La straordinaria attualità della ‘Nota Aggiuntiva’ di La Malfa, 60 anni dopo

Laura Pennacchi rilegge, a 60 anni di distanza, la “Nota aggiuntiva” di Ugo La Malfa. La“Nota”, con grande nettezza, denuncia la persistenza, dopo il “Miracolo Economico”, di alcuni squilibri fondamentali che ancora oggi persistono e deprimono la capacità di investimento: lo squilibrio fra domanda interna e estera; quello nei flussi di migrazione dal Sud al Nord d’Italia e quello fra la crescita smodata dei consumi individuali privati e la carenza di consumi collettivi e di beni pubblici, quali la salute e l’istruzione.

L’anno appena iniziato porta, nella sua gerla, oltre a aspre difficoltà, alcune ricorrenze preziose: tra queste spicca il sessantesimo anniversario della “Nota aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese” che Ugo La Malfa, ministro del Bilancio del governo presieduto da Amintore Fanfani, presentò al Parlamento il 22 maggio 1962. La forza intellettualmente penetrante e la capacità anticipatrice quasi profetica della “Nota Aggiuntiva” sono impressionanti: uno sprone ma anche un monito per il presente, nel quale ci attendono scadenze decisive, tra cui domare la pandemia da Covid 19 e negoziare, per l’Europa e per l’Italia, una riforma del Patto di stabilità e di crescita e delle regole della fiscal policy europea che consenta di mantenere vivo lo slancio “rivoluzionario” embrionale del Next Generation Eu.

Il punto di partenza della “Nota aggiuntiva” del 1962 (a cui collaborarono, tra gli altri, Francesco Forte, Antonio Giolitti, Claudio Napoleoni, Sergio Steve) è un’analisi sobria e al tempo stesso impietosa del tumultuoso processo di crescita economica intrapreso dall’Italia all’uscita dalla seconda guerra mondiale. La “ricostruzione” postbellica – afferma la Nota – non era di fronte a un destino ineluttabile, naturalisticamente determinato (e fin dall’inizio si avverte l’adesione a una visione della disciplina economica non come “scienza della natura”, propria del paradigma neoclassico, ma come “scienza morale e sociale”, propria del paradigma keynesiano e hirschmaniano). Erano possibili almeno due scelte, accumunate dall’essere entrambe agli antipodi delle politiche autarchiche imposte nel ventennio fascista ma alternative nell’impostazione di fondo. Infatti, l’una – quella poi effettivamente adottata – individuava l’elemento fondamentale del processo di sviluppo in “un mercato sostanzialmente libero” su cui l’azione pubblica influisse assai “limitatamente”, contando sul fatto che l’affidamento “alle scelte del mercato”, cioè alle decisioni dei singoli agenti privati, trovasse “il termine di più immediato di riferimento” non nella dinamica degli investimenti ma nello “sviluppo dei consumi”, vale a dire quella componente “legata a prospettive a più breve termine” in grado di sollecitare “convenienze più immediatamente percepibili dagli operatori economici” (pp. 35-36). La linea d’azione alternativa avrebbe dovuto e potuto identificare ex ante “le direzioni dello sviluppo del reddito e dell’occupazione” in base alle quali generare “un’ampia domanda di beni capitali” – domanda “il cui sorgere e la cui continuità non potevano essere spontaneamente garantiti dal mercato” – che assicurasse un’evoluzione armonica ed equilibrata dell’intero Paese e al tempo stesso un diverso e “nuovo ordine di convenienze” agli operatori privati, “attraverso profondi processi di trasformazione produttiva nell’agricoltura e una rapida industrializzazione delle zone arretrate”, cosa che “poteva configurarsi solo nell’ambito di una programmazione”.

La crescita economica dell’Italia negli anni ’50 – quando prevalse, dopo la stretta creditizia di metà degli anni ’40 sostenuta dalla singolare alleanza tra il liberale Epicarmo Corbino e il comunista Palmiro Togliatti, la linea einaudiana del “mercato sostanzialmente libero” e conseguentemente si imposero “impostazioni di politica economica non vincolate a criteri di programmazione globale” – fu rapida e cospicua, dando luogo al famoso ”miracolo economico italiano”. Ma agli inizi degli anni ’60 la “Nota aggiuntiva” è netta nel denunziare che “nei limiti in cui le decisioni economiche corrispondevano soltanto agli impulsi forniti dal mercato, rimaneva procrastinata e spesso elusa la soluzione dei problemi di quelle zone, di quei settori e di quei gruppi sociali che rimanevano ai margini”. Inoltre il prevalere della linea “mercatistica” su quella “programmatoria”, oltre a provocare il “permanere di situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e di ritardo economico” operanti come un freno per lo sviluppo complessivo, aveva fatto accumulare seri squilibri specifici che la Nota indica dettagliatamente, così sintetizzabili:

1) L’accento posto nelle fase successiva alla fine della seconda guerra mondiale su una accelerata liberalizzazione degli scambi con l’estero e su un recupero forzato di condizioni di competitività ha spinto il sistema economico nazionale verso le esportazioni, creando uno squilibrio tra domanda interna e domanda estera che fa emergere l’esigenza di “strutture più equilibrate”. Infatti, gravitare oltre misura sulle esportazioni, oltre ad esporre in modo eccessivo “alle vicende della congiuntura internazionale” (p. 83), spinge la nostra industria manifatturiera “lungo la linea del potenziamento delle strutture esistenti … con un impiego proporzionalmente minore di capitale” e un’accentuazione della “localizzazione dello sviluppo produttivo nei distretti già industrializzati e nelle zone ad essi contigue” (p. 61).

