La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e i lavoratori a tempo determinato della scuola

Il 26 novembre 2014 la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sulle cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13, C-418/13 Raffaella Mascolo e a./Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, aventi ad oggetto la questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Napoli (con ordinanze del 2, 15 e 29 gennaio 2013), e dalla Corte costituzionale (con ordinanza n. 207 del 3 luglio 2013), sull’interpretazione delle clausole 4 e 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP. Tale accordo, come noto, intende prevenire l’abuso derivante da un’eccessiva reiterazione dei contratti di lavoro a tempo determinato e, a tal fine, vincola gli Stati membri ad adottare, in assenza di misure equivalenti, misure in grado di definire o la durata massima totale dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, o il numero dei rinnovi degli stessi contratti, o la sussistenza di ragioni obiettive che giustifichino rinnovi successivi nel tempo.

La pronuncia del massimo giudice europeo rappresenta l’ultima tappa del contenzioso promosso da alcuni lavoratori del settore scolastico, assunti con contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati in successione per un periodo di tempo superiore ai 36 mesi e, pertanto, in “supposta” violazione del d.lgs. n. 368 del 2001 – di recepimento della direttiva europea sopra richiamata – che ha indicato proprio nei 36 mesi la durata massima totale dei rinnovi. I ricorrenti, ritenendo illegittima la loro condizione, hanno adito i diversi Tribunali competenti richiedendo giudizialmente la riqualificazione dei rapporti di lavoro in contratti a tempo indeterminato, l’immissione in ruolo, il pagamento degli stipendi non percepiti nei periodi di interruzione tra i contratti e, in subordine, il risarcimento del danno subito. I giudici di merito e, da ultimo, la Corte Costituzionale, tuttavia, rilevando alcuni profili di incompatibilità tra la normativa interna e quella europea, hanno richiesto in via pregiudiziale la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea al fine di dirimere le questioni emerse.

In primo luogo, i giudici del procedimento principale hanno rilevato che la disciplina italiana del reclutamento del personale scolastico è esplicitamente sottratta dall’ambito di applicazione del decreto di attuazione della direttiva comunitaria (d.lgs. n. 368/2001), laddove si afferma che “esigenze peculiari ed insopprimibili” del settore possono legittimare l’assunzione del medesimo lavoratore, con contratti di lavoro a tempo determinato ripetuti nel tempo (d.lgs. 165/2001, poi confermata dall’interpretazione autentica contenuta nella l. n. 106/2011). In secondo luogo, gli stessi hanno evidenziato che in caso di abusiva reiterazione dei contratti a termine, si potrebbe unicamente disporre il risarcimento del danno. I giudici, infatti, non potrebbero sanzionare l’abuso attraverso la conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato – così come previsto dalla normativa europea – poiché a ciò osterebbe la considerazione che il personale della scuola statale, così come qualsiasi altro settore della pubblica amministrazione, deve essere selezionato tramite concorso, ai sensi dell’art. 97 Cost..

La normativa italiana in materia (l. n. 124/1999, “Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico”) prevede, infatti, un sistema di reclutamento del personale scolastico basato, da un lato, sul superamento di un concorso pubblico e, dall’altro, sulle supplenze annuali. Tale ultimo “canale” è volto a garantire la copertura del numero di posti effettivamente vacanti e disponibili entro il 31 dicembre di ogni anno, “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione del personale di ruolo” (art. 4, co. 1, l. n. 124/1999), che rappresenta, pertanto, il “canale principale” per l’accesso all’impiego nel settore scolastico. Ne deriva, che i docenti supplenti, assunti necessariamente con contratti a termine, possono essere immessi in ruolo, in funzione dei posti disponibili e della progressione nelle graduatorie nelle quali risultano iscritti, oppure in seguito al superamento di un concorso, di cui è tuttavia impossibile prevedere con certezza il termine per l’organizzazione e l’espletamento. Di conseguenza, potrebbe accadere – ed invero è accaduto dal 1999 al 2011 – che una prolungata interruzione delle procedure concorsuali dia luogo ad un abuso di contratti a tempo determinato stipulati con un medesimo lavoratore, per coprire il medesimo posto vacante.

