La Russia di Eltsin

Quest’ultimo lavoro di Antonio Rubbi, “La Russia di Eltsin, Editori Riuniti, è assai corposo: non solo per il numero delle pagine, che peraltro si leggono sempre con grande interesse, ma soprattutto per la ricchezza e vastità dei contenuti. Un giacimento vero e proprio di documenti e di notizie, di analisi e di valutazioni, frutto della conoscenza diretta delle fonti e dei protagonisti, dell’acquisizione di materiali spesso inediti, di numerosi “carotaggi” che l’A. ha effettuato sul territorio dell’ex Unione Sovietica con i suoi viaggi di studio e lavoro. Ne scaturisce un quadro multiforme e complesso di un periodo cruciale della nostra storia, quello dell’agonia e degli ultimi spasmi del “socialismo realizzato”, del crollo definitivo dell’Urss come entità statale e del trionfo della globalizzazione americana, considerato dal punto di vista di chi dall’interno analizza il disfacimento di una costruzione politico-statale che al tempo stesso ambiva ad essere un nuovo modello di società, addirittura una formazione economico-sociale alternativa al capitalismo.

C’è in questo libro il pathos della tragedia e lo humour di chi conosce profondamente l’anima russa, non disgiunti dal gusto per i personaggi piccoli e grandi “visti da vicino” (come direbbe Giulio Andreotti). Ma soprattutto, a differenza di altri lavori che hanno privilegiato l’angolazione istituzionale e “politicista”, il lettore troverà qui la trama di un affresco di ampia portata, in cui il decennio eltsiniano viene tratteggiato nelle sue diverse componenti: con riguardo non solo alla lotta politica contingente o all’ingegneria delle istituzioni, ma anche agli aspetti economico-sociali e culturali, come pure a quelli internazionali, che per un Paese come questo continuano ad essere decisivi.

Che tipo di società ha lasciato dopo di sé Boris Eltsin? E qual è la prospettiva della Russia che Vladimir Putin ha avuto in lascito? Il modello del liberismo spinto studiato ad Harvard, ed applicato come un calco, ha generato un capitalismo predatorio con alto tasso di criminalità che sul terreno ha sedimentato una catastrofe sociale, umana ed ambientale: questo risulta dai dati forniti dall’A., alcuni noti e altri inediti. Alla fine degli anni novanta il Pil era crollato del 50% rispetto al 1991, e la crisi del 1998 aveva ridotto drasticamente i salari reali. I fenomeni di disgregazione della società avevano assunto un ritmo galoppante: disoccupazione in crescita verticale, milioni di bambini e anziani precipitati sotto il livello di sussistenza, aspettativa di vita letteralmente decurtata, cosa mai vista in un Paese industrializzato. Contestualmente alla spoliazione dei beni pubblici è cresciuto uno strato di nuovi ricchi (i “nuovi russi”), gente che non ha “nessuna vocazione di tipo imprenditoriale o gestionale, ma una forte propensione alla speculazione e al realizzo”, e che sommerebbe al 7-10% della popolazione, mentre i poveri sarebbero il 73%.

In definitiva, attraverso Eltsin il potere del denaro si è costituito in regime e un’oligarchia ha preso forma, garantita dal sistema presidenziale e dai suoi famigli. Che tale regime, dove tra l’altro fondamentali diritti sociali non avevano corso, possa definirsi una democrazia è assai dubbio. La tesi dell’A. è che Eltsin abbia avuto un ruolo di primo piano nell’estirpare le radici comuniste e sovietiche, ma da qui “a farne il demiurgo di una Russia democratica, che rimane sempre negli auspici ma che ancora non si vede, ce ne vuole”. Seguendo l’analisi di Rubbi, se ne deduce che un’altra strada, più democratica e meno traumatica, sarebbe stata possibile se nella sfida finale con Eltsin avessero vinto Gorbaciov e il suo riformismo. Ma Gorbaciov poteva vincere? E la sua era davvero un’alternativa vera, praticabile?

