La socialità e il ruolo insostituibile delle politiche urbane

Elena Granaglia, partendo dal libro di Francesco Pecoraro, Lo stradone, riflette sull’inaridimento della socialità e sui costi che ne derivano per le nostre società. Pur riconoscendo i tanti ostacoli ad una rivitalizzazione della socialità, Granaglia individua le responsabilità delle politiche e suggerisce alcuni rimedi. Centrali a questo riguardo si dimostrano le politiche urbane, da quelle urbanistiche a quelle sociali, attente alle opportunità di partecipazione diretta dei cittadini nelle scelte e nella co-produzione dei servizi.

La socialità, intesa come pratica di relazioni fra persone diverse dai propri familiari e dal gruppo ristretto dei propri amici, basate sulla pari considerazione e rispetto degli altri, nel riconoscimento non solo delle differenze individuali, ma anche della comune appartenenza ad una medesima umanità, appare sempre meno al centro delle politiche pubbliche. Si torni, ad esempio, al discorso sul welfare negli anni 50 e 60. La socialità era al cuore delle riflessioni dei padri dello stato sociale, da Marshall a Tawney e Tittmuss. Oggi, invece, l’attenzione per le dotazioni private di risorse è dominante, siano esse trasferimenti di reddito, nelle prospettive più compensative, o di servizi nelle prospettive del welfare attivante e del social investment state. La socialità certo non è scomparsa, ma continua a esistere prevalentemente di fuori delle politiche, nella società civile e con declinazioni che spesso risentono dell’appartenenza religiosa.

La disattenzione pubblica alla socialità ha contribuito a una società più povera di opportunità, meno coesa, incline alle chiusure nei confronti di chi è percepito diverso, più insicura, con più difficoltà di governo. La socialità è infatti sia opportunità di stare bene sia strumento di creazione di senso civico. Come tutti i valori, non si sviluppa, però, in un vacuum. Richiede politiche coerenti. Se neppure si riconosce l’importanza del valore, appare arduo che tali politiche si sviluppino.

Un’occasione importante per riflettere su questo tema è offerta dal romanzo di Francesco Pecoraro, Lo stradone (Ponte delle Grazie, 2019), un magnifico romanzo che non ha certo la finalità di individuare possibili politiche. L’intento è offrire una granulare descrizione della vita in un pezzo di Roma, la Sacca di Valle Aurelia, con il suo monte di Argilla e la zona che un tempo fu delle Fornaci, confrontandola con la vita passata del borgo quale risulta da una pluralità di fonti documentali. Non a caso il libro apre con l’immagine del telescopio spaziale Hubble. Rispetto alla possibilità di individuare le politiche da adottare, sono emblematiche le parole del protagonista, “il mondo non era migliorabile per via politica, l’abbiamo capito tardi, ma l’abbiamo capito. Intanto dateci la pensione”. Quelle che riporto sono, dunque, elaborazioni del tutto personali, un segnale in più, direi, della ricchezza del volume.

Incominciamo dall’inaridimento della socialità. Pecoraro ci porta nelle vite di vecchi “lasciti a perdere del ventesimo secolo, conseguenza di conquiste scientifiche che li portano a vivere un periodo lunghissimo”, che si dimenano fra tentativi desolanti di svecchiarsi anche se non per Eros, per Thanatos, e ciò nondimeno scivolano in una vita sciatta, dove lo scopo prevalente è restare vivi, senza orizzonti giornalieri tranne visite alle sale gioco, ai “vendo oro”, qualche parola al bar detta più per abitudine che non per iniziare un dialogo, con al fianco “cagnetti con occhi a palla”.., “selezionati in base alla affettuosa remissività, piccoli schiavi dalla vita corta”, “cani simbolici di uno stato di isolamento sociale fisico mentale affettivo…”, “i microcane anti-disperazione” (p.139).

