La raccolta differenziata e le sue ragioni

Nadia Ramazzini si occupa del complesso rapporto tra cittadino e rifiuti e della rilevanza che assumono, al riguardo, il rispetto collettivo, le buone pratiche ambientali e il ciclo industriale del recupero e trattamento dei rifiuti. Ramazzini mostra che l’equilibrio precario tra consapevolezza ambientale, riciclo di materia e opportunità industriali deve fare i conti con i costi del servizio di raccolta dei rifiuti, che dovrebbero essere meglio e più equamente ripartiti tra tutti gli attori coinvolti.

Occuparci dei rifiuti che produciamo è un dovere civico, un gesto di rispetto collettivo, un segnale di civiltà. Il livello di pulizia e di decoro, infatti, influiscono positivamente sulla percezione del contesto in cui viviamo, innescano comportamenti virtuosi di rispetto per le generazioni future e per il nostro pianeta Tuttavia, in Italia, il rapporto tra cittadino e rifiuti è perennemente tormentato. Cerchiamo di capire il perché.

A fronte del sempre maggiore impegno e coinvolgimento del singolo nella corretta gestione dei propri rifiuti (si pensi alle elucubrazioni mentali nel cercare di capire in quale bidone mettere il tubetto di dentifricio vuoto o una posata di plastica usata), non corrisponde una altrettanto chiara e univoca percezione di quale sarà il destino di quei rifiuti e quale beneficio, economico e ambientale, corrisponderà a quell’impegno. Sono queste due semplici domande che dovrebbero ricevere risposte altrettanto chiare. E invece accade che nel complicato intreccio di dati e di percentuali di raccolta differenziata, più o meno virtuosa, si faccia ancora fatica a comprendere che separare i rifiuti nelle nostre case non è soltanto un gesto da cittadini educati, ma il primo stadio di un processo complesso. La “raccolta differenziata” dei rifiuti urbani è la fase iniziale di un ciclo industriale ed economico – condizionato dalle scelte dell’industria nel generare i prodotti, dai metodi di confezionamento ed imballaggio delle merci e dalle nostre abitudini di consumatori – che prosegue facendo affluire i rifiuti, puliti e opportunamente differenziati, a vere e proprie filiere del recupero che da essi traggono nuova materia e nuovi prodotti da mettere a disposizione del sistema economico.

Adottando questa prospettiva, è facile comprendere perché le percentuali di raccolta differenziata sono un indicatore molto parziale della bontà delle pratiche ambientali. Ciò che conta davvero è la quota dei rifiuti, sapientemente differenziati, che riesce a diventare nuova materia da reimmettere nel circuito produttivo. L’Italia è l’unico paese Europeo nel quale le politiche di recupero di materia dai rifiuti hanno come solo parametro le percentuali di raccolta differenziata, senza alcun riferimento all’effettivo recupero. Per questo motivo il nostro paese dovrà fare un salto di qualità se vorrà adeguarsi agli obiettivi del nuovo “Pacchetto di azioni per promuovere la transizione verso un’economia circolare” della Commissione Europea, che prevede il raggiungimento, entro il 2030, dell’obiettivo del 65% non di raccolta differenziata ma di riciclaggio e preparazione al riuso dei rifiuti urbani.

Se, pertanto, l’effettivo riciclo di materia è il vero fine da perseguire, se è questo il destino ineluttabile e lo scopo reale di tanto prodigarsi nel separare diligentemente i rifiuti che produciamo allora si tratta di trasmettere con chiarezza questo messaggio. Conoscendo il fine ultimo del suo gesto nel separare i rifiuti – e il contributo che così dà un processo che genera ricchezza, consapevolezza ambientale e perché no, opportunità occupazionali – il cittadino potrà più facilmente sviluppare un atteggiamento positivo nei confronti della raccolta differenziata e troverà accettabili infrastrutture, isole ecologiche, ecodistretti e impianti di recupero.

