La proposta di direttiva della Commissione europea sul lavoro tramite piattaforma digitale

Stefano Giubboni commenta la proposta di direttiva in materia di lavoro tramite piattaforma digitale della Commissione europea e ne mette in evidenza gli aspetti innovativi rispetto agli esempi di regolazione sinora emersi a livello nazionale. Giubboni si sofferma in particolare sugli indici per l’individuazione del lavoro subordinato presenti nella proposta e sul ‘management algoritmico’ e ritiene che la proposta offre una base minima di diritti fondamentali di cui si avverte sempre più il bisogno.

1. I primissimi commenti alla proposta di direttiva della Commissione europea sul miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme [COM(2021) 762 final del 9.12.2021] ne hanno giustamente sottolineato l’importanza. È indubbio che la Commissione – nel dare effettivo seguito agli impegni politici assunti nell’ambito del piano di azione per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali – abbia inteso assumere un ruolo di primo rilievo nella riconfigurazione, in corso anche a livello nazionale, delle risposte politiche e regolative che gli Stati membri, e quindi la stessa Unione europea, debbono saper costruire di fronte alle impetuose trasformazioni dei mercati del lavoro, in parte accelerate dalla lunga crisi pandemica.

La proposta è il frutto di un’attenta fase di consultazione e di ascolto, in primis delle parti sociali, che come noto si sono dimostrate divise sulle modalità prima ancora che sui contenuti delle iniziative da assumere a livello sovranazionale, stante la sostanziale indisponibilità delle organizzazioni datoriali ad accettare un intervento legislativo di tipo vincolante, come quello infine proposto dalla Commissione. I lavori preparatori della proposta di direttiva si segnalano anche per l’attenzione che la Commissione ha voluto dedicare all’indagine comparata, stimolando approfondite ricerche sulla giurisprudenza dei giudici nazionali in tema di qualificazione del rapporto dei lavoratori delle piattaforme digitali, oltre che sui primi interventi dei legislatori nazionali, per quanto più rari e ancora piuttosto parziali. Ne è emerso un buon uso della comparazione giuridica, certamente utile a corroborare le scelte – in taluni casi ambiziose – poi formulate nella proposta.

2. La proposta, cui qui possiamo dedicare soltanto una prima e sommaria analisi, intende perseguire tre obiettivi fondamentali, tra di loro intrecciati e sinergici.

Il primo, e più importante, è quello di assicurare su basi minime comuni ai lavoratori delle piattaforme – anzitutto a quelli che svolgono almeno in parte la loro prestazione nel mondo fisico, in un luogo reale, come i riders, ma, ricorrendone i presupposti, anche a quanti operino interamente online (art. 2, par. 1, lettera c) – l’accesso ad un corretto inquadramento del loro status giuridico, allorché svolgano la loro prestazione in forma subordinata, con tutte le correlate conseguenze sul piano delle tutele, anche di natura previdenziale. La Commissione propone dunque una regolazione minima unitaria, valevole tanto per le prestazioni lavorative che si svolgono almeno in parte in luoghi fisici reali, offline, che in letteratura vengono per lo più indicate con le espressioni gig work e work on demand, quanto per quelle interamente virtuali e online (crowd-work e cloud-work, nella terminologia corrente). Nel proporre questa visione sincretica del lavoro tramite piattaforma, l’iniziativa della Commissione appare innovativa, essendo noto come, non soltanto nel dibattito accademico, tenda a prevalere una differenziazione piuttosto marcata, sia nelle analisi che nelle proposte regolative, a seconda che il lavoro si svolga almeno in parte in siti fisici reali ovvero interamente nella dimensione virtuale di internet. In questo secondo caso, considerate le modalità di svolgimento della prestazione, si tende infatti ad escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, sia pure di natura occasionale.

Il secondo obiettivo consiste nel garantire maggiore correttezza, equità, trasparenza e responsabilità (accountability) nel funzionamento delle procedure algoritmiche che governano le piattaforme digitali, introducendo diritti individuali e collettivi di informazione e consultazione, idonei a promuovere una qualche forma di controllo su tali processi automatici, dominati dall’intelligenza artificiale. Talune previsioni collegate alla realizzazione di tale obiettivo – proprio in quanto volte alla protezione di diritti fondamentali contro i possibili abusi del management algoritmico – sono espressamente estese anche al lavoro autonomo «genuino».