2) Per fornire mano d’opera a basso costo alle imprese del Nord ingaggiate in una corsa spasmodica verso esportazioni caratterizzate da una competitività prevalentemente “di prezzo”, sono avvenuti enormi trasferimenti di popolazione e di forze di lavoro dalle regioni meridionali meno sviluppate che, mentre hanno congestionato il Nord e provocato al Sud “il diffondersi di situazioni di abbandono e di regresso senza speranza e un generale deterioramento dell’assetto territoriale”, non sono stati in grado di indurre “profonde modificazioni delle strutture produttive” delle aree abbandonate, esposte invece al “depauperamento di un ambiente economico, sociale ed umano incapace di trovare un nuovo equilibrio” (p. 38). Né avrebbe senso puntare su “un esodo di sempre più imponenti dimensioni”, poiché si sta esaurendo la disponibilità di forze di lavoro giovani, per le nuove unità di popolazione i costi di insediamento al Nord sono sempre più elevati, è dimostrata “la limitata efficacia riequilibratrice dei movimenti di popolazione come strumento per risolvere squilibri di carattere strutturale”.

3) L’avanzamento economico e il raggiungimento di più elevati livelli di reddito e di consumi “lasciano scoperta … un’ampia serie di bisogni” la cui importanza emerge più chiaramente se si considerano “i fini che oggi si pongono alla politica economica”, i quali hanno carattere “qualitativo e non solo quantitativo”. Un più rigoroso apprezzamento dei bisogni di una società può far considerare suscettibili di modificazione o riadattamento strutture produttive e distributive altrimenti ritenute inalterabili: ad esempio, se “mutasse la distribuzione si altererebbe la valutazione economica comparativa del vari beni e si altererebbe quindi la valutazione dell’entità di un incremento di reddito nazionale derivante da una data massa di beni e servizi” (p. 85).

4) La stimolazione incessante dei consumi individuali privati (soggetti comunque a fenomeni di saturazione o di rallentamento) da una parte induce un’abnorme espansione anche dei consumi opulenti (un esempio è la dilatazione dell’edilizia residenziale di lusso che la Nota tratta, appunto, come “consumo” e non come investimento), dall’altra spinge “ceti sempre più vasti … ad adottare abitudini di vita proprie di una società ad alti redditi, in una situazione in cui una parte rilevante della popolazione è ancora ai margini del processo produttivo” (p. 68). I risultati sono da un lato la precoce destinazione di una parte dell’aumento del reddito “a consumi sempre meno necessari e ad investimenti speculativi o poco produttivi”, dall’altro lo stentato e limitato veicolamento di risorse verso i consumi collettivi e i beni pubblici, quali la sanità e l’istruzione, con conseguenze gravi per lo sviluppo e l’”incivilimento” dell’intero paese. Lo stato dell’istruzione, ad esempio, mostra mali seri (su cui presto don Milani avrebbe scritto “Lettera a una professoressa”): “non tutti i giovani adempiono all’obbligo scolastico”(p.69), la percentuale di coloro che conseguono la licenza elementare è appena il 40%, il numero dei laureati è basso e statico (20 -21000 nel periodo 1954-1960), mentre “sovraffollamento e assenteismo” caratterizzano la vita universitaria e la ricerca scientifica (“fattore indispensabile a fornire il nostro sistema economico di ritrovati e di tecniche”) langue per insufficienza di risorse e mancanza di un “organo politico” (p. 70) incisivo nel coordinare e orientare le risorse stesse.

