentale, purché si rispondesse, in maniera chiara e comprensibile al grande pubblico e in non più di 4.000 parole, alla domanda: «Quali e quanti profughi dobbiamo accogliere?». I primi tre saggi classificati e altri sette «meritevoli», scritti da studenti, dottorandi, post-doc e professori vari, sono stati pubblicati in questo libretto.

Può la filosofia rispondere in maniera seria e completa alla questione proposta dal bando? Ovviamente no, dati tutti gli aspetti giuridici, economici, psicologici, sociali e soprattutto relativi alle politiche di potere che essa investe. Salta comunque subito all’occhio la discordanza tra le posizioni sostenute da studiosi dell’accademia da una parte e dai filosofi mediatici della scena tedesca dall’altra: mentre questi ultimi, basandosi su insinuazioni e paure, dichiarano la loro avversione all’ingresso dei profughi (Sloterdijk con l’affermazione che la Germania si avvia all’autodistruzione, Safranski con il suo campanello d’allarme a proposito dell’inondazione del paese da parte dei profughi), gli universitari autori dei saggi ragionano in maniera perlomeno argomentata, pur riflettendo posizioni molto diverse, dal liberale al restrittivo.

La domanda del bando era stata lasciata volutamente aperta per lasciar spazio alla tematizzazione della distinzione tra rifugiati politici e migranti economici, dichiarata praticamente da tutti come irrilevante dal momento che si tratta in ogni caso di persone in stato di bisogno; o anche al soggetto dell’origine regionale, culturale e religiosa dei profughi, come pure a quello di che cosa può significare il «noi» della domanda (quanti e quali profughi dobbiamo noi accogliere?): la prospettiva da assumere è solo tedesca, europea, internazionale, locale?

Tornando alla rivisitazione dell’incipit della Metamorfosi di Kafka, vediamo in gioco posizioni affini a quelle di Leibniz, Kant, o anche Rawls, tutte posizioni che richiamano la regola aurea che invita a trattare gli altri come vorresti essere trattato tu. La faccenda non è comunque così semplice, e altri autori si danno da fare a sviscerarla costruendo analogie e argomentazioni che seguono la linea dei classici del pensiero politico moderno; i quali tutti, però, sia che si muovano nella tradizione delle teorie della proprietà, come Locke o Nozick, sia in quella del neocontrattualismo sulla scia di Rawls, sia anche dell’utilitarismo moderno nello stile provocatorio di Peter Singer, arrivano alla medesima conclusione: non esiste giustificazione alla limitazione dei profughi, come non esiste il diritto di nascere nel posto giusto nel momento giusto.

Cerchiamo ora di estendere la problematica interrogandoci dal punto di vista etico sui fondamenti della responsabilità che abbiamo nell’accogliere i profughi, incorporando nella riflessione i diritti degli stati nazionali, sulla base di un interessante articolo che raccoglie le prese di posizione di tre ricercatori tutti di lingua tedesca ma di provenienza rispettivamente svizzera, tedesca e austriaca: Andreas Cassee, Matthias Hoesch e Andreas Oberprantacher: Das Flüchtlingsdrama und die Philosophie (Il dramma dei profughi e la filosofia), in «Information Philosophie», pp. 52-60.

Con che diritto un gruppo di esseri umani può impedire ad altri esseri umani di calpestare una parte della superficie della terra? Perché un diritto universale alla libertà di spostamento non fa parte dei diritti dell’uomo? Forse per il motivo che non è un diritto fondamentale, di base? O perché – come illustra Immanuel Kant nel suo piccolo testo del 1795 sulla pace perpetua – il diritto (incondizionato) di visita deve essere tenuto separato dal diritto (condizionato) di ospitalità, dal momento che il primo compete a tutti gli esseri umani in quanto espressione del diritto di movimento, mentre il secondo non ha valore di pretesa universale? La posizione di Kant, per quanto progressista, contiene anche tratti conservatori; la sua ripartizione dei diritti riflette infatti il pensiero che, se è ragionevole presupporre l’esistenza di un diritto comune all’occupazione della superficie terrestre, esso non può non confrontarsi col fatto che sulla superficie della terra sono stati eretti singoli stati che garantiscono la proprietà dei padroni di casa. Ordinamento che cozza contro le posizioni della Carta di Lampedusa del 1.2.2014:

La Carta di Lampedusa si fonda sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata.(corsivo mio, FR) Le differenze devono essere considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere…La Carta di Lampedusa assume l’intero pianeta come spazio di applicazione di quanto sancisce, il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa.

Ma torniamo al discusso diritto universale alla libertà di movimento e di insediamento. Esso è garantito dagli ordinamenti liberali dello stato di diritto all’interno dello stato nazionale (posso traslocare da Roma a Milano senza dover chiedere autorizzazioni e permessi) in quanto premessa centrale per l’esercizio di altri diritti di libertà: la libertà di riunione, di associazione o di scelta del lavoro. Per essere riconosciuto su scala globale necessiterebbe di un profondo cambiamento di paradigma: via dal sistema di visti e permessi di viaggio e di soggiorno intesi come privilegi, in direzione di un sistema di “open borders”, invocato nel 1987 da Joseph H. Carens nel suo articolo Aliens and Citizens: The Case for Open Borders, («The Review of Politics», 1987).

Carens, partendo dal diritto dell’uomo, dichiarato dalla carta del 1948, alla libertà di movimento all’interno del proprio paese, mostrava che dal punto di vista morale esso non si differenzia dalla libertà di movimento globale. Il nuovo diritto entra però in contraddizione, come spiegava già Kant, col diritto positivo dello stato nazionale, mostrando che i diritti sono distribuiti in maniera asimmetrica tra esseri umani e stati. Gli stati nazionali hanno confini che danno agli interni una sorta di priorità su determinati territori; il che è moralmente giustificabile unicamente se esistono spazi sulla terra che gli esclusi potrebbero raggiungere e abitare; ma se tutti gli spazi del pianeta sono occupati da stati che non lasciano alcuno spazio sulla terra, si può parlare di un diritto morale a erigere “closed borders” ?

* Il presente testo riprende e arrichisce contenuti già pubblicati sul Domenicale del Sole24 Ore di domenica 9 ottobre 2016, p. 33, col titolo Tratta il profugo come te

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