La Questione Meridionale come questione sociale. A proposito del libro di Salvatore Lupo

Emanuele Felice commenta l’ultimo libro di Salvatore Lupo che offre una rilettura originale della questione meridionale e del pensiero dei meridionalisti classici, nel periodo tra l’Unità d’Italia ed il fascismo. Secondo Felice la narrazione storica di Lupo è coerente con le più recenti stime dei divari regionali e la sua critica delle tesi di Banfield e Putnam è convincente, tuttavia per meglio comprendere la vicenda del Mezzogiorno sono utili i recenti lavori degli economisti dello sviluppo e degli storici economici internazionali, che Lupo trascura.

È dalla fine dell’Ottocento che la questione meridionale affascina e coinvolge studiosi di diversa estrazione, in Italia e all’estero, oltre che l’opinione pubblica e la classe politica del nostro paese. Negli ultimi decenni alcuni fra i più attivi storici e scienziati sociali italiani, perlopiù raccolti attorno alla rivista Meridiana, hanno proposto una rilettura complessiva della storia del Sud che punta a sfatare diverse idee consolidate. Fra queste, l’immagine di un divario Nord-Sud cristallizzato pur nel susseguirsi delle fasi storiche, quasi fosse una sorta di maledizione atavica; o la visione di un Mezzogiorno come sorta di blocco unitario, dove i caratteri di uniformità (e inevitabilmente quelli dell’arretratezza: latifondo, debolezza della borghesia, clientelismo, criminalità) prevalgono sulle specificità territoriali e rischiano di mettere in ombra gli elementi di dinamismo; oppure ancora il paradigma della convergenza e, persino, il conseguente giudizio critico sulla performance dell’economia meridionale – che non sarebbe così deludente nel lungo periodo se misurato in termini assoluti (anziché relativi rispetto al Nord), o se si considerano gli aspetti del benessere oltre a quelli reddituali. L’ampio dibattito che ne è scaturito ha ricevuto innesti, oltre che dalla storia economica e sociale, dai rami dell’economia dello sviluppo, dell’antropologia, della sociologia, della scienza politica e del diritto. E va da sé che i temi trattati non soltanto sono tra i filoni costitutivi della questione meridionale, ma rappresentano anche tasselli fondamentali per comprendere la storia dell’Italia tutta e magari anche per individuare soluzioni ai problemi del presente: nella misura in cui tali problemi originano in quel “compromesso senza riforme” (per citare un libro di Fabrizio Barca del 1999) su cui si fonda la nostra costruzione unitaria, e fintanto che fra di essi domina il perdurante divario Nord-Sud.

Di Meridiana, Salvatore Lupo è stato co-fondatore e co-direttore e, naturalmente, uno dei principali animatori. Oltre che sulle condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno, Lupo ha fornito contributi importanti su molti dei temi costitutivi della nostra storia contemporanea ­– dal Risorgimento al fascismo, dai partiti politici alla criminalità organizzata. Nel suo ultimo libro (La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi, Donzelli, 2015), di cui il Menabò ha pubblicato l’Introduzione, è tornato sulla questione meridionale e sulle ragioni storiche del divario Nord-Sud, per offrirci, con la chiarezza e profondità che lo contraddistinguono (e anche, qua e là, con acuta verve polemica), una chiave di lettura originale. È originale la ricostruzione di Lupo perché, da un lato, si differenzia dalla storiografia considerata «classica», quella in base a cui – semplificando – il Sud era già più povero all’Unità ed è poi andato male essenzialmente a causa del suo assetto interno e delle conseguenti scelte politiche ed economiche delle sue classi dirigenti; e perché dall’altro si distanzia pure, nettamente e con più forza, da una recente vulgata di segno opposto, assai diffusa nell’opinione pubblica meridionale ma con qualche appoggio anche nell’Accademia, la quale ritiene che all’Unità d’Italia il Sud fosse più o meno allo stesso livello del Nord (se non addirittura più ricco), e che il successivo divario sia da attribuirsi allo «sfruttamento» da parte dei settentrionali, che nel nuovo Regno avrebbero imposto il loro «giogo» ai meridionali. Lupo ribadisce che invece il Sud all’Unità era già più arretrato, soprattutto negli indicatori sociali (istruzione, speranza di vita, povertà) e nelle infrastrutture ma un po’ anche nel Pil, e che il divario di reddito si è poi ampliato non tanto nei decenni immediatamente successivi all’Unità, quanto nella prima metà del Novecento, soprattutto per gli effetti delle due guerre mondiali e delle politiche fasciste. Ma in contrasto con l’interpretazione tradizionale, lo storico siciliano sottolinea che quello stesso Sud era comunque differenziato al proprio interno, che alcuni suoi rappresentanti (si pensi a Nitti) sono stati fra i migliori esponenti della classe dirigente nazionale e che – in termini assoluti – la qualità di vita dei meridionali è enormemente cresciuta negli ultimi centocinquant’anni.

