La soppressione dell’Irap

Vincenzo Visco riflette su un’imposta che la recente legge delega di riforma fiscale prevede di abolire, l’Irap. Al riguardo, ricostruisce l’origine dell’imposta, le ragioni a favore e i cambiamenti subiti nel tempo. La tesi è che, di fronte all’inaridimento del peso dei redditi da lavoro, il finanziamento del welfare non possa non basarsi su qualche forma di prelievo generalizzato su tutti i redditi prodotti (cioè sul valore aggiunto), ossia su un’imposta che ha la stessa ratio dell’Irap.

L’art. 6 della legge delega di riforma per la revisione del sistema fiscale presentata dal Governo Draghi prevede “il graduale superamento dell’Irap”, e cioè la sua soppressione. Non è certo che questa prescrizione sarà effettivamente attuata, come peraltro è difficile prevedere ora, quali parti della delega troveranno applicazione, e se la troveranno, visti i tempi ristretti e le incognite che il Governo dovrà affrontare; tuttavia può essere utile ricostruire le origini dell’imposta, la sua introduzione, le sue caratteristiche, e le vicende successive.

L’Irap venne introdotta con la riforma fiscale del 1996-97; era contenuta in una delle 11 deleghe in cui quella riforma si articolava, e che si era resa necessaria, dopo che erano passati oltre 20 anni dalla riforma del 1973, per ovviare alle molteplici distorsioni, incongruenze, inefficienze, disparità di trattamento che si erano nel frattempo prodotte.

 Ma soprattutto il sistema era uscito devastato dalla manovra finanziaria per il 1993. Il Governo Amato in una situazione di assoluta emergenza varò una manovra correttiva molto incisiva che prevedeva anche una serie di misure tributarie micidiali non solo per i contribuenti, ma anche e soprattutto per il sistema: si stabilì l’indeducibilità dell’Ilor dall’Irpeg, sicché l’aliquota dell’imposta sui profitti diventò del 53,2%, una delle più elevate del mondo; si introdusse una imposta sul patrimonio netto delle imprese che, riferita al reddito, equivaleva ad un prelievo aggiuntivo sui profitti del 5-10% a seconda del grado di profittabilità; si introdusse l’ICI senza abolire o ridurre le imposte sui trasferimenti immobiliari; si rivalutarono fortemente le rendite catastali; si eliminarono retroattivamente gli sgravi Irpef legati al recupero del fiscal drag; si trasformarono le deduzioni di imposta in detrazioni; si introdussero la minimum tax e il prelievo straordinario sui depositi bancari…

In sostanza nel sistema tributario ogni logica era venuta meno. Una incisiva riforma fiscale quindi si imponeva. Inoltre nel decennio precedente molti dei paradigmi tradizionali relativi alla gestione delle economie e alla struttura dei sistemi fiscali erano stati abbandonati, sotto la spinta di liberalizzazioni, deregolamentazioni e globalizzazione, e la concorrenza fiscale tra Paesi era diventata crescente e pericolosa, il che suggeriva una riforma in grado di mantenere il gettito, ma che al tempo stesso ampliasse le basi imponibili, riducesse le aliquote formali e le possibilità di elusione, ristabilisse una accettabile parità di trattamento tra le diverse tipologie di reddito, riducesse il costo del lavoro (contributi sociali), aumentasse l’imposizione indiretta, e diminuisse l’evasione. Tutta ciò fu fatto con la riforma del 1996-97, e in tale contesto l’introduzione dell’Irap giocò un ruolo decisivo.

