La sinistra e le radici storiche del neoliberalismo francese

Luigi Nelli analizza l'attuale assetto della politica economica in Francia e le risposte ai problemi posti dall’emergenza Covid-19 riconducendole alle loro radici storiche, che vengono individuate principalmente nell’affermarsi della nuova sinistra all’inizio degli anni ’80. Dalla sua analisi, Nelli desume che l’ispirazione neo-liberista delle politiche francesi non possa essere oggetto di pur temporanee revisioni, essendo funzionale al progetto di ridefinizione del quadro politico francese portato avanti da Macron.

La reazione del Governo francese alla crisi sanitaria legata al COVID-19, pur con un andamento non privo di tentennamenti e di contraddizioni palesi – si pensi al primo turno delle elezioni municipali che si tenne dopo la chiusura delle attività economiche non essenziali –, ha investito una larga serie di misure di sostegno al reddito che hanno interessato circa 9 milioni di lavoratori.

Una reazione, dunque, che – seppur non pienamente rispondente alle esigenze e richieste delle fasce più deboli della popolazione – può dirsi essere stata commisurata, in termini di spesa totale, alla gravità della situazione. Secondo uno studio dell’OFCE (l’Osservatorio Francese delle Congiunture Economiche) pubblicato lo scorso 26 giugno, se la perdita totale di PIL francese nelle sedici settimane tra confinamento e graduale riapertura si attesta intorno ai 165 miliardi di euro – pari al -22% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e che inciderà per quasi 7 punti percentuali (-6,6%) sull’andamento del PIL nell’anno 2020 -, circa il 58%, infatti, è stato compensato dagli stabilizzatori automatici e dalle misure adottate per contrastare la crisi sanitaria.

Superata la fase più acuta della crisi sanitaria, ora il rischio principale da evitare è quello dell’innescarsi di una spirale recessiva dall’impatto prorompente. Lo scorso 29 giugno, infatti, l’Insee ha indicato come nel mese di maggio i consumi delle famiglie francesi, seppur in netta ripresa rispetto a quelli del mese di aprile, siano risultati ancora del 7,2% inferiori a quelli del mese di febbraio. Nello specifico, dato particolarmente preoccupante è quello della spesa in beni durevoli, ancora del 14% inferiore al livello di febbraio. Basti pensare che, secondo lo studio dell’OFCE già citato, la riduzione dei consumi da parte delle famiglie francesi ha più che compensato le perdite di reddito patite nelle sedici settimane di confinamento e di graduale riapertura: le famiglie francesi hanno risparmiato circa 75 miliardi di euro nelle ultime sedici settimane, e di questi 75 miliardi di euro circa il 15% è ascrivibile al 10% delle famiglie più ricche che, a fronte di una perdita media di reddito di circa 2000€, si stima abbiano diminuito i consumi per più di 6000€; un risparmio netto di gran lunga superiore a quello del 10% delle famiglie più povere, attestatosi a circa 1600€ (peraltro utilizzato prevalentemente per coprire situazioni debitorie preesistenti).

Appare evidente, dunque, come si assista ad una crisi di domanda, che richiederebbe una politica fiscale che stimoli i consumi, rendendo meno conveniente il risparmio. Il tutto in un contesto, come quello francese, fortemente dipendente dalla domanda interna.

Le prime risposte del governo sembrano, però, delineare uno scenario di risposte di segno opposto: il ministro dell’economia francese Le Maire, in occasione del suo intervento in Parlamento durante la discussione del terzo provvedimento di scostamento di bilancio, ha chiaramente detto che “Sarebbe incoerente (abbassare l’IVA) in Francia dove l’aliquota è una delle più basse in Europa e dove la nostra principale sfida economica non è la domanda ma l’offerta”.

La crisi economica innescata dall’emergenza sanitaria da COVID-19 non sembra, dunque, aver minimamente scalfito i convincimenti di fondo della politica economica di Macron, che vedono nella capacità delle imprese – grazie a una fiscalità agevolata e a riforme del mercato del lavoro che le sgravino di numerosi costi diretti e indiretti – di creare lavoro il fulcro della crescita economica.

L’idea, profondamente radicata, che i minori costi per le imprese si tradurranno in maggiori investimenti e in maggiore innovazione che, a sua volta, creerà – anche per via indiretta – posti di lavoro, e che la politica della deflazione interna sia l’unica che possa restituire competitività al sistema produttivo francese è alla base dell’orientamento strategico della c.d. seconda sinistra che, da Delors in poi, ha costituito l’architrave teorica fondamentale intorno alla quale Macron ha costruito e sta portando avanti il suo disegno politico.

Un orientamento strategico, dunque, che ad ora non sembra essere stato scalfito dagli effetti della crisi economica da COVID-19 e che risale almeno al 1983, l’anno in cui alle politiche fortemente espansive e redistributive attuate nei primi due anni di presidenza Mitterrand (1981-1983) fece seguito un profondo riorientamento strategico, da parte della sinistra francese, verso politiche incentrate sul rigore e sulla moderazione salariale.

La sinistra francese, con a capo il leader socialista François Mitterand, era stata infatti eletta nel 1981 con un programma che, dopo una genesi contrastata e frutto di una vivace dialettica interna, era chiaro nei suoi intendimenti di fondo: redistribuzione della ricchezza, lotta alla disoccupazione e aumento dei consumi tramite una riconquista della domanda interna. Il tutto in un contesto di ripresa internazionale ancora stentata e che aveva già largamente abbracciato, nell’attuazione delle singole politiche economiche, i postulati della Nuova Macroeconomia Classica, superando quel keynesismo economico su cui invece continuava a incentrarsi il programma di politica economica delle sinistre francesi negli anni 1981-1982.