Già nella quarta di copertina e poi nell’introduzione, Lupo si pone in dialogo critico con il mio Perché il Sud è rimasto indietro (il Mulino, 2013), ascrivendolo all’interpretazione classica. Questa collocazione a me pare corretta: in quel lavoro, ciò che facevo era in effetti provare ad aggiornare le tesi tradizionali del meridionalismo classico (da Croce a Galasso, da Salvemini a Sereni) alla luce delle più rigorose stime quantitative di cui oggi disponiamo e della recente letteratura internazionale sui divari di sviluppo. Lupo accoglie la ricostruzione quantitativa lì proposta, da me e altri studiosi (su tutti Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà, il Mulino, 2011), arricchendola con una narrazione storica che completa e rafforza quell’ossatura numerica; e forse i diversi accenti fra di noi (io avevo insistito più sull’uniformità che sulle specificità) derivano soprattutto dalle differenti prospettive adottate nei rispettivi testi – la sintesi, nel mio caso, avendo dedicato all’analisi Divari regionali e intervento pubblico (il Mulino, 2007).

Più nello specifico il libro di Lupo, suddiviso in tre parti, tratta in maniera approfondita e aggiornata altrettanti periodi della storia italiana: quello immediatamente successivo l’Unità, quando proprio la liberalizzazione delle tariffe un po’ frettolosamente imposta dai piemontesi (e che fece danni, alla pur debole industria) favorì un notevole sviluppo dell’agricoltura nel Meridione che probabilmente – a conti fatti – contribuì a innalzarne il tenore di vita; l’alba del Novecento, quando grazie alla grande emigrazione e alle sue ricadute specie in virtù dei ritorni si mise finalmente in moto un processo di trasformazione profondo, senza precedenti, nell’economia e nella società meridionali; quindi la Grande Guerra e il fascismo, quando fra retorica e riforme mancate, fra la chiusura della valvola migratoria e l’accentuazione degli indirizzi cerealicoli (è la battaglia del grano), il divario fra Nord e Sud si fece assai più ampio e profondo, fino a prendere quella fisionomia a noi nota su cui poi inciderà la Cassa del Mezzogiorno – cioè un grande Sud più omogeneo al suo interno e ormai nettamente più povero del Centro-Nord e soprattutto del Triangolo industriale. Su questo quadro storico-analitico, ampiamente condiviso e condivisibile, Lupo recupera il pensiero di alcuni grandi meridionalisti – Fortunato, Nitti, Gramsci – con il pregio di (ri)presentarcelo ben calato nei problemi dell’economia e della politica del tempo. Certo, sarebbe stato interessante vedere questa analisi estesa ancora più in là nel tempo, verso un quarto periodo – gli anni del miracolo economico e dell’intervento pubblico – che ha rappresentato l’altra trasformazione epocale dell’economia e della società meridionali (la seconda e più importante, dopo quella della grande emigrazione); e forse ancora più utile sarebbe stata una rivisitazione del periodo pre-unitario, quando, fra luci (le riforme francesi di inizio Ottocento) e soprattutto ombre (l’insuccesso fattuale della grande stagione illuministica, la reazione successiva al Congresso di Vienna e ai moti del 1820-21 e quella ancora più dura dopo i moti del 1848), si consumò e fu perduta una prima importante occasione per cambiare in senso più «inclusivo» l’assetto socio-istituzionale del Mezzogiorno. Lupo insomma ha preferito organizzare il suo volume attorno a tre periodi centrali dal punto di vista diacronico, ma non per questo necessariamente cruciali anche sul piano interpretativo o del cambiamento storico. Ma la sua resta una scelta «a monte» del tutto legittima, che rispecchia l’impostazione del volume – «liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi», come recita il sottotitolo, rivisitando il pensiero dei grandi meridionalisti alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche – e nulla toglie alla fondatezza della sua ricostruzione per i periodi in questione.

