La scuola di Sparta

Stefania Gabriele si occupa della valutazione delle scuole e dei dirigenti scolastici, dopo la denuncia de “la Repubblica” sui rapporti di autovalutazione di alcuni istituti, che enfatizzano le caratteristiche sociali medio-alte dei loro studenti. Gabriele illustra i meccanismi fondamentali della valutazione delle scuole e dei dirigenti scolastici, le nuove competenze di questi ultimi e il sistema di incentivi economici; segnala i limiti della logica competitiva recentemente introdotta e sottolinea i rischi di segregazione sociale e ulteriore polarizzazione tra le scuole.

L’evoluzione del nostro sistema scolastico appare soggetta ad una deriva di cui era facile prevedere la direzione (si veda il precedente intervento sul Menabò), forse non la velocità. Le successive, numerose riforme volte a rafforzare l’autonomia scolastica e l’aziendalizzazione delle scuole, introducendo meccanismi di competitività sempre più accentuata tra insegnanti e tra istituti, sembrano implicare dei risvolti inquietanti, rischiando di incoraggiare comportamenti contrari al principio costituzionale di eguaglianza e al diritto di partecipazione e di inclusione nel sistema di istruzione.

Come è noto, un articolo di Corrado Zunino su la Repubblica («“Qui niente poveri né disabili”: le pubblicità discriminatorie dei licei», 7 febbraio 2018) ha fatto emergere che, nello sforzo di attrarre “clienti”, alcuni Rapporti di autovalutazione (RAV) delle scuole enfatizzano caratteristiche della propria popolazione scolastica come la preponderanza di studenti provenienti dalla medio-alta borghesia, l’assenza o ridotta presenza di alunni che originano da famiglie immigrate, nomadi o non benestanti o di ragazzi con disabilità.

Il RAV, in formato elettronico, viene elaborato in adempimento al DPR 28 marzo 2013 n. 80, secondo un quadro di riferimento predisposto dall’Invalsi e facendo uso dei dati del sistema informativo del Miur, delle rilevazioni sugli apprendimenti e delle elaborazioni sul “valore aggiunto” (ovvero il progresso conseguito) dello stesso Invalsi, e rappresenta uno dei passaggi previsti nell’ambito del processo di valutazione delle scuole. Il RAV viene redatto dal dirigente scolastico (coordinatore scolastico nelle scuole paritarie) e dai componenti del Nucleo interno di valutazione, scelti dal dirigente stesso tra i docenti della scuola; a chiusura spetta ancora al dirigente verificare, completare e pubblicare il RAV. Nelle scuole si deve poi preparare un piano di miglioramento. Segue la valutazione esterna, che implica l’individuazione degli istituti da sottoporre a verifica e le visite dei nuclei esterni, composti da un ispettore e due esperti, di cui uno esterno al mondo della scuola. Quindi si procede alla ridefinizione dei programmi di miglioramento da parte delle scuole e di conseguenza alla realizzazione delle azioni di miglioramento; si deve anche assicurare la rendicontazione sociale dei risultati, tramite la diffusione degli stessi attraverso il portale del MIUR, con una serie di altre informazioni. Prima di esplorare tale portale, tornando all’uso distorto che ne è stato fatto, conviene soffermarsi, sia pure brevemente, su alcuni altri aspetti dell’autonomia scolastica, e in particolare sul ruolo assunto dai dirigenti delle scuole.