Il primo anno vide l’inizio della realizzazione degli – ambiziosi – programmi di governo, attraverso l’attuazione di un massiccio programma di nazionalizzazioni industriali e bancarie, di aumento dei salari e di allargamento dei diritti sociali e civili.

Le prospettive di crescita mondiale erano sufficientemente forti e convergenti affinché si potesse inizialmente nutrire fiducia sulla attuabilità di un programma così vasto che avrebbe necessitato di un contesto internazionale favorevole, dati gli squilibri che in un primo momento si era consapevoli che avrebbe generato.

Ma le cose andarono diversamente: la politica di interventismo, di redistribuzione e di forte stimolo alla domanda interna creò squilibri talmente profondi nei conti con l’estero e nei conti pubblici – alleviando solo, paradossalmente, la difficile situazione economica dei Paesi partner –, da rendere necessaria una repentina virata verso politiche restrittive, di deflazione salariale e imperniate su una visione monetarista: è lì che iniziò la svolta del rigore.

Nel Partito Socialista francese il tentativo del ‘keynesismo in un solo paese’ fu respinto sul piano ideale e dovette infrangersi con la perdurante recessione internazionale. All’interno del Ps erano presenti – benché ormai marginalizzate – anche voci schiettamente favorevoli a intraprendere la via del neo-protezionismo, stante l’impossibilità di operare in un contesto internazionale favorevole. Secondo tale approccio la strada da seguire sarebbe stata l’uscita unilaterale dallo SME al fine di affrancarsi dalla richiesta tedesca di continui tagli di bilancio affrontando un probabile isolamento – non solo economico, ma anche e soprattutto politico –, ma anche riconquistando piena libertà in tema di decisioni di politica monetaria e fiscale. Il duro scontro politico che si sviluppò all’interno del Ps condusse alla sconfitta definitiva dell’ipotesi neo-protezionista allorché i ministri della destra socialista, Delors in primis, riuscirono ad ottenere una mitigazione delle pretese tedesche nell’ambito dei negoziati sul riallineamento della parità dello SME.

Sul piano della riflessione teorica, il tema dell’austerità sollevava diverse questioni, che sono di stringente attualità. Una domanda cruciale è questa: la scelta del rigore di fronte alle politiche di reflazione interna può essere vista come l’accettazione, seppur amara, da parte del Ps del fatto che i vincoli esterni ed interni, e la congiuntura internazionale sfavorevole, non concedevano alle politiche e alle misure di reflazione del primo anno di governo socialista il tempo necessario affinché potessero dispiegare i loro effetti positivi anche nell’equilibrio dei conti con l’estero, nella crescita della produttività del sistema industriale e nel contenimento della crescita dei prezzi? O tale scelta, mirante a sostenere i profitti e gli investimenti tramite una compressione dei salari e una diminuzione della tassazione alle imprese, rappresentò invece l’accettazione di un nuovo paradigma economico, visto come l’unico fondato e in grado di orientare le scelte di politica economica negli anni della crisi del fordismo?

Chi scrive propende per la seconda opzione. La seconda sinistra, il cui esponente più rilevante – e che condizionò in maniera determinante le politiche governative dal 1982 in poi – fu Jacques Delors, era sempre stata, all’interno del Ps, una presenza minoritaria ma rilevante, rappresentando circa un terzo del corpo militante. Utilizzando parole d’ordine quali il “parler vrai” contro il “volontarismo economico” di cui si accusava la sinistra socialista e chevènementiste (Jean-Pierre Chevènement, storico segretario del CERES, centro studi intorno al quale gravitava la sinistra socialista francese) la seconda sinistra francese iniziò una dura battaglia – già prima della vittoria del 1981 – all’interno della sinistra che non solo si traduceva nella ferma opposizione alle nazionalizzazioni e alle politiche di sostegno alla domanda e di keynesismo redistributivo – in favore di politiche miranti alla razionalizzazione del sistema produttivo, di sostegno all’offerta e di attenzione alla produttività delle imprese – ma che avanzava, sul piano sovrastrutturale, una critica sferzante al sistema dei valori del blocco popolare che sosteneva storicamente la sinistra marxista francese, accusato di avere una visione ‘dogmatica’ e non sensibile alle trasformazioni della società e dei suoi nuovi ceti. Ad esempio un giovanissimo François Hollande nel dicembre 1984 accusava:

<<la concezione dogmatica della classe operaia, l’idea che il luogo di lavoro possa essere anche un luogo di libertà, la nozione d’appartenenza degli individui a precise classi sociali, l’affermazione di un programma politico anacronistico, tutto ciò deve essere abbandonato>>

La sinistra modernista mirava, infatti, a vincere la sua lotta per l’egemonia rompendo l’alleanza storica tra le componenti del blocco popolare di sinistra e ridefinendo, in nome della modernizzazione e dell’efficienza del sistema economico e politico, un nuovo blocco lungo un asse che non doveva più essere, dunque, quello della composizione sociale e “di classe”, ma quello generazionale, di genere, della scolarizzazione, dei diritti civili, della flessibilità lavorativa.

La svolta del rigore, dunque, non è un fatto soltanto congiunturale – provocato dall’accettazione dell’impossibilità di resistere ai numerosi vincoli economici che rendevano inattuabile la politica espansiva del 1981 –: essa è la sintesi dialettica di uno scontro molto più datato sulla visione dell’economia e della società, ed è stato anche il motore della ridefinizione complessiva, secondo il disegno della nuova sinistra, di quello che sarebbe dovuto essere il nuovo elettorato naturale della sinistra francese.

Macron raccoglie tale eredità, e sarà dunque difficile che la sua politica economica possa cambiare, malgrado la crisi economica non sembri affatto avere un andamento a ‘V’. Quella politica è infatti coerente con i suoi chiari obiettivi strategici di fondo.

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