Il terzo consiste nell’aumentare la trasparenza, la tracciabilità e la conoscibilità sul piano oggettivo generale e «sistemico» degli sviluppi del lavoro che si svolge su o tramite piattaforma digitale, grazie all’introduzione di una serie di obblighi di comunicazione in favore principalmente delle competenti autorità degli Stati membri. Un apposito capitolo finale (il quinto) ha cura di prevedere una serie di misure di tutela e di forme di rimedio, di natura sia sostanziale che processuale, utili ad assicurare l’effettività dei diritti che la proposta di direttiva intende garantire (di grande interesse è, in particolare, la previsione sull’«accesso alla prova» contenuta nell’art. 16).

3. Limitando l’analisi agli aspetti più rilevanti della proposta, non possiamo sottacere l’importanza della previsione che campeggia al centro del Capo II, dedicato allo status di lavoratore subordinato, ovvero della norma che mira a introdurre una presunzione legale di subordinazione. Ai sensi dell’art. 4, par. 1, la relazione contrattuale tra il lavoratore e la piattaforma digitale – che eserciti su di esso forme di controllo della prestazione integranti almeno due degli indici tipizzati dal secondo paragrafo della medesima disposizione, di cui diremo tra un istante – deve essere considerata rapporto di lavoro subordinato in forza di una presunzione legale semplice, suscettibile di prova contraria a carico del presunto datore di lavoro.

Gli indici individuati dal par. 2 dell’art. 4 solo in parte riecheggiano quelli già ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sulla nozione di lavoratore subordinato, come pure quelli in uso nella prassi giurisprudenziale dei diversi ordinamenti nazionali. Essi sono: a) l’effettiva determinazione del livello della remunerazione, anche quanto al suo tetto massimo; b) il concreto obbligo di rispettare taluni requisiti di condotta – anche solo nel modo di apparire in pubblico e nel rapportarsi con gli utenti del servizio (e clienti della piattaforma) – nello svolgimento dell’attività lavorativa; c) la supervisione dell’esecuzione della prestazione, anche solo sotto forma di verifica della qualità del risultato mediante l’impiego di strumenti elettronici; d) l’effettiva restrizione de facto della libertà del lavoratore, anche attraverso meccanismi sanzionatori, nell’organizzare il lavoro, in particolare quanto alla scelta dell’orario, alla (reale) facoltà di accettare o rifiutare l’assegnazione dei singoli compiti o incarichi e a quella di avvalersi di sostituti o sub-fornitori. Si tratta di indici di subordinazione concepita in senso assai lasco e in chiave – fondamentalmente – di etero-organizzazione, come si desume dal fatto che alcuni di essi sono del tutto estrinseci al contenuto della prestazione e al potere di dirigerne e conformarne modo, tempo, luogo.

La previsione è innegabilmente innovativa, visto che soltanto in poche esperienze nazionali è presente una così ampia regola presuntiva (in Europa si è mosso in questa direzione, ma più timidamente, il legislatore spagnolo, con il Real Decreto-ley 9/2021, che ha modificato una disposizione contenuta nell’art. 8.1 dello Estatuto de los trabajadores). Vi si deve anzitutto cogliere una netta – e giusta – presa di distanza da quella giurisprudenza della stessa Corte di giustizia ostile proprio all’utilizzo di regole di presunzione di lavoro subordinato da parte del legislatore nazionale, considerate come ostacoli alla libertà di prestazione dei servizi e di stabilimento nel mercato interno. Vi si avverte, inoltre, un netto favor per il riconoscimento dello status di lavoratore subordinato (e del connesso apparato di tutela), ben oltre le deboli tecniche presuntive timidamente discusse e più raramente introdotte in alcuni Stati membri, come nel citato esempio spagnolo (in Francia il legislatore si era addirittura mosso in una opposta linea di politica del diritto, favorevole piuttosto a dar rilievo alla qualificazione in termini di autonomia). La disposizione contenuta nella proposta è anche più incisiva di quella che compare nell’art. 11 della direttiva 2019/1152, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, che non prende esplicita posizione sulla qualificazione del rapporto, limitandosi ad una presunzione (confutabile) di garanzia minima di ore di lavoro in favore dei lavoratori a chiamata.

