La questione territoriale dell’università italiana

Gianfranco Viesti sostiene che vi è una duplice questione territoriale nell’università italiana. Per motivi strutturali: fare università nei territori più deboli è più difficile. Per le politiche seguite negli ultimi 10 anni: chi fa università nei territori più deboli è stato penalizzato. L’interazione fra le condizioni strutturali e le politiche sta producendo un aumento cumulativo delle disparità fra atenei, con effetti negativi per quelli del Centro-Sud (e del Nord più debole). Viesti in conclusione invita a discutere approfonditamente la difficile questione territoriale dell’università italiana.

Esiste una questione territoriale nell’università italiana? Sì. Essa è connessa all’impatto che sul sistema dell’istruzione superiore hanno le diverse condizioni economiche delle regioni italiane. La vita degli atenei è influenzata dal contesto nel quale essi si collocano. Per più motivi, almeno i seguenti:

1) i livelli di reddito delle famiglie determinano la loro capacità di sopportare i costi, contributivi e non, degli studi; anche alla luce del livello particolarmente alto della tassazione universitaria. A minori livelli di reddito corrispondono minori iscrizioni. A loro volta le immatricolazioni influenzano – nei calcoli del finanziamento pubblico – le risorse pubbliche disponibili per gli atenei;

2) le disponibilità di servizi, in particolare la situazione dei servizi di trasporto urbano e regionale, condizionano la capacità di frequentare l’università “pendolando”, così come le disponibilità di alloggi e mense. Anche questi fattori influenzano se immatricolarsi e dove farlo;

3) le competenze in ingresso degli immatricolati alle università, alla luce dei divari misurati dalle indagini Invalsi e OCSE-PISA, che determinano tempi più lunghi per il conseguimento della laurea, e richiede un maggiore investimento formativo degli atenei;

4) la presenza delle imprese sul territorio, e la connesse possibilità di collaborazione nelle attività di ricerca e trasferimento tecnologico, e di acquisire finanziamenti aggiuntivi, per i dottorati o per attività di collaborazione, considerando che il finanziamento privato copre una significativa quota delle entrate degli atenei. Lo stesso vale per le Fondazioni;

5) le realtà e dinamiche del mercato del lavoro, che hanno un effetto significativo sulle scelte geografiche di immatricolazione degli studenti.

Le complessive politiche di regolazione e finanziamento del sistema universitario dovrebbero tenere conto di queste differenze. Fare università in Calabria o in Sicilia non è la stessa cosa che in Lombardia o in Emilia-Romagna. Ancor più perché il ruolo delle università, ovunque prezioso, è decisivo nelle aree meno avanzate.

In Italia le politiche universitarie tengono conto dei contesti nei quali gli atenei operano, ma in maniera opposta a quanto sarebbe auspicabile: penalizzano gli atenei collocati nelle aree più deboli.

Al tema si sono già dedicate alcune analisi (i volumi Università in declino e La laurea negata, alcuni interventi sul Menabò – 30.7.2015, 14.3.2016, 17.4.2016, 1.12.2016; un articolo in pubblicazione sulla rivista Sinappsi, da cui sono tratte le tabelle che seguono). In quelle sedi si è mostrato come le scelte di politica universitaria abbiano volutamente determinato una compressione, selettiva sul piano geografico e cumulativa nel tempo, dell’università italiana. Ciò è avvenuto attraverso i parametri di allocazione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) fra gli Atenei. La tabella 1 illustra gli esiti di quelle scelte per le 15 maggiori università italiane. Fra 2008 e 2018, a fronte di un calo nominale di risorse del 4%, si va da una riduzione del 23,5% per Messina ad un incremento del 6,2% per Torino.

Uno dei casi in cui il collegamento tra il reddito dei territori e le regole del sistema è più diretto, è nell’allocazione dei punti organico (PO). I punti organico sono una misura che standardizza il costo delle diverse figure presenti nelle università italiane; essi sono concessi dal Ministero e utilizzati dagli Atenei tanto per nuovo reclutamento quanto per le progressioni di carriera. A seguito delle politiche di austerità è stato imposto alle università, fino al 2018, un turnover limitato; i PO concessi sono stati inferiori, anche in misura notevole, a quelli corrispondenti al personale andato in quiescenza.