Contrariamente a quanto molti hanno sostenuto e sostengono, l’Irap non è un’imposta sulle imprese. Essendo commisurata all’intero valore aggiunto, e non limitata ai profitti, essa era concepita come un’imposta sul reddito prodotto, su tutti i redditi, ed infatti colpiva anche i redditi di lavoro e gli interessi passivi contribuendo a ridurre l’incentivo per le imprese ad indebitarsi piuttosto che ad utilizzare capitale proprio, grazie alla deducibilità degli interessi passivi. Il fatto che essa fosse prelevata a cura delle imprese dipendeva da esigenze di semplicità amministrativa, ma logicamente essa poteva essere considerata come la somma di tre prelievi diversi: sui salari, i profitti e gli interessi, applicati con una stessa aliquota proporzionale.

In sostanza l’Irap era il modo più semplice ed efficace di applicare il paradigma di fondo delle riforme tributarie degli anni ’80: allargare le basi imponibili e ridurre le aliquote. Ed infatti l’Irap era destinata a sostituire, a parità di gettito, e con un’aliquota di solo il 4,25%, l’Ilor gravante sui profitti con un’aliquota del 16,2%, i contributi sanitari sui redditi di lavoro con aliquota del 10,6%, la tassa sulla salute sul lavoro autonomo, l’imposta patrimoniale sulle imprese dello 0,75%, equivalente ad un ulteriore prelievo sui profitti del 5-10%, più una serie di altre imposte minori: l’Iciap, la tassa di concessione sulle partite Iva e le tasse di concessioni comunali, tutte imposte prelevate a cura, o gravanti, sulle imprese.

Va anche ricordato che a causa di un errore delle stime iniziali, il gettito effettivo dell’Irap risultò inferiore a quello ipotizzato di ben 13.000 miliardi di lire, gettito recuperato grazie alla consistente e sistematica riduzione dell’evasione che si verificava in quegli anni, sicché le imprese realizzarono una consistente riduzione del prelievo medio complessivo, il che rende paradossale la strenua opposizione del mondo delle imprese all’imposta, opposizione che dura ancora oggi.

In conclusione l’Irap è stata un formidabile strumento di razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario italiano che ha consentito, oltre a garantire un gettito molto elevato con un’aliquota molto bassa (oggi scesa al 3,9%), di realizzare una sostanziale autonomia tributaria per le Regioni, grazie anche alla possibilità di variare le aliquote, fornendo un rilevante contributo al finanziamento delle spese sanitarie.

Né si può affermare che l’Irap sia stata un’anomalia, una stravaganza italiana. Al di là degli esempi di alcuni Stati americani in cui imposte analoghe erano in vigore da molto tempo (e l’Irap nasce proprio come imposta regionale), l’imposta è il frutto di un lungo dibattito scientifico e politico che si è svolto in Italia a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, e non a caso è stata definita da uno dei massimi esperti internazionali di finanza territoriale “la migliore approssimazione ad una buona imposta locale sulle imprese che oggi esista”. Imposte analoghe, peraltro, esistevano ed esistono in molti Paesi proprio con l’obiettivo di finanziare il sistema di welfare.

 La fiscalizzazione dei contributi sanitari attraverso l’Irap consentiva inoltre di ottenere una riduzione del costo del lavoro “spalmando” lo stesso gettito su una più ampia base imponibile, realizzando così l’obiettivo di “tassare i robot”, di cui allora si discuteva nel dibattito internazionale, ben prima che la metafora venisse adottata da Bill Gates, peraltro sommerso anche lui dalle critiche. L’Irap, insieme al recupero di gettito dell’Iva consentì inoltre di riequilibrare la struttura del prelievo in Italia fornendo anche una spinta alle esportazioni: infatti mentre nel 1996 le imposte indirette rappresentavano, l’11,8% del Pil e i contributi sociali il 15%, nel 2001 i contributi erano scesi al 12,7%, e le imposte indirette erano salite al 14,5% (svalutazione esterna),

 Si può quindi affermare che l’opposizione e le critiche all’imposta siano state e siano motivate da motivi politici, pregiudizi ideologici, non di rado da malafede, e soprattutto siano espressione di una abissale ignoranza.

