La produttività e la crisi della Grecia

Gianluigi Nocella, nella scheda che pubblichiamo nuovamente sul Menabò, affronta una questione cruciale, spesso al centro di accesi dibattuti ma tutt’altro che semplice: l’influenza della spesa pubblica sulla crescita economica. Dopo aver ricordato i limiti di molte analisi empiriche di questa relazione, Nocella esamina attentamente alcuni dati e presenta diverse correlazioni che aiutano a comprendere l’effettiva influenza spesa pubblica sulla crescita.

Ci sono parole universali, che sanno mettere d’accordo tutti. Nel dibattito economico (e soprattutto in quello che riguarda l’Europa dei nostri giorni), una di queste parole magiche è “produttività”. Di produttività parlano (quasi) tutti, piace a tutti (e ci mancherebbe!), tutti concordano che sia il problema all’origine del male (quando è scarsa) e il segreto che offre salvezza e redenzione (quando è alta).

Il favore plebiscitario che riscuote chiunque la nomini, indipendentemente dal contesto, fa sorgere un pesante sospetto: o “produttività” non significa nulla (e sul nulla difficilmente si può essere in disaccordo); o qualcuno non deve avere del tutto chiaro di cosa si sta parlando. Può ben darsi, poi, che in una certa misura entrambe le cose siano vere e continuino a passarsi il testimone della fumosità e della vaghezza di certe argomentazioni, nella staffetta infinita di quello che è un confronto politico (ovvero, tra visioni alternative della società che tutelano interessi diversi) ma viene generalmente affrontato come un puro esercizio di scienza, la cui soluzione esatta è una sola, inconfutabilmente dimostrata da qualche blasonato accademico nell’appendice matematica di un suo citatissimo articolo e in attesa di essere tradotta in legge da qualcuno che l’abbia letta e capita a dovere.

Ma produttività significa qualcosa?

Teoricamente sì: è un concetto basilare, che appartiene alla scienza economica da quando, più o meno all’inizio del XVII secolo, diverse teorie del valore hanno provato a schematizzare il funzionamento di un sistema produttivo aggregato. Riflette qualcosa di idealmente essenziale: il rapporto – non (solo) in senso algebrico – tra il risultato del processo produttivo e i fattori impiegati per ottenerlo. È del tutto ovvio che se ad una identica combinazione di fattori produttivi corrispondono livelli di prodotto diversi, la modalità di combinarli che offre risultati migliori è più produttiva. È altrettanto ovvio che queste differenze possono scaturire da una miriade di fattori (istituzionali, tecnologici, umani – visto che un fattore essenziale è il lavoro) che influenzano il processo produttivo, non tutti di immediata evidenza, non tutti necessariamente già noti o adeguatamente presi in considerazione, e non tutti (correttamente) misurabili. Perciò, se è elementare invocare il concetto di produttività del lavoro (l’output imputabile a ciascuna unità di lavoro) o di produttività totale dei fattori (TFP, generalmente definita quale la parte di output non direttamente riconducibile ad una data combinazione “fisica” di fattori), non è affatto elementare fare riferimento a qualche corrispettivo reale di questo concetto e utilizzarlo nel dibattito di policy. Certamente, servirebbero molte più accortezze di quelle che vengono abitualmente usate da chi ne (stra) parla. E arriviamo al secondo punto dell’introduzione.

E’ ben chiaro di cosa si parla?

Nella larga maggioranza dei casi, no. Proprio perché si tratta di un concetto apparentemente immediato, chi lo maneggia spesso non usa le necessarie cautele e si limita a sbandierare qualche dato, lasciando che la familiarità della parola faccia il resto: sappiamo tutti cos’è la produttività, è banale! Purtroppo non è altrettanto banale misurarla e, men che meno, fare confronti internazionali sulla produttività di intere economie, magari su intervalli di tempo particolarmente lunghi.

Iniziamo dal fatto che l’aggregazione implicita nella costruzione dei dati macroeconomici (su tutti, il Pil e le grandezze di contabilità nazionale necessarie per stimarlo) è incredibilmente problematica. Confrontare la produttività di due vigne adiacenti della stessa dimensione, che producano uve della medesima qualità impiegando lo stesso numero di ore di lavoro e gli stessi trattamenti del fondo, sarebbe abbastanza semplice (se non fossero già particolarmente stringenti le poche condizioni di omogeneità elencate): pesiamo i quintali di uva prodotti. Confrontare la produttività complessiva degli stessi due fondi quando ciascuno dei due ospiti anche una banca è già estremamente più complesso. Dalle quantità di prodotto fisico è necessario passare alla misurazione del valore prodotto.

