La riforma della Pubblica Amministrazione e quel che servirebbe

Michele Morciano nota che anche il governo Renzi ha voluto la “propria” riforma della Pubblica Amministrazione perpetuando la convinzione secondo cui più che attuare le norme esistenti occorre produrne di nuove. Morciano si interroga poi sul vero obiettivo della riforma: rendere la PA più efficace, efficiente, trasparente ecc. o, viceversa, contenere strutturalmente la spesa pubblica attraverso una riduzione del perimetro dello stato (“uno stato semplice”) e costituire un premierato di fatto (un governo “semplice” per uno stato semplice)?

La Pubblica Amministrazione continua ad essere oggetto di interventi di riforma (da ultimo la legge 7 agosto 2015 n.124 con i previsti decreti attuativi), con l’obiettivo, evidentemente, di renderla più aderente ai princìpi sanciti dall’art. 97 della Costituzione (che recita: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”); e da altre norme,  ad esempio, la legge 241 del 1990 (per la quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza …”).

Malgrado le innumerevoli riforme fin qui varate, il legislatore continua a sentire la necessità di produrre norme (presentate dal governo, questa volta, con lo slogan “”Da uno stato pesante ad uno stato semplice”) sulle materie di sempre: l’organizzazione degli uffici, la dirigenza pubblica, la lotta alla burocrazia e alla corruzione, l’accesso ai dati pubblici da parte dei cittadini, la cittadinanza digitale e così via. Si tratta di un “indice” di argomenti che ricalca materie oramai storicamente oggetto di leggi e decreti.

D’altro canto, la Pubblica Amministrazione incide pesantemente sulle dinamiche sociali ed economiche del paese (ricordiamo solo che la spesa pubblica è stata pari, nel 2014, al 51,1% del PIL) ed è accertato, non da oggi, che essa contribuisce, non proprio positivamente, alla modesta performance del nostro sistema economico e sociale (Cfr. i saggi di C. Fumian e R. Artoni in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta ad oggi, a cura di S. Pons e altri, Carocci, 2014.

Riformare la PA, al fine di assicurare una più rigorosa tutela dell’interesse pubblico e di recuperare la sua capacità propulsiva del progresso civile ed economico del paese è, dunque, un obiettivo perseguito dal legislatore da molti decenni a questa parte, che ha generato un corpo di provvedimenti legislativi tanto impressionante sulla carta, quanto disatteso nella pratica (Cfr. F. Bassanini in Astrid Rassegna, n. 4/2010 e M. Morciano in Amministrazione in cammino, luglio 2008).

Naturalmente, nel corso degli anni, la PA ha subìto cambiamenti significativi, trascinata da una società che ha sperimentato profonde trasformazioni, ma non è riuscita a sconfiggere i suoi mali di sempre, principalmente l’inefficienza, la corruzione e un’inguaribile tendenza ad impegnarsi più nella tutela di interessi privati e corporativi che dell’interesse pubblico.

C’è dunque da chiedersi se questa ennesima riforma possa riuscire a trasformare l’amministrazione pubblica in un “fattore critico di successo” per il paese.

Innanzi tutto, occorre precisare che la legge varata lo scorso agosto è una legge delega e che pertanto  una piena valutazione potrà essere effettuato solo dopo l’emanazione dei  decreti attuativi e, soprattutto,  dopo avere verificato quali effetti essi avranno sulle  forme organizzative adottate dalle amministrazioni e sui servizi da loro offerti. Tuttavia, possiamo fin d’ora proporre alcune schematiche considerazioni sui principali indirizzi della legge di riforma.

Il primo articolo si intitola “Carta della cittadinanza digitale” e impegna il governo a garantire l’accesso di cittadini e imprese “a tutti i dati, i documenti e i servizi di loro interesse in modalità digitale,…” attraverso l’adozione di ”uno o più decreti legislativi … volti a modificare e integrare..” il codice dell’amministrazione digitale (d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82). Un tema, questo della cittadinanza digitale, che da oltre vent’anni rientra tra le priorità dei governi (e delle lobby dell’informatica) e  che il legislatore propone ora di realizzare, come da copione, modificando una norma preesistente e lasciandone poi l’attuazione alle singole amministrazioni.

Gli articoli successivi riguardano altri ben noti pièce de résistance del riformatore, tra cui: il silenzio assenso delle amministrazioni, la segnalazione di inizio attività, l’autotutela amministrativa ed altro, per i quali il governo è chiamato a definire “.. norme di semplificazione e accelerazione dei procedimenti amministrativi..”. In particolare, il governo deve individuare “ .. tipi di procedimento amministrativo, relativi a rilevanti insediamenti produttivi, a opere di interesse generale o all’avvio di attività imprenditoriali..” ai quali possono essere applicati misure tali da comportare una riduzione, al massimo, del 50 %, dei tempi di svolgimento e conclusione, rispetto a quanto attualmente previsto (Cfr. art. 4, comma 1, lettera c). Si tratta di un taglio drastico alla burocrazia (ma perché fermarsi al 50%?), sperando però che le amministrazioni più solerti non tralascino, nella foga riformatrice, di salvaguardare anche gli interessi collettivi tutelati attraverso i procedimenti oggetto di semplificazione.