E, insieme alle vite dei vecchi, ci porta nelle vite di tanti di noi, “presenze umane solo diacroniche, solo apparentemente viventi nel medesimo intervallo spazio-temporale, solo apparentemente somigliantisi, ma in realtà lontanissime tra loro come mentalità percezione visione del reale contemporaneo (p.12), in un mondo dove nessuno si fida di niente e di nessuno”, non “delle strisce pedonali, perché lì sopra ti travolgono”; non “del fruttivendolo, egizio o bangla che sia” perché “ti rifilano roba di scarto”, non “del droghiere, nemmeno di quello di «fiducia»”; non “di tutti quelli che devono darti il resto”; non “dell’uomo che dice di voler entrare in casa per leggere il contatore”..; non “dei vicini, degli estranei in ascensore”; .. non “di quello che ti chiede un’indicazione stradale” (p.135-7). Persi in un ottuso ristagno culturale, dimentichi “delle sfide drammatiche che ci aspettano”, l’attività principale è divenuto il consumo solitario di beni privati e escludibili, spesso anche di bassa qualità, dunque, di merci, a testimonianza del trionfo del capitalismo come modello di società anche quando, come nel nostro paese, esso fa fatica sul piano economico a generare ricchezza. Aggiungo, beni privati e escludibili che si trasformano in mole di rifiuti dai cui costi, invece, nessuno è escluso. Gli stessi beni negli anni 70, oggetto di diritti, quali casa, istruzione, salute e lavoro vengono oggi sempre più rivendicati come beni privati, da assicurare a se stessi o, ancora meglio, ereditare, nel caso dell’abitazione e addirittura del lavoro. Negli anni 50, ci ricorda ancora il libro, anche nelle famiglie agiate gli oggetti erano pochi e collocati a distanza fra loro, mentre i i rifiuti erano facilmente gestibili con un unico raccoglitore che passava fra gli alloggi.

La mancanza di senso di condivisione con gli altri si estende al passato. Come ci illustra Pecoraro, la città di oggi “domina con la sua materialità lontana che non riesce a inglobare il passato, piena invece di spazi sospesi (terzo paesaggio), non più natura e non più artificio”. Anche su questo piano, stride il contrasto con la nozione di diritti sociali alla Marshall, la quale include il diritto a condividere in pieno l’eredità sociale.

Riconoscere questa povertà relazionale non deve comportare alcuna mitizzazione del tempo andato delle comunità locali. Gli stessi operai della Sacca che nel primo 900 praticavano la socialità, “tutti consapevoli della necessità di stare uniti, di aiutarsi” si ammazzavano anche di vino e a volte picchiavano le donne. Ma, almeno, forme di solidarietà erano presenti e con esse l’opportunità di arricchimento delle singole vite e di governo collettivo che sono andate indebolendosi.

Certo, sono oggi molti i fattori che rendono difficile la socialità. La società, come sosteneva Marx, si adatta alla tecnologia. Il telaio ha generato la società feudale, mentre la seconda industrializzazione ha prodotto il fordismo. Oggi le innovazioni tecnologiche (anche se meglio governate) rendono comunque possibili individualizzazioni del rapporto di lavoro un tempo inimmaginabili; la specializzazione funzionale ha largamente sostituito i meccanismi di auto-aiuto e la rete permette di risparmiare una molteplicità di relazioni umane (per interessanti discussioni sul tema, cfr. R. Rajan, Il terzo pilastro, 2019 e B. Milanovic, Capitalismo contro Capitalismo, 2020).

Si aggiungono poi le difficoltà poste dalle migrazioni e dai crescenti rischi di scivolamento verso il basso di una parte della popolazione italiana. Tornando ancora una volta a Pecoraro, vorrei ricordare l’incontro del protagonista del libro con un “uomo sdraiato sui marciapiedi del sottopasso dell’ormai antica Prima Tangenziale. … L’uomo si copre completamente con una coperta … lo fa anche quando non fa freddo, perché è dalla merda di piccione che si ripara…. Piccioni piccolo-borghesi, nati fra queste travi e ivi residenti, ben pasciuti… Quando gli ho chiesto se per caso stesse male, mi ha mandato praticamente affanculo. Non sapeva che in quel momento gli avrei dato praticamente tutti soldi che avevo in tasca, qualche biglietto da cinquanta, per vederlo alzarsi e togliere di lì. Fosse un cane, un gatto, un qualsiasi animale non repellente, potresti fare qualcosa di concreto per lui….. Ma essendo tu un uomo, lui un uomo, tutto è più difficile” (p. 227-228). E data questa difficoltà, alla fine, il protagonista sente “un sordido sospiro di sollievo” che significa: “Non Ho l’Obbligo Di Aiutare Perché Lui Non Vuole” (p. 228).