Questo implica misurare prezzi, oltre alle quantità, perché evidentemente è il valore reale del prodotto che ci interessa. Inoltre, in ogni produzione un’impresa utilizza beni intermedi prodotti da altri, quindi non basterà misurare il valore del bene finale (ai prezzi di mercato, ad esempio), perché la produttività dell’impresa andrà misurata in base al suo valore aggiunto (reale). Sarà necessario, quindi, conoscere il valore reale del bene finale e dei beni intermedi, che però hanno certamente prezzi diversi. La contabilità nazionale parte dai valori della produzione e degli acquisti di beni intermedi contabilizzati da milioni di imprese (raccolte in qualche centinaio di settori di attività) e stima indici di prezzi sintetici per definire il valore reale di tali aggregati e quindi misurare un valore aggiunto reale (una grandezza fisicamente inesistente). Questi indici di prezzo soffrono di distorsioni particolarmente rilevanti, legate soprattutto al processo di quality adjustment (la correzione del prezzo di un bene in base alle sue caratteristiche qualitative: si pensi al prezzo di un computer di 10 anni fa rispetto a quello odierno) e all’offshoring bias (la sovrastima dei prezzi dei beni intermedi a causa di indici che non registrano tempestivamente la riduzione dei prezzi di tali input quando si passi a forniture da paesi a basso costo). Queste distorsioni possono determinare una notevole sovrastima del valore aggiunto reale (quindi degli indici di produttività) – soprattutto per economie con filiere produttive particolarmente integrate a livello internazionale o specializzate in alcuni settori – e andrebbero, dunque, tenute in attenta considerazione, specie nel fare confronti internazionali in serie storica. Inoltre, i prezzi sono il risultato dell’interazione di domanda e offerta: e così, la produttività, che viene quasi sempre proposta come il risultato dell’efficienza del sistema produttivo, in realtà può essere fortemente influenzata anche dalle condizioni di domanda.

Poi c’è da considerare la misurazione dei fattori produttivi e del loro grado di utilizzazione. La misurazione del lavoro impiegato, che potrebbe sembrare meno problematica, è qualcosa di estremamente complicato (si pensi alla difficoltà di misurare il numero di lavoratori equivalenti a tempo pieno) e raramente si riescono a fare stime affidabili e confrontabili della composizione (per tipologia/qualità) del lavoro stesso a livello macroeconomico. La misurazione dello stock di capitale, poi, presenta problematiche ancora più significative: dare un valore reale allo stock di capitale fisico è di per sé molto complicato (data la specificità dei beni in questione) e c’è da considerare il processo di ammortamento del capitale stesso (e le dichiarazioni delle imprese in merito sono legate ai regimi fiscali). Inoltre, esistono forme di capitale intangibili e a volte è difficile capire se una data spesa si possa considerare un investimento o meno. In ragione di queste e altre complessità, la serie storica dello stock di capitale di un’economia viene generalmente calcolata ipotizzando un rapporto capitale/prodotto in un anno iniziale e ricostruendo il processo di accumulazione attraverso le spese per investimento e i tassi di ammortamento (metodo dell’inventario permanente).