4. Ove dovesse essere approvata in questa formulazione, la disposizione di cui all’art. 4 della proposta della Commissione contribuirebbe in misura assai significativa a rafforzare la valenza della nozione europea di subordinazione, potenzialmente anche oltre l’ambito del lavoro tramite piattaforme digitali. La definizione di indici di dipendenza organizzativa, quali sono in sostanza quelli previsti dall’art. 4, par. 2, potrebbe infatti rafforzare usi espansivi di quella nozione, in termini più ampi e generali, anche da parte dei giudici nazionali, oltre che della Corte di giustizia.

Peraltro, se la regola presuntiva favorisce il riconoscimento dello status di lavoratore subordinato in base al diritto nazionale, la proposta di direttiva rinuncia a dettare una nozione propriamente euro-unitaria di subordinazione, preferendo al riguardo utilizzare la medesima formula «ibrida» impiegata per la prima volta nella citata direttiva 2019/1152. L’art. 2, par. 1 (4), definisce, infatti, il platform worker come colui che possa essere considerato lavoratore subordinato alla stregua dei criteri in forza nell’ordinamento dei singoli Stati membri, tenuta tuttavia in considerazione la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Il rinvio in chiave sussidiaria al diritto del lavoro nazionale è mitigato dal riferimento alla nozione di subordinazione che la Corte di giustizia ha elaborato nell’ambito della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea e poi via via esteso ai principali ambiti di incidenza del diritto euro-unitario sugli ordinamenti interni degli Stati membri.

Benché si tratti di una formula ambigua e compromissoria – «ibrida», appunto –, è tuttavia prevedibile che, anche in virtù degli indici presuntivi contemplati dall’art. 4, a prevalere sia la radice euro-unitaria del concetto di subordinazione, che la Corte di giustizia ha sempre interpretato in termini molto ampi e inclusivi, facendo leva, più che sul tradizionale criterio della etero-direzione, ancora prevalente negli ordinamenti nazionali, su quello della etero-organizzazione, ovvero della dipendenza/integrazione organizzativa nell’impresa altrui. È per tale ragione che il combinato disposto degli artt. 2 e 4 della proposta di direttiva potrebbe ulteriormente rafforzare la valenza espansiva e inclusiva della nozione europea di lavoratore subordinato.

5. Le previsioni in tema di «management algoritmico» (che compaiono nel Capo III della proposta di direttiva) meritano pure qualche cenno conclusivo.

Se gli artt. da 6 a 8 conferiscono prevalentemente diritti individuali di natura procedurale, finalizzati soprattutto a impedire che il lavoratore sia soggetto a decisioni puramente automatizzate dettate dalla sola logica numerica dell’algoritmo in assenza di supervisione umana, l’art. 9 introduce diritti di informazione e consultazione in favore dei rappresentanti dei lavoratori, ovvero direttamente di questi ultimi ove non sia presente una rappresentanza collettiva. L’art. 10 estende la parte essenziale delle previsioni sui diritti individuali – ma, significativamente, non quelle dell’art. 9 in favore della rappresentanza collettiva – ai lavoratori autonomi, facendo salva, per questi ultimi, l’applicazione del regolamento 2019/1150, contenente una prima disciplina volta a promuovere equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online.

L’obiettivo dichiarato di queste previsioni è quello di rendere meno opaca e più controllabile quella forma pervasiva di potere – insieme economico e bio-politico – efficacemente compendiata nella formula del «management algoritmico». Al medesimo scopo contribuiscono le previsioni del Capo IV in tema di trasparenza e di accesso alle informazioni sulle condizioni di lavoro praticate dalle piattaforme.

Sarebbe illusorio pensare ad una sorta di inattingibile democratizzazione e di controllo collettivo del potere algoritmico, il cuore oscuro del nuovo «capitalismo della sorveglianza» secondo Shoshana Zuboff, e la proposta della Commissione è ovviamente lontana da una simile prospettiva. Nondimeno, essa offre – meritoriamente – una base minima di diritti fondamentali di cui avvertiamo sempre di più il bisogno ed anche l’urgenza.

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