Un ulteriore obiettivo del governo è quello di razionalizzare e riorganizzare l’amministrazione dello stato, anche in questo caso con l’emanazione di decreti attuativi che modifichino la disciplina della presidenza del consiglio, dei ministeri, delle agenzie governative nazionali, degli enti pubblici non economici nazionali, l’organizzazione delle camere di commercio, degli enti pubblici di ricerca, la disciplina delle partecipazioni pubbliche, delle autorità portuali e dei servizi pubblici locali. Tra le previsioni più specifiche, sempre da attuare mediante appositi decreti, vi sono la riorganizzazione del Pubblico Registro Automobilistico, la razionalizzazione e riorganizzazione degli Uffici territoriali del governo e le disposizioni per l’adozione del numero unico europeo per le emergenze (112).

Non potevano mancare interventi sulla dirigenza pubblica e sulla disciplina del lavoro pubblico (ruolo unico della dirigenza, mobilità, criteri di conferimento degli incarichi e loro durata, sistema di valutazione, etc.) e disposizioni sulla pubblicità e trasparenza, la performance e la lotta alla corruzione. E ricordiamo, tra altre cose, la delega, del tutto superflua, a definire “i criteri di digitalizzazione del processo di misurazione e valutazione della performance..” (Cfr. art. 1, comma 1, lettera e), superflua, dato che a tutti è noto che le amministrazioni non misurano affatto la loro performance (o l’efficacia, o l’efficienza, etc..) per il semplice motivo che la performance, non essendo mai stata definita, non è misurabile; mentre, riguardo alla lotta alla corruzione, il governo sembra ancora impegnato ad emanare decreti di “.. precisazione dei contenuti e del procedimento di adozione del Piano nazionale anticorruzione, dei piani di prevenzione della corruzione e della relazione annuale del responsabile della prevenzione della corruzione.. ”( Cfr. art. 7, comma 1, lettera d), come se queste misure burocratiche potessero avere un qualsiasi effetto sulla corruzione che dilaga, alimentata da norme che garantiscono l’impunità ai corrotti.

Dunque, quarantadue pagine fitte di indirizzi, princìpi e criteri direttivi che prefigurano un obiettivo apparentemente formidabile, il ridisegno complessivo dell’amministrazione pubblica, ma che, come emerge anche da un criterio fondamentale stabilito dalla stessa legge delega (“.. dall’attuazione della presente legge e dei decreti legislativi da essa previsti non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, Cfr. art. 23, comma 1) è, più che altro, un canovaccio che lascia intravedere i due reali obiettivi di un governo che, tra un’evasione da record e una dinamica dei bisogni sociali e della spesa pubblica apparentemente incomprimibili, stenta a gestire (riequilibrare) le finanze pubbliche e a far ripartire, con una crescita significativa, l’economia.

Un primo obiettivo della legge delega sembra essere quello di smorzare, tendenzialmente, la dinamica della spesa pubblica, superando i limiti della spending review, attraverso una razionalizzazione dello stato centrale e periferico, ridisegnandone le competenze, l’organizzazione, i processi e i servizi. L’obiettivo, definito dallo stesso governo, di uno “stato semplice”, verrà molto probabilmente perseguito anche attraverso una sostanziale riduzione del perimetro dello stato, riducendo strutturalmente per questa via il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e liberando fondi per iniziative politicamente vantaggiose: d’altronde, uno “stato semplice” in una società complessa altro non è che uno stato ridotto ai minimi termini, il cui perimetro d’azione viene fortemente limitato, in questo caso, in base a un’ideologia liberista e per far fronte alle necessità di cassa.

Il secondo e più immediato obiettivo del governo sembra essere quello di costruire una sorta di premierato di fatto, con un rafforzamento delle competenze del Presidente del consiglio, perseguito attraverso l’attuazione (la legge dice proprio così) dell’articolo 95 della Costituzione (“.. all’esclusivo fine di attuare l’articolo 95 della Costituzione..”, evidentemente, secondo il governo, ancora inattuato, cfr. art. 8, comma 1, lettera c) e l’adeguamento delle “statuizioni dell’articolo 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400..”, che fanno riferimento ai suoi compiti di indirizzo, coordinamento e promozione delle attività del governo, prevedendo, tra l’altro, poteri sostitutivi e di arbitraggio tra le amministrazioni e poteri decisionali del Presidente, ad esempio, su alcune nomine di competenza e riguardo agli stessi decreti attuativi della legge delega, nonché, tra l’altro, alla vigilanza sulle agenzie governative nazionali (ad esempio l’Agenzia delle entrate).

Questo insieme di disposizioni, lo si è già detto, potrà essere meglio valutato quando saranno emanati i decreti attuativi, ma comunque difficilmente potrà trasformare la PA in un fattore propulsivo per la crescita sociale ed economica del paese, ammesso che questo fosse l’obiettivo. In realtà i suoi mali di sempre, gli sprechi e la corruzione, avrebbero potuto esser più efficacemente combattuti semplicemente attuando le leggi esistenti ed eliminando quelle che continuano, appunto, a favorire interessi privati e corruzione.

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