La tavola rotonda delle Associazioni

La tavola rotonda delle Associazioni al Convegno di Etica ed Economia

QUALE EUROPA

II dibattito tra A.M. Simonazzi, E. Letta, F. Bassanini ,G. Vacca, M. Messori, V. Visco, L. Barca sui passi da compiere per la costruzione di una Europa Potenza civile , democratica e aperta agli altri Continenti.

Etica ed Economia ha organizzato per la sessione pomeridiana del convegno “Quale Europa”, svoltosi alla vigilia delle ferie all’Istituto Luigi Sturzo , una tavola rotonda in cui si potessero confrontare, sul tema dell’Europa, presidenti e direttori di associazioni culturali e di centri di ricerca I partecipanti sono stati : Anna Maria Simonazzi della Fondazione Brodolini , Enrico Letta dell’Arel, Franco Bassanini dell’Astrid, Giuseppe Vacca della Fondazione Gramsci, Marcello Messori della Fondazione Di Vittorio, Vincenzo Visco dell’Associazione NELS (Nuova economia Nuova società), Luciano Barca dell’Associazione Etica ed Economia . Assente , per un incidente, Gabriele de Rosa dell’Istituto Sturzo che aveva dato la sua adesione.

Scopo dell’incontro, fra gli altri, era non solo quello di verificare i temi della ricerca avviata da Etica ed Economia ( anche sulla base di ricerche già condotte da altre Fondazioni e associazioni) ma anche quello di valutare se potessero esservi delle convergenze nella valutazione dei risultati delle Convenzione europea, ed eventualmente preparare un’iniziativa comune nel periodo della conferenza intergovernativa che dovrebbe portare alla ratifica di un nuovo e fondamentale trattato europeo.

La discussione è stata vivace ed ha evidenziato punti di contatto ma anche notevole diversità di percezione riguardo ai temi prioritari nel futuro dibattito sull’Europa, nonché nell’azione dei protagonisti politici, pur nella chiara affermazione di un comune sentimento europeista tradottosi non solo in auspici ma in concrete proposte (dal doveroso completamento del mercato comune, in particolare attraverso la creazione di un vero e proprio mercato finanziario europeo con regole comuni , alla costruzione di reti europee – ferroviarie, marittime, energetiche ecc. – alla necessità dell’edificazione di una politica estera comune).

Nel suo intervento introduttivo Luciano Barca, a nome dell’associazione che ha promosso l’incontro, ha posto in rilievo i fattori culturali e di lungo periodo dell’integrazione europea, nonché la necessità dell’edificazione di una vera e propria cittadinanza comune agli europei. Barca, unico partecipante alla tavola ad aver vissuto in prima linea l’esperienza della guerra, ricorda che non da oggi esiste un sentire comune anche ai paesi dell’Est, il quale fa sì che la musica di Chopin o di Mozart sia universale, che la morte in circostanze oscure del leader cecoslovacco Masaryck abbia emozionato Roma e Londra non meno di Praga, che fa cantare ‘la Marsigliese’ non solo ai lavoratori francesi ma a quelli di tutto il continente.

Barca auspica che l’azione delle classi dirigenti, oltre che volta a creare nuovi strumenti di integrazione, sia impegnata a resuscitare antichi percorsi per affiancare una cittadinanza europea a quella nazionale. Aggiunge che la conquista di una vera cittadinanza europea, con i suoi doveri e diritti, è la sfida che bisogna raccogliere se si vuole che l’Europa costituisca un polo politico di rilievo in un mondo pluralistico e nel momento in cui altri poli vanno creandosi e rinsaldandosi, a fianco degli Stati Uniti : vedi l’Asia con Cina e India.

Per il resto il presidente di Etica ed Economia ammonisce che occorre essere creativi affiancando in alcuni casi la cooperazione, come nel caso di quella transfrontaliera, all’integrazione delle reti. Ciò creerebbe enormi benefici e risparmi, per esempio, nel settore dell’energia elettrica, in particolare se venisse associata all’iniziativa la Russia. Una distribuzione dell’elettricità in un’area, come quella dell’Europa allargata, che spazia su vari fusi orari con un consumo segnato da picchi di potenza molto diversi nel tempo consentirebbe ai portoghesi di consumare l’energia polacca o russa nel momento di maggiore esigenza per Lisbona e di ricambiare il favore.