Lupo invece trascura, ammettendo di non essere un economista, il dibattito internazionale. Non mi riferisco qui ai ben noti contributi, prevalentemente di taglio sociologico o antropologico ad opera di Putnam e prima ancora di Banfield, che pure hanno avuto grande seguito fra gli economisti: l’autore li contesta in maniera dura ma con competenza – lo aveva già fatto, e con esiti molto convincenti, in alcuni lavori pubblicati proprio su Meridiana (e non a caso anche la critica a Banfield e Putnam contenuta in Perché il Sud è rimasto indietro riprendeva in parte quanto scritto da Lupo). Mi riferisco invece al dibattito, più recente, fra economisti e storici economici sul ruolo delle istituzioni, da quelle politiche a quelle economiche (si pensi al latifondo), e sul loro impatto sia sulle idee e la cultura, sia sui risultati economici – e cioè ai nomi di Acemoglu e Robinson, Engerman e Sokoloff, Galor, Mokyr, North, per farne alcuni. E mi riferisco all’analisi storico-economico comparata sui divari di reddito fra paesi e regioni, e in particolare fra la periferia europea e il centro, quale si può ritrovare ad esempio nei lavori di Broadberry, Crafts, Prados de la Escosura, Williamson, oltre che in Maddison. A mio giudizio, di questa mancanza lo schema interpretativo di Lupo risente un po’, in due aspetti importanti.

Primo, lo sguardo comparativo: il Sud in questi centocinquant’anni è certo migliorato, ma quale regione d’Europa non l’ha fatto? Per tasso di crescita il Mezzogiorno è inchiodato agli ultimi posti, non solo nel reddito ma anche nello sviluppo umano: se l’è cavata più o meno come il Portogallo, un po’ peggio della Grecia, molto peggio della Spagna che pure partiva da condizioni analoghe. Possiamo considerarlo un successo?

Secondo, Lupo ridimensiona l’idea della modernizzazione passiva, forse proprio perché manca di collegare la ricostruzione quantitativa e storica che pure condividiamo con una teoria economica conseguente sulle istituzioni estrattive (che originano dalla maggiore disuguaglianza e dal latifondo), sugli incentivi e disincentivi che esse pongono alla modernizzazione nelle diverse dimensioni dello sviluppo, e quindi sull’azione complessiva delle classi dirigenti, al di là di singoli casi – cioè sulle classi dirigenti come ceto sociale: agrari, mediatori politici, burocrazia, borghesia abortita o malavitosa. È un peccato, perché a mio giudizio proprio nel testo di Lupo si trovano di tanto in tanto limpide conferme alla modernizzazione passiva: ad esempio, quando si accenna all’implementazione delle politiche scolastiche nelle amministrazioni meridionali, dopo l’Unità. E a dire il vero a me pare che finanche l’impostazione e l’ispirazione di questo bel libro, così tese a sottolineare come la questione «meridionale» fosse all’inizio una questione «sociale» (cioè un problema di povertà e disuguaglianza, maggiormente concentrate a Sud), siano in fondo le stesse di Perché il Sud è rimasto indietro: la distinzione da porre non è fra meridionali e settentrionali ma fra quanti, dentro il Mezzogiorno, hanno goduto di rendite e privilegi e quanti invece si sono ritrovati vittime di quell’assetto estrattivo, spinti a emigrare o costretti a adattarvisi.

* Una versione più breve e leggermente diversa di questo articolo è stata pubblicata su «La Stampa» del 2 novembre 2015.

Schede e storico autori