La procedura di nomina del Governatore e l’autonomia della Banca d’Italia: un déjà vu

Elena Paparella illustra la procedura per la nomina del Governatore della Banca d’Italia introdotta, in un turbolento contesto, nel 2005 e ricorda che essa ha indebolito l’autonomia della Banca riallocando il potere di nomina a carico dell’organo politico. Paparella, anche in base al confronto con altri paesi, sostiene, in particolare, che è rimasto irrisolto il problema della compatibilità tra l’indipendenza istituzionale della Banca e la riconduzione della nomina al capo del Governo. Questa debolezza contribuisce a spiegare le vicende delle ultime settimane.

In queste settimane di accesa discussione sulla nomina del nuovo Governatore della Banca d’Italia si è ripetutamente fatto riferimento al problema dell’autonomia della Banca, spesso intendendo questo termine in modi molto diversi. L’autonomia ha in realtà molte dimensioni, ed una di esse è certamente quella delle modalità di nomina del Governatore che i media hanno riportato negli ultimi giorni non sempre in modo corretto, e sulle quali appare opportuno soffermarsi non soltanto per permettere una loro migliore conoscenza, ma anche per illustrare il processo e i problemi che hanno condotto all’introduzione della normativa oggi vigente. Processo e problemi che non hanno soltanto un rilievo storico perché, al contrario, sembrano conservare una loro non del tutto tranquillizzante attualità.

Riguardo la procedura di nomina del Governatore, si ricorda che fino al 2005 sono state applicate le norme contenute nello Statuto della Banca d’Italia del 1936 (e successive modificazioni). Ai sensi di tale normativa la nomina del Governatore era di competenza del Consiglio Superiore della Banca d’Italia ed era approvata con decreto del Presidente della Repubblica, promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministro per il Tesoro, sentito il Consiglio dei Ministri. A partire dall’entrata in vigore della legge n. 262/2005, la nomina del Governatore è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione dello stesso Consiglio dei Ministri e sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia, deliberato a maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti e obbligatorio ai fini della deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il primo Governatore ad essere eletto con questa procedura è stato Mario Draghi nel dicembre del 2005.

In entrambi i casi, la nomina si presenta come un “atto complesso”, la cui volontà scaturisce dall’interazione di più organi, in particolare si tratta di un “atto complesso diseguale”, poiché vi è prevalenza della volontà di un soggetto sugli altri.

Secondo la disciplina ora superata, era la volontà del Consiglio Superiore della Banca – sia pure formalizzata dal decreto presidenziale cui aveva dato impulso il Governo – a determinare il contenuto dell’atto di nomina. La procedura si fondava, per l’appunto, sul c.d. “principio di autoproduzione” a controllo politico esterno, di tipo impeditivo ma non propositivo. Il Governo esprimeva un gradimento e nulla escludeva che potesse far valere eventualmente un “potere demolitorio” che, tuttavia, non si sovrapponeva alla volontà emersa dall’interno della Banca, ma, anzi, ne rimaneva estraneo.

La normativa del 2005 ha invece prodotto un decisivo spostamento verso il Governo, non solo di quella che potrebbe definirsi l’iniziativa del procedimento, ma anche della vera e propria investitura del Governatore. In altre parole, è stata ricollocata la titolarità dell’atto di nomina a carico dell’organo politico, ragione per cui l’indicazione del governo si traduce nell’unica volontà generante l’atto, mentre gli organi della Banca e il Presidente della Repubblica, esprimono un placet, che è sostanzialmente un atto successivo ed esterno alla nomina. Vi è inoltre da dire che in questo quadro è riemerso un dato problematico proprio in relazione all’autonomia della Banca, che le disposizioni della legge n. 262/2005 non hanno sciolto, ovvero la questione del parere del Consiglio Superiore della Banca – di cui all’art.19, c. 8. legge n. 262/2005 – che è obbligatorio, ma non sostanzialmente idoneo, in caso di disaccordo del Consiglio Superiore con la proposta del capo del governo, a generare un vincolo per quest’ultimo.