L’intervento di Bassanini, già ministro nonché esperto dei problemi dell’amministrazione, si è focalizzato piuttosto sui lavori della Convenzione europea, anche in considerazione del fatto che l’associazione da lui presieduta ha collaborato strettamente con il vice-presidente Giuliano Amato nello studio delle misure da proporre ai lavori della Convenzione.

In primo luogo, Bassanini si sofferma sul fatto che il dibattito sui temi europei andrebbe spostato nel Parlamento europeo che gode del vantaggio di essere frazionato in meno partiti locali rispetto ai singoli parlamenti nazionali. Egli è convinto che il compito dei parlamenti dovrebbe essere quello di “assediare la Conferenza intergovernativa” che durerà da ottobre a dicembre per far si che la carta uscita dalla Convezione venga ratificata, senza salti indietro, dai governi nazionali.

In merito alla qualità del lavoro dell’assemblea guidata da Giscard d’Estaing il giudizio complessivo di Bassanini è con molte ombre e qualche luce.

Tre sarebbero i fattori maggiormente negativi nel testo emerso a Bruxelles:

a) In primo luogo l’assenza di decisioni a maggioranza nella politica estera comune, significa che l’Europa ancora per qualche anno non potrà parlare con una sola voce nello scenario internazionale;

b) In secondo luogo non è stata risolta la questione della natura costituzionale dello strumento: si tratta di un trattato o di una costituzione? Maschio o femmina? A mancare nel documento della Convenzione è l’aver codificato la possibilità di modificare il trattato a maggioranza qualificata come avviene per tutte le costituzioni scritte;

c) Anche nella definizione del numero dei commissari si è mantenuto il principio della rappresentanza di tutti le nazioni a discapito dell’efficacia dell’azione della Commissione.

D’altro canto vi sono, secondo Bassanini, degli elementi positivi (ma verrebbe da aggiungere che questi sono di difficilissima comprensione ai non addetti ai lavoratori) : la Carta dei diritti del cittadino europeo inserita nella bozza di Costituzione; la configurazione di una seconda camera europea; l’istituzione di un presidente del Consiglio europeo come figura garante della stabilità e della coerenza nell’azione dell’Unione europea.

Di altra natura l’intervento della prof. Simonazzi. Al centro delle sue riflessioni ella colloca la possibilità per l’Europa di produrre innovazione e di garantire posti di lavoro e sicurezza sociale. In questo campo il quadro degli strumenti a disposizione a livello europeo, nonché della politiche nazionali in atto è, secondo l’economista, assai deludente.

Il fuoco della critica della Simonazzi all’Unione europea va al fatto che essa si concentri ancora su una pratica di ‘export lead growth’ che poteva andare bene all’Italia degli anni ’50, ma non ad un colosso economico come la Ue che si ritrova a dipendere esclusivamente dalla ripresa interna degli Stati Uniti. La Simonazzi mette in discussione il ‘Washington consensus’ delle politiche macroeconomiche dei governi europei impegnati a trincerare la spesa pubblica e al rispetto dei parametri di Maastricht.

C’è bisogno, afferma la Simonazzi, di crescita in Europa e di una seria analisi dei fattori che producono crescita. In questo sarebbe interessante un raffronto con gli Usa che hanno basato la forte crescita degli anni ’90 sull’innovazione ed un certo lassismo della politica monetaria. La Simonazzi ritiene che sia del tutto negativo smantellare gli elementi di protezione sociale per crescere, mentre al contrario il fulcro dovrebbe stare in massicci investimenti nella ricerca. Proprio qui entra in gioco l’Europa che dovrebbe superare le divisioni interne ed elaborare una coerente politica industriale (basti pensare, ricorda la Simonazzi, che secondo il Financial Times il disavanzo strutturale degli Usa è passato dal +1,4 per cento al –4,6 per cento). Purtroppo verrebbe da far osservare che l’Unione europea può ben poco sul fronte fiscale (che è fra i veti posti dalla Gran Bretagna), che una politica industriale comune è sostanzialmente fallita dagli anni ’70, mentre le possibilità più concrete di stimolo per la Ue sarebbero nel settore delle alte tecnologie e in quello, ad esso collegato, delle commesse militari.