Negli ultimi 20 anni l’imposta ha subito un’evoluzione (?) volta sistematicamente a ridurne il campo di applicazione riducendo sistematicamente la base imponibile, fino ad escludere dal prelievo la quasi totalità dei redditi di lavoro (Governo Renzi) con l’argomentazione che l’imposta incideva anche sul costo del lavoro, quasi che i contributi sanitari che essa aveva sostituito non lo aumentassero anch’essi, e ben di più. L’aspetto paradossale della vicenda consiste nel fatto che la pressione principale ad eliminare i salari e le altre retribuzioni dalla base imponibile dell’imposta sia pervenuta dalla Confindustria, evidentemente inconsapevole del fatto che così facendo si lasciava l’onere del finanziamento della sanità esclusivamente ai redditi diversi da quelli di lavoro, e cioè sui redditi di impresa e da capitale.

In ogni caso è evidente che l’imposta attuale è molto diversa da quella originaria, e quindi l’ipotesi di superarla può avere una sua logica. Si pongono tuttavia alcuni problemi: il primo è come recuperare il gettito perduto. Secondo il Governo il recupero dovrebbe derivare dall’aumento della base imponibile di irpef ed Ires. Secondo altri da un aumento delle aliquote dell’Ires. La prima ipotesi appare improbabile, la seconda comporterebbe un incremento molto consistente dell’aliquota dell’imposta sulle società, scaricando inoltre sui soli profitti anche il gettito che oggi deriva dalla tassazione degli interessi passivi, e aumentando l’incentivo all’indebitamento da parte delle imprese. Molto meglio sarebbe abolire l’Ires e trasformare il residuo di Irap esistente nella nuova imposta sulle società, introducendo nel nostro ordinamento la Comprehensive Business Income Tax proposta nel 1992 in un rapporto del Tesoro americano. Anche in questo modo comunque il finanziamento della sanità sarebbe interamente a carico della Stato, e verrebbe meno gran parte della autonomia impositiva delle Regioni.

Ma la questione di fondo appare un’altra. Oggi i sistemi fiscali dei Parsi sviluppati, e in particolare di quelli europei, devono fare i conti con il progressivo inaridirsi dei redditi di lavoro come base per la tassazione. Fino agli anni ’80 del secolo scorso la quota dei redditi di lavoro rispetto al Pil si aggirava intorno al 65% o più. Oggi è scesa in molti Paesi, Italia inclusa, sotto il 50% (e i redditi di lavoro dipendente non superano il 40% del totale): I sistemi fiscali disegnati dopo la fine della seconda guerra mondiale facevano affidamento per il finanziamento della spesa pubblica soprattutto su imposte e contributi sociali sui redditi di lavoro. Del resto a quei tempi i Governi erano impegnati a realizzare e mantenere la piena occupazione, e quindi il prelievo appariva equilibrato, tanto più che l’imposta sulle società si aggiungeva all’imposta sul reddito (doppia imposizione dei dividendi). Ora tutto è cambiato e il prelievo risulta fortemente sperequato a danno dei redditi di lavoro. Per esempio nel nostro Paese il rapporto tra prelievi sul lavoro e prelievi sugli altri redditi (profitti, interessi, rendite royalties, ecc.) risulta di 3 a 1, rispetto ad una ripartizione del reddito di 47 a 53%. I redditi di lavoro risultano quindi iper-tassati. Se si vuole superare questa situazione ed affrontare razionalmente la questione del cuneo fiscale sul lavoro, bisogna porsi l’obiettivo di cambiamenti rilevanti nel nostro sistema fiscale e contributivo. Ciò significa redistribuire il prelievo e fiscalizzare buona parte dei contributi sociali previdenziali. L’ipotesi di un prelievo generalizzato su tutti i redditi prodotti (cioè sul valore aggiunto netto o lordo) appare quella più ragionevole, come ha riconosciuto anche la Commissione Europea in una sua recente comunicazione al Parlamento.

Dall’Irap all’Irap2?

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