Personalmente non lo credo. E una conferma mi pare venga dalla riunione dei G 7 tenuta a Londra nel luglio del ’91, di cui Rubbi pubblica una documentazione inedita di enorme interesse. In quella circostanza, a Gorbaciov che chiedeva finanziamenti per fronteggiare una situazione ormai al limite della controllabilità, Bush padre – sostenuto dall’inglese Major e dal canadese Mulroney, oltre che dal giapponese Kaifu – rispose che non si potevano “rilasciare assegni” fino a quando le riforme non fossero arrivate in porto, ovvero (nella traduzione del premier canadese) se non si aprivano a Mosca “locali McDonald’s”. Gli sforzi di Mitterand, Kohl, Andreotti e Delors a sostegno del padre della perestroika si risolsero in un buco nell’acqua, e Gorbaciov fu abbandonato al suo destino. Prevalse, in contrasto con la visione più equilibrata degli europei socialisti e cattolici democratici, il dogma neo-liberista, secondo cui al nemico comunista e al “regno del male” non si fanno sconti, ma bisogna metterlo definitivamente in ginocchio. E’ la stessa linea che, specularmente, sostenne in seguito il democratico Al Gore, chiamato in causa per l’appoggio non proprio trasparente concesso all’entourage eltsiniano e ai suoi instancabili privatizzatori. “E’ stato saggio privatizzare in fretta l’economia russa – dichiarò il vice di Clinton -, pur sapendo che ciò avrebbe condotto a una transizione molto turbolenta. Dovevamo fare tutto il possibile per bruciare i suoi ponti con il passato comunista”.

In realtà il disegno riformista di Gorbaciov era già stato sconfitto dal crollo economico e politico dell’Urss, che si verificò in pochi mesi tra l’ottobre del 1989 e il maggio 1990. Nel frattempo andavano in frantumi uno dopo l’altro i regimi satelliti europei, in concomitanza con l’abbattimento del muro di Berlino. Il cedimento dell’Urss come grande potenza internazionale era clamoroso, e la sua incapacità a giocare qualsiasi ruolo nella guerra del Golfo del 1990-91 e nella costruzione dell’Europa sottolineò questo tracollo. In tali condizioni, la vittoria di Eltsin e la dissoluzione dell’Unione furono al tempo stesso il coronamento di un processo e il colpo di grazia inferto a un leader ormai sconfitto. Credo che abbia ragione Hobsbwam, il quale sostiene che tra perestroika e glasnost in realtà il segretario del Pcus non avesse una chiara strategia di trasformazione, in particolare in campo economico, e fosse molto lontano “dall’esperienza quotidiana del Paese”. Chiusa la guerra fredda con il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, Gorbaciov si mise in cammino ma la meta era sconosciuta. Come ha scritto lo storico inglese, egli “distrusse ciò che voleva riformare e perciò fu distrutto a sua volta in questo processo”.

Il libro di Rubbi va letto e studiato perché di questo processo grandioso e tragico ricostruisce una fase decisiva. Resta aperto il problema di quale tipo di società i sovietici abbiano costruito, e cosa Eltsin abbia effettivamente distrutto. E – ancora – se dopo quel crollo sia oggi possibile pensare una società diversa da quella in cui viviamo. In proposito vi sono parole di Amartya Sen che vanno meditate: “Ritengo si possa pensare il comunismo in due diverse maniere: in primo luogo il comunismo è stato un importante sistema di idee preesistente alla sua realizzazione istituzionale… Questo era il nucleo delle idee che s’incentravano sulla libertà positiva e sulla possibilità di conquistarla con efficienza ed equità… Per quanto concerne la struttura istituzionale, non c’è dubbio che essa ha subìto un brusco declino. Intendo dire che la capacità funzionale dei sistemi comunisti di conseguire questi obiettivi è stata raggiunta per alcuni limitati aspetti ma per molti versi è stato un fallimento. Al contempo le idee che erano alla base, le idee consistenti nel mettere in primo piano la libertà positiva dell’uomo, quelle ovviamente rimangono, e meritano.

Paolo Ciofi

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