Vacca, dopo autorevoli studi sulla filosofia politica e sul Pci, ha maturato negli ultimi anni un notevole interesse per i temi di politica internazionale. Ha avuto il merito di fondare, in coincidenza con la ratifica del trattato di Maastricht, una rivista ‘EuropeEurope’ ché ha animato il dibattito a sinistra sull’integrazione europea, riunendo specialisti, politici, intellettuali.

Il presidente del Gramsci considera che l’integrazione europea si sia sviluppata come risposta a determinate sfide, spesso provenienti dall’esterno, dai cicli economici, e dalle politiche degli Stati Uniti in particolare. Egli nota che dagli anni ’70 è in atto il processo di costruzione di una nuova sovranità e dunque di un nuovo soggetto politico europeo.

Nel suo intervento Vacca punta la sua attenzione sulla necessità di una politica estera comune, come risposta alla sfida che viene oggi mossa all’Europa dall’attuale politica unilaterale dell’amministrazione Bush. La nuova dottrina dell’amministrazione americana incentra la politica estera sulla necessità della sicurezza degli Usa e ciò, una volta terminato il pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica, può essere fatalmente in contrasto con la pace e la sicurezza dell’Europa, specie nell’area del Mediterraneo, direttamente confinante con gli stati Ue.

Vacca pensa ad una politica estera europea incentrata sulla difesa e sull’integrazione dell’industria degli armamenti (forse con il retropensiero che ciò potrebbe costituire uno stimolo all’innovazione e alla ricerca) e respinge l’idea che, in un mondo ove cresce la tensione e gli scontri militari ci si possa rifugiare nell’utopismo di un’Europa ‘potenza gentile’. Egli mostra una notevole apertura nell’individuare in una politica estera europea una necessità mondiale, mentre pecca forse di un lieve conservatorismo nel ritenere che l’unico modo attraverso il quale questo nuovo polo possa configurarsi come autorevole nelle relazioni internazionale sia il costituirsi di un forte strumento militare.

L’intervento di Messori della Fondazione Di Vittorio, legata alla CGIL, è per certi versi paradossale e, forse, sintomatico della difficoltà programmatica in cui versano le organizzazioni sindacali in Italia e all’estero e quanti si occupano di Welfare. Egli afferma che del lavoro è meglio non parlare negli incontri europei perché si possono fare solo danni.

Messori è convinto che uno degli elementi più negativi dell’economia europea consista nel fatto che non esiste la possibilità di uno stimolo che venga dall’interno dei diversi paesi. La Francia che ci provò autonomamente nel biennio 1980-1981 con Mitterrand, fu costretta alla ritirata strategica dalle pressioni sulla sua moneta e dalla fuga di capitali. Egli dunque va alla ricerca della soluzione meno invasiva, più a portata di mano, e la trova nel completamento del mercato interno che nella sua componente finanziaria è ancora largamente frammentato e nazionale. Le vicende della legge sull’OPA europea dimostrano che in campo industriale i capitali non possono muoversi liberamente.

Messori cita una studio della Commissione europea secondo il quale una vera a propria riunificazione del mercato dei capitali potrebbe avere un impatto a livello macroeconomico tale da far crescere il Pil europeo dell’1 per cento e l’occupazione dello 0,5 per cento. Altro buon risultato sarebbe quello di aver conseguito uno spostamento dell’attenzione dal mercato del lavoro, di cui tutti predicano la flessibilità a discapito dei lavoratori, a quello dei capitali.

Responsabile economico della Margherita oltre che Direttore dell’Arel e candidato , Letta considera l’Unione europea un processo in continuo movimento sia dal punto di vista istituzionale sia da quello della continua crescita dei suoi membri. Aggiunge che proprio questo dato è ciò che non capiscono gli Stati Uniti e che fa mancare ai loro occhi l’Europa della dovuta autorevolezza.

Egli si dice convinto che l’identità europea non sia stata minata dalla guerra in Iraq visto che le divisioni maggiori sono avvenute all’interno dei singoli paesi, ma che in ogni caso manca una qualche idea di fondo che contribuisca a fare dell’odierno allargamento un successo. Il progetto della confederazione avanzato da Mitterrand all’indomani del crollo del muro di Berlino era pur sempre un progetto ambizioso ma ad esso non è seguito alcun disegno di pari portata strategica.

