La recessione negli USA

Dallo scoppio della crisi del mercato dei mutui immobiliari subprime, relativi alla clientela con limitate credenziali, negli Stati Uniti il quadro congiunturale è andato progressivamente deteriorandosi, alimentando crescenti timori, certezze secondo alcuni, che l’economia di questo Paese sia entrata in una fase di severa e prolungata recessione. Il noto economista Martin Feldstein — ex presidente del prestigioso National Bureau of Economic Research, l’istituto che ufficialmente scandisce i tempi delle recessioni americane – ha apertamente parlato della possibilità di entrare nella recessione più dura dal secondo dopoguerra. Il professor Nouriel Rubini, fondatore del Rubini Global Economics monitor, si spinto molto più avanti, teorizzando un catastrofico tracollo dell’economia americana attraverso una serie di eventi e reazioni a catena che propagherebbero la crisi dal mercato immobiliare, ai mercati dei capitali, fino ai grandi gruppi bancari di importanza sistemica. Gli avvenimenti di questi ultimi giorni — culminati con il salvataggio della quinta banca d’investimento americana Bear Stearns da parte di JP Morgan e della Federal Reserve (banca centrale) — sembrano confermare in pieno i tetri presagi del professor Rubini.

Cerchiamo allora di capire cosa sta succedendo all’economia statunitense, provando a tracciare le linee essenziali delle dinamiche economiche in atto. Nella scorsa estate i mercati finanziari sono stati scossi dalla crisi nel mercato dei mutui ipotecari subprime. Sebbene da allora abbiano ripreso a funzionare normalmente, questi continuaino ad essere caratterizzati da un elevato grado di incertezza riguardo l’entità e la distribuzione delle esposizioni dei singoli intermediari finanziari ai prodotti di credito strutturato collegati, anche indirettamente, ai mutui ipotecari. Le difficoltà di valutare la qualità dei bilanci degli intermediari sono anche legate al fatto che, in molti casi si è reso necessario re-iscrivere a bilancio un volume significativo di prestiti ed altre attività altamente illiquide, precedentemente poste fuori bilancio attraverso la creazione di società veicolo. Anche il mercato monetario, dopo numerosi interventi da parte della Federal Reserve per ripristinare adeguate condizioni di liquidità, sembra aver ripreso a funzionare correttamente. Tuttavia, le politiche delle banche continuano a privilegiare prestiti con scadenze a breve termine; per gli orizzonti medio-lunghi i premi per il rischio di credito restano particolarmente elevati.

Sul piano dell’economia reale, gli ultimi dati disponibili sulla crescita del Pil indicano una forte decelerazione nell’ultimo trimestre del 2007, allo 0,6 per cento su base annuale dal 4,9 per cento nel trimestre immediatamente precedente. Il valore pubblicato è ancora provvisorio, a fine mese sarà reso disponibile il dato finale, ma le attese non sono delle migliori. Anche dal lato della produzione industriale provengono segnali poco incoraggianti, ferma a gennaio, a febbraio è caduta di mezzo punto percentuale rispetto al mese precedente. La dinamica del prodotto risente in maniera significativa della correzione in atto dal 2006 nel mercato immobiliare; secondo fonti ufficiali il declino in termini reali degli investimenti in abitazioni ad uso residenziale avrebbe ridotto la crescita del Pil di circa un punto percentuale nel 2007. La situazione è divenuta indubbiamente più difficile nella seconda metà dello scorso anno con lo scoppio della crisi dei mutui subprime, come visto sopra, che ha portato a una drammatica riduzione della quantità di mutui erogati, a seguito del sensibile inasprimento delle condizioni alle quali questi vengono concessi. Lo scorso gennaio, le vendite delle case erano cadute di circa il 30 per cento rispetto al picco del settembre 2005; nello stesso periodo le vendite delle nuove case diminuivano di circa il 50 per cento rispetto al loro valore massimo nel luglio 2005. Come risultato del progressivo aumento del numero degli immobili rimasti invenduti, la crescita dei prezzi delle abitazioni ha cominciato a rallentare, fino a contrarsi in numerose aree del paese. Lo scorso ottobre uno dei principali indici dei prezzi del settore, l’indice Case-Shiller, segnava una caduta di oltre il 15 per cento rispetto al picco nel dicembre 2006. Tale andamento sfavorevole si è riverberato sulle quotazioni delle attività finanziarie legate ai mutui nel settore immobiliare (mortgage backed securities).

La debolezza dei prezzi delle abitazioni, congiuntamente a quella delle attività finanziarie ad esse legate, ha avuto un impatto negativo sulla ricchezza finanziaria delle famiglie, producendo un aggiustamento al ribasso dei loro piani di consumo. I consumi delle famiglie infatti, dopo aver mostrato una buona tenuta durante gran parte del 2007, hanno rallentato marcatamente verso la fine dello scorso anno, e, secondo le indicazioni desumibili dagli indicatori di fiducia delle famiglie starebbero ulteriormente rallentando nel primo trimestre dell’anno in corso. Ulteriori fattori sembrano incidere sulla dinamica dei consumi delle famiglie. In primo luogo, la riduzione del numero degli occupati e il forte aumento dei prezzi dei prodotti energetici e alimentari hanno assottigliato il reddito reale disponibile delle famiglie per l’acquisto di beni di consumo. In secondo luogo, l’inasprimento dei criteri di erogazione del credito da parte delle banche ha reso più difficile reperire risorse per finanziare i piani di consumo. In prospettiva, questi fattori dovrebbero continuare a pesare significativamente; un parziale miglioramento è previsto verso la fine della primavera quando molte famiglie cominceranno a ricevere gli aiuti fiscali contenuti nel pacchetto di stimolo fiscale, recentemente introdotto dall’amministrazione Bush per sostenere l’economia. Il pacchetto, inoltre, prevede delle misure per rilanciare gli investimenti delle imprese indeboliti dal peggioramento del clima di fiducia, dall’elevata incertezza sull’andamento degli utili futuri, e dal restringimento delle condizioni nel mercato del credito.

