La subordinazione del rider

Stefano Giubboni commenta la sentenza del Tribunale di Palermo depositata il 24 novembre, che è la prima sentenza italiana a riconoscere ai riders delle piattaforme digitali la qualifica di lavoratori subordinati. Giubboni colloca tale sentenza all’interno del quadro di regole introdotte dalla legge n. 128 del 2019 e ne valuta le implicazioni rispetto al contratto collettivo sottoscritto – tra molte polemiche – da AssoDelivery e UGL il 15 settembre 2020.

1. Mentre non si placa la polemica sull’accordo collettivo stipulato da AssoDelivery e UGL e le parti sociali tornano faticosamente a dialogare al tavolo di confronto convocato dal Ministro del lavoro, il Tribunale di Palermo irrompe sulla agitata scena delle tutele da garantire ai riders delle piattaforme digitali con una elaborata sentenza nella quale si riconosce, per la prima volta in Italia, la natura subordinata ex art. 2094 cod. civ. dell’attività prestata dai ciclo-fattorini. La sentenza del giudice palermitano (la n. 3570/2020, depositata lo scorso 24 novembre nella causa intentata da un lavoratore contro Foodinho s.r.l., multinazionale spagnola operante in Italia dal 2016 con il marchio «Glovo») merita di essere segnalata e brevemente commentata in questa sede, non solo perché costituisce il primo caso italiano di accertamento giudiziale della natura subordinata del rapporto di lavoro di un rider operante per una nota piattaforma del food delivery, ma anche perché rappresenta un caso esemplare di motivazione arricchita, nell’ambito di un solido impianto sistematico, dal ricorso all’argomento tratto dal diritto comparato, grazie all’ampio richiamo di precedenti giurisprudenziali stranieri.

Una volta ripercorsi i passaggi salienti della motivazione della sentenza del giudice del lavoro palermitano, non sarà peraltro inutile interrogarci sulle possibili implicazioni di questo innovativo orientamento rispetto al quadro ancora aperto delle opzioni regolative in discussione tra le parti sociali. Il contratto collettivo stipulato il 15 settembre 2020 da AssoDelivery e UGL – subito contestato da CGIL, CISL e UIL, oltre che dalle rappresentanze sindacali di base dei riders partecipanti al tavolo di confronto aperto dal Ministro del lavoro (e oggetto, peraltro, come rammenteremo meglio più avanti, di una serie di rilievi critici anche da parte dell’Ufficio legislativo del Ministero) – contiene come noto regole minime, in particolare in tema di compenso, che sono deliberatamente preordinate a metter fuori gioco le tutele legali previste, per i riders autonomi, dal Capo V-bis del d.lgs. n. 81 del 2015 e segnatamente dal secondo comma del suo art. 47-quater (che, nel vietare il cottimo puro, impone un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari dei contratti collettivi nazionali di settori affini, ovvero, in pratica, della logistica). Tale contratto presuppone, quindi, che l’attività dei ciclo-fattorini sia inquadrata nell’ambito della autonomia: un presupposto, questo, che la sentenza palermitana nega invece in radice alla luce delle effettive modalità di svolgimento del rapporto contrattuale con la piattaforma, nelle quali il giudice rintraccia elementi di etero-direzione della prestazione addirittura paragonabili, per pervasività, a quelli tipici della vecchia organizzazione fordista («esattamente come un operaio del secolo scorso rispetto alle modalità di funzionamento della catena di montaggio … »).

2. Il cuore della motivazione della sentenza palermitana, come già delle precedenti pronunce di merito dei giudici di Torino e di Milano (v. i miei interventi nei numeri 101 e 120 del Menabò), attiene alla «questione fondamentale … se il grado di autonomia dei lavoratori nello stabilire non solo l’an della prestazione, ma anche il quando, sia determinante ai fini qualificatori, a tal punto da escludere che essi siano lavoratori subordinati». Ma mentre per i giudici di Torino e Milano la libertà di cui hanno apparentemente goduto i «fattorini digitali» di decidere se e quando lavorare avrebbe compromesso, «ab origine, l’esercizio da parte dell’azienda del potere direttivo e disciplinare, giacché l’ipotesi di accertare il vincolo di subordinazione tra le parti verrebbe completamente svuotato di contenuto a monte, ossia semplicemente guardando alla fase genetica del rapporto», la risposta fornita dal Tribunale di Palermo si muove nella direzione esattamente opposta, sulla base di una valutazione complessiva delle effettive modalità di svolgimento della prestazione.

Ed infatti, secondo il giudice siciliano, una valutazione de-contestualizzata e isolata della sola fase genetica del rapporto non terrebbe adeguatamente conto della pervasiva presa gerarchico-disciplinare esercitata dal modello organizzativo adottato dalla piattaforma, che pur spiegando interamente il suo capillare potenziale di controllo algoritmico nella fase esecutiva della prestazione (assoggetta in effetti ad un livello di etero-direzione paragonabile per intensità solo a quello delle catene di montaggio), è tuttavia tale da retroagire anche sul segmento iniziale e financo sui momenti preparatori e prodromici della prestazione del ciclo-fattorino, annullando, in pratica, ogni effettiva libertà di scelta del lavoratore. Ed è soprattutto nel motivare le ragioni di una tale valutazione sincretica e globale delle modalità determinative della prestazione, necessaria evidentemente ad orientare il concreto apprezzamento della reale autonomia del prestatore, che il Tribunale di Palermo si giova del richiamo di significative decisioni di giudici stranieri, ed in particolare di una importante sentenza della Suprema Corte spagnola (Tribunal Supremo, Sala de lo Social, n. 805/2020).