I benefici che si produrrebbero se Sindaci e Amministratori pubblici avessero come obiettivo non la percentuale di raccolta differenziata, ma l’effettivo recupero di materia dai rifiuti, sarebbero enormi e sarebbero di carattere ambientale e economico. Ad esempio, sarebbe più facile, superando sterili ideologismi, adottare le soluzioni tecnologiche che meglio consentono di ottenere il massimo in termini di recupero di materia, valorizzando economicamente la vendita sul mercato di preziose materie prime seconde. In questo modo carta, plastica, vetro e metalli tornerebbero disponibili nella catena produttiva, sostituendo le cosiddette “materie prime” che, come sappiamo, sono limitate ed in esaurimento.

In una prospettiva generale, i rifiuti che produciamo possono essere raggruppati in due grandi filoni: quelli riciclabili e quelli non riciclabili. I primi possono essere direttamente avviati alla filiera del recupero e, quindi, hanno un valore, un mercato sicuro e il nobile compito di sostituire materie vergini. I secondi, per natura o caratteristiche intrinseche (si pensi agli imballaggi poliaccoppiati: confezioni, astucci o tubi costituiti da materiali diversi saldati insieme), trovano collocazione solo in discariche o inceneritori ed è preferibile che, anziché essere sotterrati in discariche, siano usati come combustibile per la produzione di energia e calore.

L’obiettivo di una corretta e sostenibile gestione integrata dei rifiuti è quindi quello di incentivare al massimo ogni forma di recupero. Ciò non soltanto per monetizzare il valore intrinseco della materia, ma anche per favorire il ritorno economico alla collettività degli extra costi della raccolta differenziata. Infatti, dalla vendita sul mercato della materia recuperata potrebbero trarsi risorse da destinare a chi sostiene quei costi in modo da limitare il loro ammontare netto, che finisce per ricadere sui cittadini. Sotto questo aspetto la situazione nel nostro paese è significativamente peggiore rispetto a quella degli altri paesi europei.

La riprova che puntare sulla raccolta differenziata – come primo passo di una strategia di recupero – è vincente viene da una rapida analisi dei costi che le famiglie italiane sopportano per la TARI, la tassa per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Nel 2015, secondo quanto risulta dall’Osservatorio Prezzi e Tariffe Cittadinanza Attiva, una famiglia italiana tipo (3 persone, un reddito lordo complessivo di 44.200 euro e una casa di proprietà di 100 metri quadri) ha pagato mediamente 298 euro di TARI (+2% rispetto al 2014), ma le disuguaglianze nell’onere del prelievo sono enormi: la Campania, pur raggiungendo il 47,6% di raccolta differenziata, è la regione dove l’onere è maggiore (419 euro annui per famiglia), mentre il Trentino Alto Adige, con il 67% di rifiuti avviati a riciclo, registra la migliore performance in termini di ribasso della TARI (-13% rispetto al 2014) e fa spendere solo 193 euro a famiglia. Belluno è la città più economica (137 euro all’anno), mentre Reggio Calabria è la più costosa (604 euro); un onere così alto non appare giustificabile dato che l’intera regione raggiunge un timidissimo 18,6 % di raccolta differenziata. La maglia nera, spetta alla Sicilia che, pur producendo 2.342.219 tonnellate di rifiuti all’anno, poco meno di quanto viene generato in Campania (2.560.486 tonnellate, dati 2014), registra una percentuale di raccolta differenziata del 12,5%, e nonostante ciò il costo medio per una famiglia che vive a Catania è di 435 euro.

Tra le 10 città più “costose” 9 sono localizzate nelle regioni meridionali e una in quelle centrali (Grosseto con 429 euro per famiglia) mentre le performance di raccolta differenziata sono rispettivamente: 31% al Sud, 40,8% al Centro e 56,7% al Nord; risulta, dunque, facile comprendere che l’incapacità di una parte importante del Paese di mettere in pratica serie e concrete politiche ambientali, si è trasformata in una zavorra che come un cappio al collo strozza i cittadini di tasse e favorisce ciò che nessuno ammette, ma che è evidente: lo smaltimento dissennato e senza controllo in discariche, perlopiù private, ha l’effetto di “drogare” il mercato e di impedire la vera svolta industriale del ciclo integrato dei rifiuti.

