La proposta del M5S sul salario minimo legale: qualche progresso e varie insidie

Salvo Leonardi si occupa di salario minimo. Dopo aver ricordato che l’Italia è fra i pochi paesi in cui i minimi sono fissati dai Contratti Collettivi e che precarietà e contratti “pirata” stanno indebolendo la copertura di tali contratti, Leonardi si occupa del disegno di legge del M5S che prevede un erga omnes limitato alla parte salariale e sostiene che tale idea, pur perseguendo un obiettivo condivisibile, è gravida di rischi, come quello di definire una soglia inferiore a quella prevista nella stragrande maggioranza dei CCNL.

La recente proposta di legge a favore dell’istituzione di un salario minimo legale, avanzata dal M5S, riporta al centro del dibattito italiano un tema su cui già da tempo si esercita la riflessione accademica e la policy, di istituzioni e attori sociali, a livello internazionale. Le cause sono epocali e globali, e risiedono nell’aumento delle diseguaglianze e della povertà, anche fra chi ha un lavoro; nell’accresciuta mobilità del lavoro e del capitale, che ha dovunque aumentato il dumping salariale; nella forte diffusione di lavoro precario; nell’indebolimento associativo e negoziale delle organizzazioni che contrattano il salario.

Per i sindacati, la lotta per un salario equo rappresenta un elemento costitutivo della loro ragion d’essere, per rendere il lavoro condizione effettiva di inclusione e cittadinanza, sconfiggere la povertà ed evitare la competizione distruttiva fra lavoratori e aziende.

Per conseguire questi obiettivi gli strumenti sono essenzialmente di due tipi, non necessariamente alternativi: la legge e il contratto collettivo nazionale. In Italia e in pochi altri paesi europei è prevalsa la scelta in favore dell’autonomia contrattuale, ribadita e ratificata dal 2014 in poi in una serie di accordi interconfederali sulla rappresentanza e la contrattazione, di cui i sindacati chiedono una trasposizione in legge, nella prospettiva di un erga omnes integrale, ex art. 39 della Costituzione. Un percorso che non convince quegli studiosi che, pur apprezzando quell’impianto, considerano una legge sui minimi salariali il modo più efficace e tempestivo per ovviare alle tare che affliggono la condizione economica dei lavoratori più vulnerabili sul mercato del lavoro.

L’introduzione di una legge sul compenso orario minimo nei settori non regolati dai CCNL più rappresentativi rientrava fra i piani poi abbandonati del Jobs Act. Ora quel progetto ritorna in un disegno di legge del M5S (658/2018), in attuazione del contratto di governo con la Lega. L’obiettivo è di inverare i principi costituzionali della giusta retribuzione (ex art. 36), con riguardo a quei working poors con retribuzione inferiore alla soglia di povertà (50% del salario mediano). A tale scopo, il trattamento economico complessivo non potrà essere inferiore a quello previsto dal CCNL siglato dalle associazioni più rappresentative, “e comunque non inferiore a 9€ all’ora, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Qualora vi sia una pluralità di contratti nazionali applicabili, verrà considerato quello siglato dalle associazioni comparativamente più rappresentative, in base agli accordi inter-confederali siglati del 2014. È una tecnica già impiegata nel calcolo della contribuzione INPS, per l’aggiudicazione degli appalti pubblici e per i soci di cooperativa.

L’attuazione di un erga omnes integrale, pur considerata dagli estensori del ddl, è stata esclusa per le difficoltà a superare rapidamente gli ostacoli che hanno finora impedito l’attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione (registrazione sindacale). Il progetto mira quindi a “rispondere con immediatezza all’esigenza di un intervento a sostegno della contrattazione, e non già sostitutivo di essa”. Siamo dunque in presenza di un progetto non ostile ai sindacati confederali, contrariamente al tenore anti-unions che, dai social del M5S, ne ha annunciato il lancio.

Malgrado qualche avanzamento, il ddl presenta dei rischi di eterogenesi dei fini. L’obiettivo meritorio è di tutelare quei lavoratori vulnerabili non raggiunti dai contratti nazionali o insidiati dal dumping di quelli pirata. Chi sono? Una volta esclusi i soci di cooperative, i lavoratori degli appalti e quelli pagati in voucher, si potrebbe pensare ai lavoretti della Gig economy, ma alla condizione di qualificarli giuridicamente come subordinati, essendo per gli autonomi impraticabile un compenso su base oraria.

C’è poi l’importo, non inferiore a 9€ all’ora. Meno che in Francia o Irlanda, ma più che nel Regno Unito (8,85€) e ancor più della Spagna (5,45€), laddove la Germania lo ha superato di poco solo dal 1 gennaio 2019. Poiché si tratta di “trattamento economico complessivo”, non sono compresi quegli elementi relativi nell’anno a ferie, tredicesima o altre indennità, che alzano già il valore di tutti gli attuali minimi contrattuali al di sopra della suddetta soglia nominale. È per questo che i sindacati rivendicano di far costare di più un’ora di lavoro precario; proprio perché di norma, in esso, restano esclusi molti dei benefici dei lavoratori contrattualizzati.

L’art. 36 della Costituzione dispone che la retribuzione non debba essere “minima”, bensì “proporzionata” al lavoro svolto, e in ogni caso “sufficiente” a garantire una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Tali livelli sono identificati dalla giurisprudenza nei minimi fissati dai CCNL. Se ora, accanto ad essi, se ne fissasse un altro per legge, di norma più basso di quello contrattuale, finirebbe col prevalere quest’ultimo. A quel punto, molti datori potrebbero abbandonare il CCNL, riservandosi di elargire incrementi su base aziendale o individuale.