Vorrei, altresì, ricordare le osservazioni sul “conflitto etico-politico, confusione fra impulso solidale, ragionamento civile, ripulsa istintiva conflitto fra facoltà primaria” nei confronti delle baracche che sono andate sviluppandosi nelle intersezioni della città. Appare, infatti, evidente, ci dice Pecoraro, “la presenza di una facoltà primaria di abitare una porzione di Pianeta: uomini senza-casa che se ne costruiscono una in un’area libera. Il punto è che, Antartide a parte, non esiste sul Pianeta un solo metro quadrato di terra abitabile che possa considerarsi libero, cioè su cui nessuno abbia imposto un diritto di proprietà.” (p.234). Ma allora come muoversi quando non si hanno, almeno nel breve, appartamenti a sufficienza?

Questi ostacoli sono inoppugnabili. La situazione odierna è, tuttavia, frutto anche delle politiche seguite o non seguite. E, comunque, non siamo i primi umani a affrontare le difficoltà della socialità. La consapevolezza del rapporto fra anomia e società industriale non è certo di oggi. Il punto è che, in alcuni tempi, si è cercato di fare qualcosa e in altri, come nel recente passato, molto meno.

Invertire questa rotta richiede certamente diversi interventi. Serve un’istruzione capace di promuovere il senso di cittadinanza morale di tutti noi anziché limitarsi alla promozione del capitale umano o, anche, dei più complessivi meriti individuali. Servono politiche del lavoro e di governance delle imprese capaci di potenziare la partecipazione dei lavoratori e dei diversi attori coinvolti dalle attività delle imprese stesse. Al riguardo, vorrei ricordare la proposta del Forum Disuguaglianze Diversità di istituzione di Consigli del lavoro e di cittadinanza.

Fra tali politiche, un ruolo importante è svolto dalle politiche urbane. Il modo in cui la città è organizzata facilita o ostacola le nostre relazioni con gli altri, sia con chi vive con noi sia chi è vissuto prima di noi, e ne influenza la qualità. Basti pensare all’allargamento delle possibilità di vita offerte dalla Roma barocca. La città è il luogo in cui si impara la convivenza con i diversi. La città, inoltre, condensa gran parte dell’infrastruttura che produce i beni e servizi essenziali per la vita di tutti, potremmo dire gran parte dell’economia fondamentale (sull’economia fondamentale, cfr. Foundational Economy Collective, Foundational Economy: The Infrastructure of Everyday Life, 2018), dunque, è nella città che un numero importante di politiche di interesse comune trova spazio. La città, infine, offre la scena per esercitare modalità concrete di partecipazione diretta nella realizzazione di tali beni e servizi.

 Per concludere, due indicazioni più specifiche di politiche urbane desiderabili. Una, delineata da Sennet, riguarda interventi urbanistici centrati sui borders, confini porosi lungo i quali si addensano le attività di mondi diversi, così favorendo la relazione reciproca. Troppo spesso, invece, si è fatto leva sui boundaries, confini che separano/escludono/espellono, come le strade che tagliano in due lo spazio, impedendo la comunicazione fra chi abita in un diverso lato, come nella Sacca, ma non solo. L’altra è quella di procedere verso servizi sociali che offrono l’opportunità – sottolineo la nozione di opportunità e non di imposizione – di partecipazione diretta dei cittadini nelle scelte allocative (la maggiore partecipazione è resa possibile dalla scala locale dei servizi stessi) e di co-produzione, implichi essa forme di gestione cooperative dei lavoratori e/o coinvolgimento di lavoro volontario (per una panoramica di alcuni interessanti esperimenti si veda il recente Ownership in Social Care pubblicato dalla New Economics Foundation).

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