La riforma dell’immigrazione negli Stati Uniti e l’opposizione dei repubblicani. La corte federale del Texas sospende l’ executive action promossa da Obama

Il 16 febbraio 2015 il giudice della Corte federale del Texas, Andrew Hanen, ha sospeso l’executive action per mezzo della quale il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, intendeva tutelare dal rischio di espulsione circa cinque milioni di immigrati irregolari presenti nel Paese, pronunciandosi nel caso State of Texas et al. v. United States et al., promosso dallo Stato del Texas e dai rappresentanti di altri 25 Stati dell’Unione.

L’ordinanza consta di 123 pagine di cui circa la metà dedicate al riconoscimento della legittimità a promuovere il giudizio. Solo ad uno stato di frontiera – il Texas –viene riconosciuta la legittimità ad agire dinanzi alla corte federale per impedire l’entrata in vigore, prevista per il 18 febbraio 2015, dei provvedimenti promossi dall’esecutivo[1. La base costituzionale dello standing negli Stati Uniti si trova nella clausola prevista all’art. III, secondo la quale le corti devono giudicare “cases and controversies”. Così, i tribunali devono verificare se l’autore è sufficientemente vincolato alla lite portata al giudice. Come dice il Justice Scalia, “the core component of standing is an essential and unchanging part of the case-or-controversy requirement of Article III”. La Supreme Court nordamericana spesso ammette gli interessi economici come sufficienti per configurare lo standing]. Lo standing è stato riconosciuto in ragione degli oneri finanziari di cui lo Stato si è fatto carico e di cui continuerà a farsi carico per far fronte alla massiccia presenza di immigrati clandestini.

Il ricorso è stato promosso sulla base della presunta non conformità delle executive actions ai requisiti dell’Administrative Procedure Act (APA) del 1946. La corte federale del Texas è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità del programma DAPA (Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents) e sulla legittimazione del Dipartimento per la Sicurezza interna (DHS) ad esercitare discrezionalmente il potere di attuare il suddetto programma. Il giudice si è pronunciato solamente sul punto procedurale, sostenendo che i provvedimenti sono stati attuati in violazione dei requisiti procedurali minimi descritti dall’APA, in base alla quale il governo deve procedere a pubbliche consultazioni prima di attuare una nuova politica o un programma.

Il giudice Hanen ha perciò sospeso l’applicazione dei provvedimenti in attesa che questi siano oggetto di un esame approfondito in occasione del processo, lasciando di fatto aperta la possibilità per l’amministrazione Obama di riproporre il programma sull’immigrazione in una veste nuova, sottoponendolo preventivamente alla consultazione pubblica. Appare, però, piuttosto improbabile che venga percorsa questa strada dal momento che all’indomani della pubblicazione della pronuncia della corte federale del Texas, la Casa Bianca e il Department of Homeland Security si sono dichiarati pronti ad impugnare l’ordinanza.

La decisione sembra di portata piuttosto limitata, tuttavia, essa introduce ostacoli  sul percorso legale del governo. Nell’ordinanza il giudice federale ha infatti concluso che il governo ha “abdicato completamente” il suo dovere di far rispettare le leggi sull’immigrazione degli Stati Uniti, manifestando la propria profonda comprensione per la difficile situazione in cui si trovano gli Stati dell’Unione, ai quali è negato qualsiasi ruolo nel prevenire l’ingresso illegale degli immigrati e, inoltre, sono gravati dai costi necessari all’erogazione dei servizi pubblici a milioni di immigrati clandestini.

Sebbene la pronuncia non sancisca l’incostituzionalità del provvedimento presidenziale essa costituisce un attacco politico dei repubblicani alla riforma dell’immigrazione proposta dall’amministrazione Obama.

Il momento non è dei migliori per il Presidente statunitense. Le elezioni di mid-term del novembre scorso si sono risolte in una pesante sconfitta per i democratici che hanno perso il controllo di entrambi i rami del Legislativo; si è così venuto a realizzare il caso del “governo diviso”, in cui maggioranze diverse controllano il Congresso e l’Esecutivo. L’esito della consultazione elettorale ha inaugurato una nuova fase politica, nell’ambito della quale Obama è chiamato ad affrontare gli ultimi anni del suo secondo mandato da “anatra zoppa” (lame duck), senza poter contare sull’appoggio di una maggioranza congressuale a lui favorevole.

La corsa verso le presidenziali del 2016 si preannuncia, dunque, per i democratici in salita. Sia sul piano internazionale che su quello interno, le sfide sono importanti: prima fra tutte quella posta dalla riforma dell’immigrazione annunciata dal Presidente a giugno e ribadita all’indomani della sconfitta elettorale.