Alla valutazione degli istituti è legata infatti quella dei dirigenti scolastici. Nell’individuazione degli obiettivi da assegnare a questi ultimi al momento del conferimento dell’incarico – che in parte devono rispecchiare target nazionali ed eventualmente regionali – il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale (USR) tiene conto anche dei piani di miglioramento. Conseguentemente la valutazione dei dirigenti tiene in considerazione il contributo degli stessi al perseguimento dei risultati previsti dal RAV, oltre ad altri criteri generali quali competenze gestionali, valorizzazione del personale, apprezzamento da parte della comunità scolastica, capacità di direzione unitaria e di promozione della partecipazione e delle collaborazioni. La valutazione si basa sull’autovalutazione del dirigente e sull’istruttoria operata da appositi nuclei composti da un dirigente amministrativo, tecnico o scolastico e due esperti (anche non appartenenti all’amministrazione) e si traduce in un giudizio (“pieno”, “avanzato”, “buono” o “mancato” raggiungimento degli obiettivi), cui è legata anche la retribuzione di risultato. Con la riforma detta “La buona scuola” sono stati stanziati 35 milioni annui dal 2016 per il Fondo unico nazionale per la retribuzione della posizione, fissa e variabile, e della retribuzione di risultato, e ulteriori 46 milioni per il 2016 e 14 per il 2017 per la retribuzione di risultato una tantum (per circa 7.000 unità). Tali finanziamenti sono stati poi rimpinguati con la legge di bilancio per il 2018, che stanzia ancora 37 milioni per l’anno in corso, 41 milioni per il 2019 e 96 per il 2020, mirando ad un progressivo riallineamento della parte fissa della retribuzione di posizione con quella degli altri dirigenti di seconda fascia del comparto istruzione e ricerca, in considerazione dell’ampliamento delle competenze.

Infatti, nell’ambito del controverso processo di aziendalizzazione delle scuole e messa in competizione delle stesse, che si è sviluppato in questi anni sia pure in maniera non lineare, il ruolo dei dirigenti si sta rafforzando. Ad esempio, con “La buona scuola” è stato dato loro il compito di sottoporre a valutazione i docenti in prova (sentito l’apposito comitato, composto da alcuni docenti della scuola, e sulla base dell’istruttoria condotta dal docente “tutor”), nonché di attribuire ai docenti i cosiddetti “bonus”, premi economici volti a valorizzare il merito, sulla base di criteri indicati dal comitato di valutazione (cui vengono aggregati in questo caso alcuni genitori, uno studente nel caso delle secondarie superiori e un componente esterno). Tuttavia, con il contratto da poco approvato dopo anni di blocco, una parte delle risorse appostate per il merito degli insegnanti (70 milioni per il 2018, 50 per il 2019 e 40 per il 2020 rispetto allo stanziamento iniziale di 200 milioni annui) è confluita nelle indennità fisse, e i criteri generali per la determinazione dei compensi, o almeno dell’ammontare degli stessi (ad esempio fissando un minimo e un massimo) sono stati sottoposti a contrattazione integrativa a livello di istituto. Ancora più rilevante appare comunque la responsabilità, affidata ai dirigenti da “La buona scuola”, di scegliere gli insegnanti, chiamandoli dagli “ambiti territoriali” per incarichi triennali, ed eventualmente di proporre incarichi al personale in ruolo presso altri istituti. L’operazione ha avuto sinora una realizzazione solo parziale: per l’anno scolastico 2017/18 meno del 30% degli insegnanti trasferiti in ambito e del 50% dei nuovi immessi ha ottenuto l’incarico sulla base della chiamata del dirigente, secondo dati di fonte MIUR pubblicati da Il Sole 24 Ore (C. Tucci, “Scuola: il flop della ‘chiamata diretta’ dei docenti”, 1 ottobre 2017).

E’ in questo quadro generale che si colloca lo sforzo delle scuole di produrre miglioramenti tangibili, ma anche di comunicare all’esterno le proprie atout, vere o presunte. Le frasi al centro del ciclone si trovano infatti nel portale del MIUR “Scuola in chiaro”, dove sono riportati i RAV delle scuole (presentati attraverso un “cruscotto” comune di confronto) alla voce “Contesto”, sottovoce “Popolazione scolastica”, tra le “Opportunità” (cui si contrappongono i “Vincoli”). Qui gli istituti rispondono tuttavia ad alcune domande guida (Miur, Invalsi, Rapporto di valutazione, marzo 2017): Qual è il contesto socio-economico di provenienza degli studenti? Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate? Quali caratteristiche presenta la popolazione studentesca (situazioni di disabilità, disturbi evolutivi, ecc.)? Ci sono studenti con cittadinanza non italiana? Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza socio economica e culturale (es. studenti nomadi, studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate, ecc.)? Il rapporto studenti – insegnante è adeguato per supportare la popolazione studentesca frequentante la scuola? Tale rapporto è in linea con il riferimento regionale?