Nel 2012 venne deciso che il turnover dovesse essere diverso per i singoli atenei. Esso viene da allora stabilito in base ad un algoritmo; il cui principale indicatore misura il costo del personale (personale “a carico ateneo” a cui sono aggiunti altri costi minori) in relazioni alle entrate degli atenei (date dal FFO e dalle tasse pagate dagli studenti). Minore questo indicatore, maggiore il turnover. Si noti subito che, con le dinamiche del FFO in corso già dal 2008 e mostrate nella tabella 1, l’indicatore era già peggiorato (ed è ulteriormente peggiorato negli anni successivi) per gli atenei delle aree più deboli del paese: a fronte di costi incomprimibili per il personale in servizio si erano ridotti i finanziamenti pubblici, limitando le possibilità di nuove assunzioni. Ma ciò che rileva ancor più è che nel denominatore, assieme al FFO, viene considerato anche il gettito delle tasse universitarie.

Il gettito delle tasse è fortemente correlato alle caratteristiche dei contesti delle università. Si guardi la tabella 2 (i dati si riferiscono ad anni differenti in base alla loro disponibilità). A titolo esemplificativo compariamo Catania e il Politecnico di Milano.

La prima colonna mostra il turnover dal 2012 ad oggi: a fronte di una media nazionale del 57,6% si va dal 35% di Catania al 120,9% del Politecnico di Milano: lo scarto è amplissimo, con un rapporto di 1 a 2,1. Ma il turnover è correlato al reddito delle famiglie degli studenti, mostrato nella seconda colonna; che era nel 2014-15 pari a 16.400 euro a Catania, con un rapporto di 1 a 1,8 rispetto al Politecnico di Milano; la contribuzione media per studente (terza colonna) era nel 2013-14 di 724 euro, con un rapporto di 1 a 2,5 rispetto al Politecnico (rapporto un po’ diminuito, fino a 1 a 2,2 nel 2016-16 dato che la contribuzione media, fra quelle due date, è aumentata molto di più a Catania (+24%) che al Politecnico (+7%).

Ciò avviene in un periodo nel quale le tasse universitarie sono molto cresciute (per i dati si veda qui): in tutto il paese ed in particolare al Sud; anche a causa del forte calo del finanziamento pubblico di cui si è detto. L’aumento del costo degli studi, specie in un periodo di crisi, ha disincentivato le iscrizioni, maggiormente nei territori dove il reddito è inferiore. Ciò ha suggerito in tempi più recenti la decisione di istituire una “no-tax” area per gli studenti meno abbienti: certamente positiva, ma che non risolve i problemi di cui qui si sta discutendo.

Dato il forte aumento delle tasse universitarie il loro gettito rappresenta oggi una fonte molto importante di finanziamento aggiuntivo rispetto al FFO; ma, dipendendo queste entrate dalle basi imponibili, sono minori a Catania (20,3% del FFO) che al Politecnico (37,3%): un rapporto ancora una volta di 1 a 1,8.

Infine, si guardino i dati dell’ultima colonna. Nel 2018-19 il turnover nazionale è tornato al 100%: cioè i PO concessi agli atenei sono pari ai PO derivanti dai pensionamenti. Ma questo solo per il totale nazionale. Dati i criteri di calcolo dell’indicatore, il turnover resta assai superiore per gli atenei dell’Italia ricca e inferiore per quelli dell’Italia povera. E così sarà nei prossimi anni. E’ in corso un processo cumulativo di differenziazione degli atenei: chi opera in contesti più ricchi ha diritto a maggiori possibilità di reclutamento. Le maggiori possibilità di reclutamento influenzano altri elementi: l’ampiezza dell’offerta didattica, che influenza le immatricolazioni (e la loro mobilità territoriale) e quindi lo stesso FFO; il valore della valutazione della qualità della ricerca (VQR) per i ricercatori più giovani – allenati a queste metriche – e quindi, ancora, il FFO. Le dinamiche del FFO retroagiscono sull’indicatore dei punti organico. Un fenomeno cumulativo.

La logica di queste scelte è chiara: chi incassa di più dagli studenti “merita” un maggiore turn-over. Far pagare alte tasse agli studenti è un “merito” (pur essendo teoricamente in vigore una norma che pone un tetto al gettito contributivo: il 20% del FFO: si vede ancora qui). Al merito corrisponde un premio: per le università che hanno studenti a maggior reddito e che possono aumentare le tasse. Cioè quelle insediate in territori più ricchi.