Nel quadro congiunturale appena delineato, una nota incoraggiante proviene dal settore estero, il cui contributo alla crescita del prodotto è ultimamente divenuto positivo, dopo anni di contributi negativi. Ciò ha riflesso la forte espansione delle esportazioni, aumentate a tassi superiori al 15 per cento dalla metà dello scorso anno a seguito del continuo indebolimento delle dollaro rispetto alle valute dei principali partner commerciali.

In questo contesto, i continui e forti rincari dei prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari hanno favorito la crescita dell’inflazione. Lo scorso febbraio, l’indice dei prezzi al consumo si attestava al 4 per cento sui dodici mesi, da un valore di poco superiore al 2 per cento nel corrispondente mese del precedente anno. Nello stesso periodo l’aumento dell’indice al netto delle componenti più volatili (beni alimentari ed energetici), la così detta core inflation, si era stabilizzata intorno al 2,3 per cento sui dodici mesi. Il dato di febbraio, seppur elevato, è stato più basso delle previsioni, e ciò ha alimentato le attese per un nuovo intervento delle autorità di politica monetaria sui tassi di riferimento. Dallo scorso settembre, la banca centrale americana è intervenuta aggressivamente sui tassi di riferimento, abbassandoli in sei occasioni per un totale di 250 punti base (2,5 punti percentuali) al fine di contrastare l’accresciuto rischio di una recessione connesso agli effetti delle turbolenze finanziarie sulle condizioni del credito alle famiglie e all’imprese.

In conclusione i segnali che emergono dall’economia reale e dai mercati finanziari sembrano confermare i timori per una forte recessione.

Le conseguenze di questa prospettiva sollevano seri rischi per la crescita mondiale; molti economisti si sono infatti chiesti se le economie degli altri paesi, in particolare quelle dei paesi emergenti, seguiranno gli Stati Uniti nella recessione. I pareri degli esperti non sono concordi: alcuni osservano che, in un mondo sempre più globale, le dinamiche economiche dei diversi paesi divengono sempre più sincronizzate; altri invece ritengono che, nell’economia globale, l’attività economica dei singoli paesi dipenda sempre meno da quella di un’altra singola economia (fenomeno chiamato decoupling). Secondo quest’ultima corrente di pensiero, una recessione negli Stati Uniti continuerà ad avere un effetto sulle economie del resto del mondo, ma inferiore a quello registrato nelle passate fasi di rallentamento congiunturale. Vi possono essere diverse spiegazioni per tale fenomeno: in primo luogo, negli ultimi anni le esportazioni dei paesi emergenti verso gli altri paesi emergenti hanno registrato un significativo aumento, mentre quelle verso gli Stati Uniti sono diminuite. Questo è il caso della Cina, ad esempio, dove nell’ultimo anno le esportazioni verso Brasile, India, e Russia hanno registrato consistenti aumenti, mentre le esportazioni verso gli Stati Uniti hanno rallentato marcatamente; attualmente circa metà delle esportazioni cinesi sono dirette verso le altre economie emergenti. Nel 2007 le quattro più grandi economie in termini di contribuito alla crescita del prodotto mondiale erano le meno dipendenti dalle esportazioni verso gli Stati Uniti: la Cina con poco meno del 10 per cento sulle esportazioni totali; l’India, il Brasile e la Russia con meno del 4 per cento. Per quanto riguarda le economie emergenti più piccole, esse continuano a dipendere in misura significativa dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, sebbene il commercio con le altre economie emergenti sia in continua crescita. In secondo luogo, è cambiata la natura della crescita economica di questi paesi: prima essenzialmente basata sul settore estero, adesso è divenuta più solida poiché basata principalmente sulla domanda interna, per consumi e investimenti. A titolo di esempio, nell’ultimo anno i consumi dei paesi emergenti sono aumentati ad un ritmo di circa tre volte superiore a quello dei paesi avanzati; mentre gli investimenti in capitale fisso hanno registrato un balzo di oltre il 15 per cento rispetto ad un valore di poco superiore all’1 per cento nei paesi industriali.

In conclusione, come è stato osservato in un recente articolo apparso nel “The Economist”[1], una recessione negli Stati Uniti avrà inevitabilmente un impatto sulle economie in via di sviluppo, soprattutto se accompagnata da una caduta dei corsi delle materie prime energetiche ed alimentari, e da un crollo dei mercati finanziari con conseguente perdita di fiducia da parte degli investitori internazionali. Tuttavia, la forte espansione economica sperimentata da molte e importanti economie emergenti durante gli ultimi anni ha permesso loro di godere di ampi avanzi nei conti con l’estero, di accumulare ingenti riserve valutarie internazionali, e di raggiungere posizioni di bilancio solide. Ciò, per la prima volta, ha permesso a questi paesi di utilizzare la politica fiscale e quella monetaria a fine di sostegno del prodotto, dando così al mondo intero un motivo in più per sperare di fugare lo spettro di una recessione.
(Washington 22/3/08)

[1] “The decoupling debate” in The Economist, pagg. 79-81, volume 386 numero 8570, 8-14 marzo 2008.

Schede e storico autori