Ma non meno rilevante, nel percorso argomentativo del giudice del lavoro di Palermo, si rivela il richiamo di una recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (ordinanza 22 aprile 2020, in causa C-692/19), che pure considera decisivo, sul piano qualificatorio, l’accertamento in concreto di una effettiva libertà di scelta del lavoratore in ordine alla accettazione «dei compiti offerti dal suo presunto datore di lavoro». Solo ove eserciti un effettivo «potere discrezionale» di scelta, non condizionato sul piano dello svolgimento della relazione contrattuale da effetti pregiudizievoli (sulle stesse future occasioni di lavoro o sulle opportunità di remunerazione) unilateralmente determinati dal gestore della piattaforma, il prestatore potrà dirsi titolare di quella libertà di auto-organizzazione della propria opera, che costituisce – anche ai sensi degli artt. 2222 cod. civ. e 409, n. 3, cod. proc. civ. – l’essenza del lavoro autonomo.

La sentenza in commento si lascia peraltro apprezzare anche laddove fa riferimento – con metodo se si vuole più tradizionale – ad indirizzi autorevoli, ancorché tuttora scarsamente valorizzati da quello che chiamiamo il «diritto vivente», della giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Il Tribunale di Palermo corrobora, infatti, gli esiti qualificatori del proprio accertamento, da un lato, rifacendosi alla nota elaborazione teorica della subordinazione come «doppia alienità» (rispetto al risultato e alla organizzazione produttiva), fatta propria dalla Corte costituzionale nella celebre «sentenza Mengoni» (n. 30 del 1996), e, dall’altro, richiamandosi ad un filone significativo, seppur non maggioritario, della giurisprudenza della Cassazione volto ad accogliere una nozione di etero-direzione «attenuata», in quanto idonea ad abbracciare situazioni nelle quali manchi un esercizio continuativo e puntuale del potere direttivo (benché, come già osservato, la stessa sentenza ravvisi nel pervasivo controllo algoritmico della prestazione un tratto distintivo del lavoro subordinato tramite piattaforma digitale).

3. Se l’orientamento interpretativo accolto dal giudice del lavoro di Palermo dovesse consolidarsi ed estendersi, le implicazioni che ne dovremmo trarre – anche in termini di politica del diritto – sarebbero indubbiamente considerevoli. Il legislatore si è infatti sinora mosso sul presupposto che l’attività dei ciclo-fattorini debba essere inquadrata nel lavoro autonomo, sia pure etero-organizzato (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015), concedendo per questo significativi spazi di deroga alla autonomia collettiva. La speciale disciplina di settore introdotta dalla legge n. 128 del 2019 (mediante l’inserimento di un apposito Capo V-bis nel d.lgs. n. 81 del 2015) è anzi stata pensata sul presupposto di un sicuro connotato di autonomia, rafforzato dal requisito della occasionalità, della prestazione dei ciclo-fattorini, e per questo è stata concepita in termini residuali rispetto alla disciplina della etero-organizzazione e suppletivi rispetto alle regole introdotte dalla contrattazione collettiva.

Il citato contratto collettivo stipulato da AssoDelivery e UGL poggia evidentemente su questo presupposto ed è infatti diretto a sfruttare – con una qualche spregiudicatezza – tutti i margini di deroga consentiti dalla legge. Ne è anzi già stata contestata la idoneità a derogare alle norme di legge (in particolare alle tutele minime previste dall’art. 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015). Come ha puntualmente rilevato l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro con la circolare n. 17 del 19 novembre 2020, difettano, infatti, nei soggetti stipulanti, i requisiti di legittimazione prescritti dalla legge: da un lato, in quanto deve trattarsi di una pluralità di agenti negoziali e, dall’altro, in quanto le stesse parti debbono comunque poter vantare (e dimostrare) una maggiore rappresentatività comparata all’interno della categoria produttiva di riferimento. Ma nella specie risulta controvertibile anche l’idoneità oggettiva di tale disciplina collettiva a derogare alle tutele legali, visto che – come ha sempre precisato la citata circolare n. 17 del 2020 – «deve ritenersi che all’interno della delega alla contrattazione collettiva non rientri la facoltà di fissare il compenso del rider autonomo facendo esclusivamente riferimento al sistema del cottimo (c.d. “puro” o “integrale”)» (mentre l’accordo stipulato da AssoDelivery e UGL, al di là di qualche ambiguità terminologica, introduce un meccanismo di remunerazione basato soltanto sulle consegne effettuate e non sul tempo di lavoro).

Se dunque l’accordo collettivo in questione è già oggi di controversa legittimità (nel senso che ne è discussa la idoneità a superare le previsioni dettate dal d.lgs. n. 81 del 2015 con l’art. 2 e le disposizioni del Capo V-bis), è indubitabile come esso verrebbe completamente spiazzato ove dovesse affermarsi l’orientamento qualificatorio accolto dal Tribunale di Palermo, visto che ad essere travolto – in tal caso – risulterebbe il presupposto stesso dell’accordo, ovvero l’inquadramento nel campo della autonomia delle prestazioni di lavoro dei riders delle piattaforme digitali. Le implicazioni di questa sentenza sono, quindi, almeno potenzialmente, notevoli, e sarebbe quantomeno saggio che le parti presenti nel tavolo negoziale aperto su impulso del Ministro Catalfo le tenessero nella più attenta considerazione, superando i contenuti dell’accordo stipulato da AssoDelivery e UGL per riconoscere a questi lavoratori tutele finalmente conformi alle regole di legge già in vigore e, in definitiva, ai principi costituzionali.

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