Vi è dunque una duplice questione territoriale nell’università italiana. Per i motivi strutturali di cui si è detto in apertura: fare università nei territori più deboli è più difficile. Ma a ciò si sommano le politiche: chi fa università nei territori più deboli è esplicitamente penalizzato. L’interazione fra le condizioni strutturali e le politiche sta producendo un aumento cumulativo delle disparità fra atenei, con effetti negativi per quelli delle regioni del Centro-Sud e del Nord più debole (come la Liguria). Non sembri una esagerazione sostenere che si sta determinando una ”Secessione dei ricchi” anche in ambito universitario. Non a caso con il governo Conte 1 era circolata la bozza di un provvedimento che avrebbe anche determinato diverse modalità nelle regole di autonomia delle università, a seconda del loro “merito”; si veda l’analisi della costituzionalista Roberta Calvano su Roars.

Ad avviso di chi scrive è indispensabile una discussione sulle conseguenze che queste scelte stanno provocando, e provocheranno ancor di più nei prossimi anni. E una revisione tanto delle politiche di finanziamento delle università, nella loro dimensione complessiva e nei criteri di allocazione, quanto delle regole sul turnover (riviste le regole sul FFO, i PO potrebbero essere forse semplicemente aboliti). Ma tutto ciò motiva anche un intervento strutturale di potenziamento del sistema universitario dell’intero Centro-Sud. Si è provato a delinearne alcune caratteristiche generali nell’intervento su Sinappsi. In sintesi, può essere immaginata una strategia decennale di progressivo potenziamento dei dipartimenti universitari in queste regioni attraverso un reclutamento straordinario di nuovi giovani ricercatori e forme di mobilità incentivata per personale docente italiano e straniero; questo, insieme ad un potenziamento delle borse e degli altri interventi per il diritto allo studio per gli studenti sia italiani sia stranieri, con un programma permanente per attrarli in queste università. Le risorse per finanziarlo dovrebbero provenire dal FFO, attraverso un suo aumento costante, mirato a questo fine. Per consentire un suo ampio dimensionamento sin dall’inizio e mitigare le opposizioni che tale proposta può suscitare (di cui si dirà tra un attimo) si potrebbe anche pensare ad un intervento di cofinanziamento nelle fasi iniziali con risorse, decrescenti nel tempo fino ad azzerarsi, del Fondo Sviluppo e Coesione.

Nelle ultime settimane si è sviluppata un po’ di discussione su questi temi. In particolare, alla necessità di un intervento di potenziamento del sistema universitario del Centro-Sud sembra sensibile l’attuale Ministro Lorenzo Fioramonti, che ne ha parlato in un’intervista concessa al Messaggero il 18.11 scorso. A Fioramonti ha risposto, sulle colonne del Sole 24 Ore del giorno successivo il Rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco, sottolineando però che qualsiasi cambiamento potrebbe penalizzare gli atenei del Nord: (che prendono gli studenti del Sud “essenzialmente per spirito di servizio”: questo e i successivi corsivi sono dell’autore): senza risorse aggiuntive si farebbe “matematicamente un danno al Nord, certo, ma soprattutto al Paese”. Saracco non è contrario ad investire specificamente negli atenei meridionali, ma “a patto pure che si intervenga sulla mission”: “se gli atenei meridionali aiutassero espressamente l’economia di quel territorio, i ragazzi potrebbero restare lì, prendendo quanto meno una laurea triennale”. Più netta la posizione del Rettore di Bergamo, Guido Morzenti, riportata in un articolo sempre del 24 Ore, del 25.11: “il sottofinanziamento e/o sottodimensionamento delle università italiane è un problema sistemico, non riconducibile alla sterile dicotomia Nord-Sud. Anzi, andrebbero mutati i criteri allocativi del FFO, perché altrimenti il “rischio reiteratamente distorsivo è quello di continuare a finanziare atenei che non possono crescere e rallentare quelli che possono farlo”. Non sappiamo se Morzenti si riferisse agli atenei del Sud: sembra difficile sostenere che in un territorio nel quale i tassi di passaggio dal diploma all’università sono sotto il 50%, sette punti in meno che al Nord, e in cui la percentuale di giovani 30-34 anni in possesso di laurea è fra le più basse d’Europa, le università non possano crescere.

In direzione opposta alle tesi qui esposte va anche la tesi di operare una definitiva segmentazione del sistema universitario italiano fra università di ricerca e università di insegnamento; o la richiesta della Regione Lombardia, nell’ambito dell’autonomia differenziata, di regionalizzare l’intero sistema dell’istruzione terziaria.

Il dibattito  sulla questione territoriale nell’università italiana è necessario, ma molto difficile.

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