A suffragio della sua petizione, il M5S ricorre al raffronto europeo (Eurofound), dove su 27 stati membri, ben 22 hanno il salario minimo per legge. Occorrerebbe però specificare che i rimanenti 5 paesi con minimi contrattuali, sono – per la qualità delle relazioni sindacali – di assoluto rispetto: Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria e, appunto, Italia. Per una volta potremmo dire di stare, in Europa, in buona compagnia. Ciò che infatti accomuna questi paesi è l’essere fra i pochi rimasti in cui la forza associativa delle parti sociali, insieme a quella dei contratti nazionali, riesce a coniugare livelli minimi e di copertura fra i più alti del mondo. Il rapporto fra salario minimo e mediano (indice di Kaitz) è più alto che nei paesi col minimo per legge, dove – si badi – non raggiunge mai la soglia del lavoro povero (66%) e spesso neppure quella di povertà (50%). In Italia abbiamo invece l’indice più alto d’Europa e dell’OCSE: all’80%. Un dato che rivela, più che un problema coi livelli minimi, una inadeguatezza del livello mediano (intorno a 12€), e medio, per la cui crescita occorrerà indubbiamente moltiplicare gli sforzi, ad esempio, svincolando i rinnovi nazionali dal mero recupero del potere d’acquisto, come avviene dal 1993. Il Rapporto Eurofound contiene la tesi secondo cui già un indice superiore al 40% avrebbe ripercussioni negative sull’occupazione. Una correlazione smentita da vari indagini empiriche, ad esempio in Germania, ma che non ha impedito alla Commissione di reiterare alla Francia la raccomandazione di ridimensionare la generosità del suo livello (61%).

I minimi contrattuali italiani si attestano in media sui livelli dei paesi più ricchi d’Europa (9,41€; fra un minimo dei minimi intorno ai 7€ e un massimo dei minimi intorno i 14€). Se si confronta l’importo medio per ora retribuita, a parità di potere d’acquisto, ci attestiamo a 10,1€, appena inferiore a quello di Belgio (10,3€), Francia (10,6€) e Germania (10,7€)

Il problema dell’evasione contrattuale è reale e particolarmente penoso in agricoltura, ristorazione, lavoro culturale e nello spettacolo, in ampie parti del sud, per gli addetti delle piccolissime imprese, fra gli immigrati ed i finti autonomi. Si tratta di quell’11,7% sotto i minimi contrattuali, e in aumento, citato dagli estensori del progetto, contro una media dell’UE al 9,6%. Un salario minimo legale potrebbe in parte ridurre queste degenerazioni, ma solo alla condizione di ridurre la precarietà e potenziare gli strumenti ispettivi, clamorosamente insufficienti, come del resto rivela l’elevata elusione normativa in svariati altri ambiti della vita nazionale. In Germania, dove ispettori e controlli sono ben più diffusi che da noi, la legge sui minimi non ha potuto impedire che un milione e mezzo di lavoratori risulti ancora pagato meno di quanto prescritto.

Oggi esiste ovunque una grave questione salariale. Le cause sono molteplici, in cima alle quali, da noi, non porrei la strumentazione per la definizione dei minimi. Pesano molto di più i dualismi territoriali, la precarietà, il sotto-inquadramento, i part-time ridottissimi, la scarsa formazione delle risorse umane, l’assenza di controlli, il sistema di calcolo dei rinnovi contrattuali, il cuneo fiscale. Le proposte della CGIL – Piano per il lavoro, Carta universale dei diritti dei lavoratori, contrattazione inclusiva – vanno nella giusta direzione.

Il salario minimo legale ha il pregio di conferire maggiore certezza ed esigibilità su importo e platea dei beneficiari. La soluzione contrattuale, di contro, garantisce livelli minimi più alti, valorizza le qualifiche professionali, è meno esposta alla contingenza politica (il blocco del minimo legale è sempre fra le prime misure imposte dall’austerità o sotto i governi liberisti).

È vero che il minimo legale non è in contrapposizione con l’esistenza di una diffusa contrattazione salariale. Ma è innegabile che l’opzione legale scaturisce quando sindacalizzazione e copertura contrattuale smottano sotto i livelli di guardia, come accaduto in Germania (rispettivamente 18% e 50%), laddove da noi sono ancora al 35% e all’80%. Nato per ovviarvi, il surrogato legislativo può dare il colpo di grazia all’una e all’altra, come sembra attestare il caso francese.

L’Italia, con Svezia e Danimarca, è l’unico paese dell’UE a non avere né un salario minimo legale, né l’erga omnes. Poiché è innegabile che i rischi di irregolarità siano da noi molto maggiori, è necessario perorare un intervento legislativo. Ma questo deve avvenire dal lato dell’efficacia generalizzata dei contratti (art. 39 della Costituzione). Tale intervento magari non va pensato come automatico, ma su richiesta anche solo di una parte, come in Norvegia, quando, dati alla mano, si dimostra che in un comparto il tasso di evasione è troppo alto.

Lo scorso anno, i sindacati italiani hanno con convinzione aderito alla campagna per il “Pay Rise”, lanciata dalla Confederazione europea dei sindacati. Pur ribadendo l’opzione contrattuale, si potrebbe puntare all’adozione di una soglia minima universale e ben riconoscibile, su cui costruire una vertenza nazionale. Come sta facendo il sindacato austriaco che, come la CGIL per via negoziale, si batte affinché nessun lavoratore di quel paese riceva una paga oraria inferiore a 10€.

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