Il discorso di Letta è elaborato ma il succo sembra esserne che quello che oggi manca all’Unione europea è la forza motrice della Germania sia dal punto di vista economico che da quello politico. Egli prospetta misure europee nell’ambito della coesione nonché della riforma della Politica agricola comune ma, nell’insieme, evita di pronunciarsi ( anche evidentemente per non introdurre giudizi politici ) sul ruolo che la presidenza italiana potrebbe avere nel rilancio del processo d’integrazione.

Vincenzo Visco, già ministro come Letta, ha conosciuto per esperienza diretta i negoziati e gli incontri di Bruxelles ed offre delle utili considerazioni alla tavola rotonda.

In primo luogo è convinto che la cultura che accomuna i paesi europei sia quella legata al nocciolo del Sacro Romano Impero, mentre la cultura e l’approccio anglosassone risultano utili, sebbene ai margini. Egli è critico del ruolo giocato dalla Gran Bretagna nel processo d’integrazione, cioè quello di freno ad ogni idea innovativa e di protezione dalle “contaminazioni” continentale. Visco condivide con Letta l’analisi che uno dei principali problemi dell’Europa sia l’assenza di una leadership, del traino della locomotiva tedesca distratta perché intenta ad affrontare e risolvere i problemi interni.

L’Est, secondo Visco, pone ora un problema simile a quello degli anglosassoni. Gli europei dell’Est guardano ai soldi che verranno dalla Germania ma politicamente sembrano schierati con i membri più scettici, e vicini agli Stati Uniti, della Ue. Meglio sarebbe stato approfondire l’integrazione con un nuovo trattato costituzionale e poi allargarsi ad Est.

Visco considera che un mercato comune in realtà non esiste perché per fare affari negli altri paesi membri bisogna ancora muoversi con batterie di avvocati e che occorra dunque fare passi avanti sulla via dell’armonizzazione. Allo stesso modo occorre, se si vuole parlare di politica economica europea, non prescindere dal patto di stabilità come strumento di coesione. Infine ammonisce contro chi si batte per porre a base dell’Europa mostri sacri come la politica estera e avverte che meglio sarebbe proseguire sulla strada delle realizzazioni concrete e strutturali come potrebbe essere la scuola e la ricerca . Partire, come fece Jean Monnet, dal basso.

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Qualche osservazione conclusiva. La necessità di creare un soggetto politico europeo, e dunque di consolidare una politica estera comune, sembra fortemente avvertita da Barca e da Bassanini (che individua nella mancata istituzione di una politica estera a maggioranza la principale pecca della convenzione) e soprattutto da Vacca che invita a raccogliere la nuova sfida posta dall’attuale amministrazione americana. Il più scettico in questo senso sembra essere Visco per il timore che parlare di una comune politica estera si risolva solo in un salto in avanti perché si verrebbe a ledere interessi nazionali troppo consolidati nei secoli.

Sul piano economico le posizioni paiono abbastanza discordanti. Si va dalla posizione della Simonazzi assai critica del ‘Washington consensus’ ed anche , implicitamente, del patto di stabilità e desiderosa di una politica di investimenti e di ricerca europea (posizione che è sembrata maggioritaria anche nel dibattito che ha preceduto la tavola rotonda); alle posizioni più prudenti di Messori e Visco che invitano al rispetto del patto di stabilità e auspicano come obiettivo futuro il completamento del mercato unico.

Nella discussione vi è stato un largo consenso sulla necessità che l’Europa sia dotata di una sua identità in qualche modo distinta dal modello americano e dalla stessa cultura anglosassone. E’ anche diffusa la convinzione della necessità, cui fa esplicito riferimento Letta, di un grande progetto che faccia dell’allargamento ad Est un successo e un fattore di rafforzamento dell’Europa piuttosto che un tassello verso il suo sgretolamento.

Troppo forte però è apparsa la tendenza, specie dei politici che hanno vissuto l’esperienza del governo di centro-sinistra, a sperare di essere salvati da fuori, in special modo dalla locomotiva tedesca. Rimane la necessità di delineare una posizione italiana, coerente sulla politica estera comune e su quali debbano essere i principali obiettivi di una politica economica europea.
g.g.

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