È questo il complesso di ragioni e di motivazioni per cui la “Nota aggiuntiva” sposa la prospettiva di “un’azione molto più risoluta” del passato, “una nuova audace impostazione” garantita solo da “una politica di programmazione generale” (p. 71) a cui associare in modo decisivo i “sindacati operai” (La Malfa aveva guardato con favore al “Piano del lavoro” del 1949 della Cgil di Di Vittorio, Foa, Trentin, distinguendosi dalla paradossale convergenza tra l’ostilità di De Gasperi e la freddezza di Togliatti e del PCI, i quali poi accusarono il Piano Vanoni e la “Nota aggiuntiva” di “moralismo e “pauperismo”). C’è anche un compito educativo e pedagogico a cui la politica non può sottrarsi, quando si osserva che, per esempio per far adempiere l’obbligo scolastico, occorre “vincere resistenze ambientali e atteggiamenti ostili degli stessi interessati” e modificare “la scarsa propensione delle famiglie alle spese per l’istruzione” (p. 87), accentuata da una “struttura delle remunerazioni e degli incentivi … che favoriscono la spinta verso guadagni rapidi” (e anche qui la mente non può non andare al presente, a quelle lande leghiste del Nord dove un guadagno che consenta l’acquisto di una motocicletta potente è tuttora preferito al conseguimento del diploma). Di più, mentre molte situazioni di sottosviluppo creano costi addizionali e diventano socialmente sempre meno sopportabili, la Nota indica un ulteriore elemento dinamico a favore dello spirito di programmazione: il livello di reddito raggiunto dal paese e il suo dinamismo consentono di affrontare i problemi irrisolti con una minore pressione sulle risorse totali. Infatti, “agire sulla direzione dei flussi” – che è fondamentale perché “le desiderate trasformazioni sono tanto più facilmente conseguibili quanto più rilevanti sono i flussi rispetto agli stock esistenti”, con l’obiettivo prioritario dell’”assorbimento delle forze di lavoro disponibili” – permette di introdurre innovazioni precluse a un’economia in stagnazione. Ne risulta chiaro il profilo della politica programmata auspicata: non “una circostanza di semplice accompagnamento di uno sviluppo che mantiene immutati i suoi centri motori”, né “un mezzo di redistribuzione temporanea di redditi che il processo di sviluppo della nostra economia concentra nelle altre zone, ma un fattore di profonda modificazione del meccanismo esistente”(pp. 40-41).

Del resto, le imprese private effettuano normalmente “forme di vera e propria pianificazione”. E non mancano anche in Italia antecedenti storici incoraggianti, per quanto parziali e sofferti. La Nota riconosce grandi meriti ai “piani di massima importazione” dell’immediato dopoguerra, alla riforma fondiaria, ai piani di sviluppo siderurgico impostati già nel 1948, al Piano INA-Casa di Fanfani del 1949, all’istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno guidata da Pasquale Saraceno, agli impegni assunti dalle imprese pubbliche. Si sofferma in particolare sui cambiamenti successivi alla presentazione nel 1954 dello “Schema Vanoni” (giudicato una rottura rispetto al passato, l’unica occasione in cui l’alternativa programmatoria venne posta “in termini concreti”), cambiamenti che segnalavano che gli obiettivi di aumento del reddito e dell’occupazione e il riequilibrio della bilancia dei pagamenti erano stati ormai raggiunti, ma “l’andamento del mercato aveva determinato un accentuarsi – anziché un restringersi – degli squilibri” (p.78). Il che portò nel 1961 all’istituzione della Commissione Papi, di cui la “Nota aggiuntiva” si considera immediato erede, che nutrì ambizioni rilevanti, nonostante le condizioni difficili in cui era stata costretta ad operare: non gli erano stati nemmeno forniti i dati statistici necessari per passare da un “modello aggregato di prima approssimazione” dell’intera economia italiana a un modello “disaggregato per regioni – Nord e Sud – e per grandi settori” (p. 80). L’eredità che la “Nota aggiuntiva” assume si estrinseca nel riconoscere che i “fini” incorporano “valori” e non sono meno importanti dei “mezzi” e che per identificare, argomentare discutere, convenire sui “fini” sono necessari lo spirito e la politica della programmazione.

Di lì a poco le prime grandi lotte sindacali alla vigilia della stretta creditizia del 1962, l’esplosione dei movimenti studenteschi e giovanili del ’68, l’”autunno caldo” del ’69 avrebbero dimostrato quanto fosse antiveggente la denunzia – in cui sembra di poter cogliere echi adorniani e marcusiani – dei mali dell’istruzione e dell’Università, del consumismo irrazionale, della mercatizzazione esasperata, dell’abbandono delle aree sottosviluppate, della trascuratezza verso i beni pubblici. Ma l’antiveggenza vale anche per l’oggi. È difficile sopravvalutare il carattere “profetico” delle idee e del lessico della Nota: “direzione” dello sviluppo e dell’innovazione sono parole che ha usato Tony Atkinson nel suo ultimo libro, le distorsioni insite negli investimenti speculativi e nell’accumulo di “bolle” comprese quelle immobiliari sono deflagrate nella crisi del 2007/2008, l’irrazionalità di un consumo drogato al solo scopo di alimentare nuove fonti di profitto è palesata dalla crisi ecologica e ambientale. Rimane da chiedersi perché mai tale carattere “profetico” non sia colto dagli estimatori – tra cui Mario Draghi – di Ugo La Malfa, anche nei recenti anniversari che lo riguardano. Perché mail il Pnnrr nazionale, che inizia esaltando la forza del miracolo economico italiano del dopoguerra, taccia la carica visionaria della “Nota aggiuntiva”.

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