I dati ci mostrano un Paese a due velocità: un Nord che ha saputo dotarsi, per tempo e con coraggio, di infrastrutture efficienti per il recupero e il riciclo dei rifiuti e che riesce a contenere le tariffe e un Centro-Sud troppo dipendente dalle discariche e con servizi a volte scarsi rispetto all’onere economico a carico delle famiglie. Ciò, però, non vuol dire che i problemi di cui si è detto in precedenza riguardino esclusivamente il Centro-Sud. Quei problemi, infatti, non si riferiscono soltanto alla dimensione economica, ma a tutto ciò che ostacola l’adozione di misure che consentono di prevenire la formazione dei rifiuti e di provvedere alla loro separazione.

Che fare, allora, nel complicato puzzle di norme, costi e limiti gestionali nell’attesa che possa attuarsi una visione evoluta dell’ambientalismo moderno che sappia coniugare rispetto del territorio e opportunità industriali? Scegliere! Tutti noi siamo chiamati ogni giorno a scegliere e a decidere se trasformare in rifiuto ciò che stiamo maneggiando. Il richiamo alla Direttiva 2008/98/CE sui rifiuti torna utile nelle sue definizioni: ‘è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto il cui detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi’. Se un prodotto diventerà definitivamente e irrimediabilmente rifiuto dipende dalle nostre scelte, la conseguenza diretta di una valutazione, a volte frettolosa, che decide la vita o la ‘morte’ degli oggetti che ci circondano.

Soffermarsi su questo aspetto non è banale, perché riposizionare la figura del singolo nel proprio rapporto con il mondo circostante servirebbe a riprendersi un ruolo attivo in termini di equilibrio e rispetto dell’ambiente e promuoverebbe una visione del servizio pubblico di igiene urbana non assistenzialistica, cioè non basata sul presupposto che qualcuno verrà sempre e comunque a ritirare i nostri rifiuti. Scegliere se buttare o conservare un oggetto o valutare se convenga riutilizzarlo oppure ripararlo o ancora regalarlo ai centri del riuso, non è una visione romantica di pochi ecologisti, ma è un processo mentale, prima che un’azione concreta, che ci obbliga a riflettere in merito alle conseguenze di ogni nostro singolo comportamento.

Riappropriarsi di questo ruolo significherebbe scegliere se acquistare un nuovo elettrodomestico o riparare quello in uso oppure comprarne uno con garanzie di durata maggiori. Comprendere che non è legittimo e nemmeno etico produrre incondizionatamente rifiuti e che mai nella storia ci fu civiltà tanto scellerata ci spingerà, ad esempio, ad evitare prodotti con imballaggi troppo complessi e a preferire l’acquisto di merce sfusa, oppure ci vedrà impegnati nel trovare nuova vita e nuovo riutilizzo di oggetti come abiti, mobili e utensili. Non è un ritorno alle origini, un nostalgico guardare indietro alla vita di nostri nonni che non buttavano nulla, non è una rinuncia al benessere o un ostacolo alla tanto evocata ripresa economica, ma è offrire un approccio nuovo di consumo consapevole.

Queste considerazioni sono del tutto coerenti con l’esigenza, del tutto prioritaria, di adottare in generale e in modo esteso comportamenti che prevengano la produzione dei rifiuti. Questi ultimi, infatti, prima di essere una risorsa sono un problema e dunque dovrebbero essere limitati. Agenti economici consapevoli – consumatori e imprese – dovrebbero acquisire questa consapevolezza e gli interventi pubblici dovrebbero essere orientati a incentivare e premiare comportamenti in grado di realizzare questa priorità.

Dunque, le possibilità di scelta esistono e le opportunità di crescita economica e sociale sono immense. Se pretendere di vivere in un ambiente sano e decoroso è un diritto, impegnarsi in prima persona perché la vita non sia solo un banale ‘usa e getta’ è un dovere.

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