Negli ultimi anni la politica americana ed in particolare l’amministrazione democratica ha individuato tra le proprie priorità l’approvazione di una riforma complessiva della regolamentazione dell’immigrazione negli Stati Uniti. Tale tema costituisce oggi uno dei punti fondamentali nell’ agenda del Presidente e il principale terreno di scontro tra democratici e repubblicani.

Sin dal 1875 il legislatore statunitense ha tentato di regolamentare i flussi migratori verso il Paese. La sistematizzazione della materia è giunta solo in seguito e si deve all’ Immigration and Nationality Act del 1952. La legge, emendata più volte a partire dal 1965, costituisce, ancora oggi, in assenza di una disciplina costituzionale, la pietra miliare per quanto concerne la regolamentazione della materia dell’immigrazione negli Stati Uniti. Nel dettato costituzionale non vi è alcun riferimento esplicito in materia, limitandosi la Costituzione del 1787 a prevedere il riconoscimento al Congresso del potere di “fissare le norme generali per la naturalizzazione” degli immigrati. Sin dalla sua entrata in vigore l’ Immigration and Nationality Act ha conferito all’Attorney General e, più di recente, al Segretario del DHS Secretary piena discrezionalità nell’esercizio del potere di espellere gli stranieri.

La struttura amministrativa federale chiamata a svolgere un ruolo nella gestione dei processi di immigrazione è molto complessa e consegna un ruolo preminente al Department of Homeland Security, dipartimento istituito con legge nel 2002 alle cui dipendenze è stata posta l’Immigration and Naturalization Service (INS), l’agenzia a cui spettava, fino al 2002, controllare l’applicazione delle normative che regolamentano l’ingresso degli stranieri e contrastare l’immigrazione clandestina.

La riforma della immigration policy rappresenta un importante banco di prova per l’esecutivo che ha deciso di farne uno dei punti principali dell’agenda del secondo mandato di Barack Obama. I massicci afflussi registrati negli ultimi mesi al confine con il Messico promettono di dispiegare effetti importanti sulle reazioni del sistema politico e le executive actions adottate costituiscono la risposta dell’amministrazione ad un Congresso incapace di approvare finalmente una legislazione organica, che consenta di far fronte in maniera efficace al fenomeno migratorio che vede in sofferenza soprattutto gli Stati di confine.

L’immobilismo del Congresso ha spinto il Presidente Obama ad annunciare a novembre l’Immigration Accountability Executive Action, attraverso il ricorso all’emanazione di executive orders, atti normativi che possono essere emessi dal Capo dell’esecutivo o da una agenzia governativa, per colmare il vuoto normativo. L’azione dell’esecutivo si è svolta attraverso l’adozione di ben dodici memorandum, di cui dieci adottati dal DHS e due dalla Casa Bianca. L’executive action, illustrata nel memorandum del Department of Homeland Security datato 20 novembre, prevede, tra le varie misure, l’estensione del DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma varato nel 2012 e attuato dal Department of Homeland Security, che permette ai clandestini arrivati da bambini nel Paese di ritardare di almeno due anni l’espulsione grazie alla concessione di un permesso di soggiorno temporaneo. Il piano dell’esecutivo sull’immigrazione prevede anche l’entrata in vigore entro sei mesi del DAPA, Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents.

Sebbene Obama sia intervenuto più volte a sottolineare la natura temporanea dei provvedimenti adottati e la possibilità di una loro revoca in seguito all’approvazione da parte del Congresso della legislazione da lungo tempo attesa, il 23 febbraio la senatrice repubblicana Susan Collins ha presentato un disegno di legge, l’Immigration Rule of Law Act of 2015 (S. 534), che vieta lo stanziamento da parte del Congresso dei fondi necessari a finanziare il piano per l’immigrazione annunciato dal Presidente a novembre. Bloccare i finanziamenti significa di fatto affossare i progetti riformatori di Obama. Gli executive orders, infatti, si rivolgono alle agenzie federali, essi hanno valore di legge e non necessitano dell’approvazione del Congresso per essere promulgati. Tuttavia, la collaborazione del Congresso si rende indispensabile nei casi in cui le risorse previste siano di una certa entità, e comunque il Congresso può modificare o abrogare tali decreti presidenziali.

L’iniziativa della senatrice Collins giunge a pochi giorni dalla pronuncia della Corte federale del Texas e ribadisce la posizione del partito dell’elefantino, determinato ad ostacolare qualsiasi iniziativa dell’esecutivo volta ad aggirare l’opposizione di un Congresso ormai totalmente in mano ai repubblicani.

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