Nelle risposte, evidentemente, in qualche scuola ci si è lasciati prendere la mano, trascinati da una logica concorrenziale rafforzata dagli incentivi economici, ma determinata anche dalla stessa “cultura competitiva”, che porta a enfatizzare gli aspetti reputazionali e di prestigio dell’Istituto e di chi lo dirige.

Conforta sapere che la Ministra Fedeli ha stigmatizzato il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, affermando che “Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono, alla voce ‘Opportunità’, frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola. Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione. Si fa un passo indietro rispetto a una delle caratteristiche fondanti della scuola italiana: la capacità di inclusione e integrazione. Una peculiarità riconosciuta anche a livello internazionale” (Ministra Valeria Fedeli, “La scuola deve essere inclusiva” ). La Ministra ha anche promesso che scriverà all’Invalsi perché sia attuato un attento monitoraggio di questi fenomeni e che saranno adottati provvedimenti specifici a seguito dei dovuti approfondimenti.

Resta tuttavia qualche perplessità rispetto al fatto che al Ministero non si avesse contezza – a quanto pare – di quanto pur si poteva leggere nel portale dello stesso Miur.

Ci si può chiedere infine quale tipo di trasparenza implichi la diffusione di informazioni di questo tipo, che non riguardano la scuola bensì gli studenti, e se sia corretto favorire il confronto tra scuole, attraverso un portale pubblico, su questi aspetti. Un conto è l’analisi dei dati da parte della direzione scolastica e delle autorità per combattere la dispersione scolastica e migliorare l’efficacia del sistema, o degli studiosi per comprendere meglio i meccanismi di mobilità sociale e affinare le politiche per accrescerla, un conto la diffusione di notizie su classe sociale e stato di salute degli studenti al fine di “aiutare” la scelta della scuola da parte dei giovani e delle loro famiglie, che rischia di rafforzare i meccanismi di segregazione sociale. In questo modo si favoriscono comportamenti perversi di cream-skimming (selezione degli allievi più adatti allo studio) da parte delle scuole con più “attrattiva” (meccanismi che in qualche caso sono esplicitati addirittura attraverso l’uso dei test di ingresso a fini di scelta degli iscritti, anche per la secondaria inferiore, malgrado la Circolare del Ministero sconsigli di usare criteri di questo tipo). Questi comportamenti possono essere anche finalizzati a migliorare alcuni parametri su cui è basata la valutazione – e in qualche misura la remunerazione – dei dirigenti, come l’apprezzamento della scuola e i risultati degli studenti. Anche se tali risultati dovrebbero essere misurati in termini di miglioramento relativo, una platea studentesca con maggiori attitudini allo studio può rappresentare comunque una condizione favorevole per il successo della scuola. Comportamenti di questo tipo sono d’altronde piuttosto usuali nel contesto di mercati privi dei requisiti che normalmente si attribuiscono a quelli concorrenziali, ragione per cui appunto si ricorre all’intervento pubblico e al servizio universale.

E’ di certo importante che venga stimolato lo sforzo per il miglioramento dei risultati, in termini di apprendimento, inclusione, lotta alla dispersione scolastica, e che gli istituti scolastici siano sottoposti – possibilmente senza esagerare con gli adempimenti burocratici – a processi di verifica del lavoro svolto, anche attraverso apposite ispezioni, uno strumento che dovrebbe essere potenziato. Il perseguimento di questi obiettivi attraverso il rafforzamento degli aspetti competitivi, con gli incentivi, da un lato, e la “concorrenza” attraverso il portale, dall’altro, presenta tuttavia, indubbiamente, dei rischi, in un servizio pubblico che dovrebbe essere votato all’inclusione e a favorire l’incontro tra diversi per assicurare un vantaggio comune. In un contesto di risorse pubbliche limitate per il comparto istruzione, asimmetrie strutturali (geografiche e tra istituti) e diseguaglianze sociali consistenti, l’impostazione competitiva rischia in definitiva di diventare un motore di ulteriore polarizzazione tra poche scuole “top” e una crescente massa di istituzioni scolastiche in sofferenza, cui tenderà a corrispondere una polarizzazione di classe degli studenti.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza dell’autrice.

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