Tali rilievi emergono nel testo della sentenza in questione e conducono la Corte di Giustizia dell’Unione europea – anche alla luce dei dati forniti dai ricorrenti nel corso del processo principale e attestanti la mancanza strutturale di posti di personale di ruolo – alla conclusione che la normativa italiana sul reclutamento del personale scolastico è contraria alla direttiva europea, poiché non prevede alcuna misura che limiti la durata massima totale dei contratti di durata prestabilita, o il numero dei loro rinnovi. La procedura concorsuale con la quale si dovrebbe determinare il termine ultimo per l’immissione in ruolo dei docenti supplenti, resterebbe evidentemente soggetta ad un regime variabile ed incerto, dipendente da circostanze aleatorie e imprevedibili. Così ancora, in mancanza di altre misure dirette a sanzionare il ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato, le disposizioni attualmente in vigore, escluderebbero di fatto qualsiasi possibilità, per i docenti e per il personale scolastico, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di tali ripetuti rinnovi, in palese contrasto con la direttiva comunitaria.

Per tali motivi, la Corte di Lussemburgo, che pure ritiene l’utilizzo dei contratti a tempo determinato per coprire i posti vacanti disponibili nelle scuole statali, una “ragione obiettiva”, atta a garantire, attraverso il costante adeguamento tra numero di alunni e personale docente e tecnico-amministrativo, un diritto fondamentale della Costituzione italiana qual è il diritto allo studio, censura la normativa interna. Le disposizioni in esame, infatti, “sebbene limitino formalmente il ricorso a tali contratti ad un periodo temporaneo fino all’espletamento delle procedure concorsuali, non consentono di garantire che l’applicazione concreta delle ragioni oggettive sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro”; ed aggiunge, infine, che la normativa italiana, non consentendo la trasformazione di tali contratti in contratti a tempo indeterminato, ed escludendo altresì il risarcimento del danno subito a causa del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore dell’insegnamento “presenta un quadro legislativo privo di misure sanzionatorie a garanzia del lavoro a tempo determinato”. In questo modo, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel rimettere la questione ai giudici del rinvio ha inteso, dunque, affermare che “l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non ammette una normativa che, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali dirette all’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, autorizzi il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti e di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali, ed escludendo il risarcimento del danno subito a causa di un siffatto rinnovo”.

Spetterà ora ai giudici nazionali risolvere la controversia conformemente alla pronuncia dell’organo giurisdizionale comunitario. In attesa di conoscere quale sarà la risposta del Tribunale di Napoli e della Corte Costituzionale, pare opportuno rilevare che ad oggi l’orientamento dei Tribunali investiti da simili questioni sembra essere favorevole all’accertamento dell’illegittimità del ricorso ai contratti a termine da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e al conseguente riconoscimento del danno subito dai ricorrenti (Trib. Chieti, sent. n. 726 del 17 dicembre 2014; Trib. Sciacca, sent. n. 252 del 3 dicembre 2014). Tale orientamento si pone, da ultimo, in linea di rottura con la precedente pronuncia della Corte di Cassazione, sent. n. 10127 del 20 giugno 2012, che – invero senza inviare questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea – aveva rigettato la richiesta di risarcimento del danno pervenuta in ultima istanza, da un impiegato a tempo determinato nella scuola statale, affermando la legittimità della normativa nazionale sul reclutamento scolastico anche nel caso di reiterazione di contratti a termine. La questione sembrerebbe, pertanto, ora riguardare la quantificazione del danno subito dal lavoratore “precario” della scuola statale, che ai sensi del diritto dell’Unione europea, dovrebbe essere risarcito – escludendo la conversione in contratto a tempo indeterminato – in una misura tale da poter riscontrare nella sanzione un chiaro effetto dissuasivo nei confronti del comportamento ritenuto illegittimo.

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