Che riflessi ha tutto questo sul dibattito economico? Un esempio è presto fatto. Pochi giorni fa un blog de Il Sole 24 Ore ha ripubblicato un intervento del prof. Manasse, il quale individua le ragioni della crisi greca con l’affermazione che segue: “La crescita, trainata dalla domanda e finanziata dal debito, alla fine è “scoppiata” perché non era basata su una basilare crescita della produttività”. Scoppiata la bolla “l’economia alla fine si è trovata di fronte alla realtà”; negli anni passati era mancato il vero “motore della crescita”, come Manasse definisce la TFP. L’enfasi è evidente e viene giustificata con la forza dei numeri forniti da un’importante banca data internazionale sul tema, il Total Economy Database (TED):
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Per quanto si possa concordare sul fatto che alcuni settori dell’economia greca abbiano vissuto una “bolla” nel decennio precedente la crisi, “strutturalizzare” certe affermazioni sulla base della stima di un residuo (la TFP, appunto) è quantomeno ardito. La stessa Commissione Europea, che da qualche anno detta l’agenda dei problemi e delle soluzioni in Grecia, misura il “motore della crescita” in un modo assai diverso, che obbligherebbe a rimettere del tutto in discussione le argomentazioni del prof. Manasse. Dall’ Annual macro-economic database della Commissione Europea (Ameco), si osserva infatti un andamento completamente diverso.
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Non c’è trucco, non c’è inganno: scaricando i dati TED e ricostruendo l’indice si ottiene esattamente la figura pubblicata dal blog del Sole 24 Ore e, l’indice della TFP pubblicato da Ameco mostra nel 2007 un divario cumulato di quasi 15 punti a favore della Grecia. La notevole differenza va quindi ricercata nelle diverse fonti di dati cui attingono i due database e nella metodologia di stima della TFP. Il TED, ad esempio, considera quantità (probabilmente in ore) e qualità del fattore lavoro e distingue il capitale ICT dal resto. La serie di Ameco è ottenuta partendo dai dati di contabilità nazionale, senza distinguere lo stock capitale per natura o il fattore lavoro (espresso in numero di lavoratori) per qualità e calcolando la TFP in base al rapporto tra il Pil in euro a prezzi 2010 e una combinazione di capitale netto (a prezzi 2010) e lavoro secondo una funzione di produzione Cobb-Douglas, in cui la quota lavoro è definita dalla media storica della quota salari aggiustata per la composizione della forza lavoro (ovvero, non facendo il semplice rapporto tra compensi ai lavoratori e Pil a prezzi correnti, ma pesando tale rapporto per la quota di percettori di salario sul totale dei lavoratori).

In ogni caso, prescindendo da valutazioni sulla qualità dei dati e delle metodologie impiegate, in merito alle quali – alla luce delle tante complessità accennate – sarebbe davvero difficile arrivare ad una conclusione ferma, è importante rilevare come sia rischioso costruire tesi che preludono alla scelta di politiche di enorme impatto sulla base di concetti teoricamente elementari, ma empiricamente assai “scivolosi”. È possibile pensare che il motore della crescita sia qualcosa la cui misurazione è così incerta?

Un concetto un po’ più elementare e relativamente più facile da misurare – ma comunque estremamente discutibile – quale quello di produttività del lavoro alimenta altri dubbi: fatto 100 il Pil reale per ora lavorata nel 1995, nel 2007 in Germania l’indice è pari a 122,2, mentre in Grecia arriva a 137,6: uno dato che stride enormemente con l’immagine del mediterraneo fannullone i cui debiti vengono generosamente pagati dal solerte (e produttivo) operaio tedesco. E poi: se il capitale in Grecia era così poco produttivo da “ribaltare” una dinamica della produttività del lavoro più che soddisfacente, come mai gli investitori internazionali continuavano a offrirne in quantità?

Una ragione banale, ormai condivisa da praticamente tutti gli addetti ai lavori, sta nella distribuzione del prodotto: dal 1991 al 2007 la quota dei salari in Grecia è rimasta pressoché costante, mentre in Germania è crollata, perdendo oltre 6 punti percentuali. Ciò vuol dire che i lavoratori tedeschi hanno visto aumentare i loro salari molto meno che proporzionalmente rispetto alla loro produttività, il che ha implicato che qualcun altro comprasse ciò che i lavoratori tedeschi sapevano produrre, ma non potevano comprare. È proprio per evitare squilibri del genere tra domanda e offerta che la teoria economica vorrebbe che la produttività dei fattori e la loro remunerazione aumentassero di pari passo. Nell’eurozona, invece, le cose sono andate diversamente: i capitali internazionali hanno finanziato la domanda (interna) mancante.

Al bivio tra invitare ciascuna economia a promuovere dinamiche salariali sostenibili e costringere i paesi più deboli a tagliare i loro salari fino a diventare competitivi con chi la produttività non la redistribuisce, quale modello abbia scelto l’Europa è chiaro a tutti. Quello che ad alcuni non deve essere chiaro è che quando manca la crescita anche la produttività misurata va a picco, cosa su cui perfino i due grafici di cui abbiamo parlato concordano in pieno. E qui ci si divide tra chi pensa che la produttività sia il motore della crescita (e invoca “riforme strutturali”) e chi crede che la crescita sia (almeno in parte) il motore della produttività. I secondi pensano che per l’eurozona non ci sia futuro: anche per i salari c’è uno zero lower bound e l’Europa lo sta drammaticamente sfidando.

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