Ciò detto, ci si chiede se al termine di tale procedimento, la volontà finale dell’atto – sia pure in un contesto di discutibile indebolimento dell’autonomia della Banca – non debba continuare ad essere il risultato di quella “leale cooperazione tra poteri” che ha sempre caratterizzato la relazione tra Banca d’Italia e organi politici, fondata sul riconoscimento di un principio di competenza specifica – tecnica e politica – rispettivamente per la Banca e per il governo. In termini più generali, appare, infatti, evidente come le modalità di investitura dell’organo di vertice di una banca centrale giochino un ruolo decisivo nel determinarne l’ambito di autonomia che, non solo nel caso della Banca d’Italia – per la quale l’indipendenza dal potere politico è un connotato “storicamente” consolidato – ma anche di tutte le Banche del Sistema europeo di banche centrali (SEBC), è da ritenersi un requisito imprescindibile, sia sul piano dell’ordinamento giuridico interno, che su quello delle norme dell’Unione europea.

Peraltro, sul piano specifico della compatibilità della disciplina interna con quella dei Trattati, si ricorda che già la carica a vita del nostro Governatore rappresentava una grave dissonanza, per nulla evidenziata all’epoca del c.d. processo di “convergenza” delle legislazioni nazionali verso la compatibilità con i principi del Trattato Ue in materia di politica monetaria e di banche centrali (cfr. E. Paparella, Governo della moneta in Europa: la “convergenza normativa” in materia di banche centrali, in RIDPC, 2/2001). Com’è noto, infatti, nel progetto e nell’assetto normativo dell’UEM, l’indipendenza “istituzionale” dei banchieri centrali è presupposto giuridicamente vincolante a cui il legislatore nazionale è tenuto a conformarsi, anche esplicitando il ruolo che le banche centrali nazionali devono svolgere all’interno del SEBC (artt. 130-131 TFUE).

L’interrogativo che, quindi, sembra ormai riproporsi ad ogni scadenza di mandato del nostro Governatore è il seguente: come può l’asserita indipendenza istituzionale della Banca – che le disposizioni normative nazionali, di rango primario e secondario, devono assicurare, oltre che alla Banca, anche ai componenti dei suoi organi – considerarsi compatibile con una procedura di nomina del Governatore che vede ricondotta al solo capo del governo la sostanziale titolarità dell’atto? Le disposizioni dell’art. 19 della legge 262/2005 presentano, infatti, un elemento di evidente contraddizione, dal momento che la riconosciuta indipendenza della Banca, di cui al comma 3, viene effettivamente indebolita sul terreno della nomina dell’organo di vertice al comma 8.

Pertanto, considerando per un attimo in astratto la questione della collocazione istituzionale della Banca centrale, potrebbero essere confrontati due possibili orientamenti. In altri termini, si può privilegiare – come da alcuni sostenuto – l’aspetto della “indubbia rilevanza politica” da attribuirsi alla nomina dell’organo di vertice, oppure favorire – con una nomina “autoprodotta” – l’autonomia dell’ente, in considerazione delle delicate funzioni che esso deve svolgere secondo criteri di imparzialità indispensabili per il funzionamento di un sistema di governo che voglia dirsi democratico e, rispetto ai quali, qualsiasi forma di condizionamento politico, se non addirittura di spoil system, è da considerarsi inopportuna, oltre che illegittima.

In altri termini, si tratta di effettuare una scelta tra una visione secondo la quale la nomina dell’organo di vertice della banca centrale deve in ogni caso essere il frutto della volontà di organi politici, così da ricomporre, nel senso della legittimazione, il meccanismo di attribuzione di poteri ad un’autorità esterna all’apparato dell’esecutivo, oppure aderire all’idea secondo la quale l’esigenza dell’indipendenza dell’ente è da considerarsi primaria, e quindi deve essere garantita anche attraverso una nomina del Governatore che abbia origine all’interno dell’istituto. Scegliere tra l’una o l’altra delle due impostazioni è il “dilemma” che il legislatore si troverebbe a dover risolvere, in realtà solo in linea di principio, considerati i concreti vincoli dettati dai Trattati Ue sull’indipedenza istituzionale delle banche centrali del Sistema.

Quello che emerge, a grandi linee, anche dal lungo e complesso iter parlamentare della legge n. 262/2005 è che il quadro nel quale si vanno a collocare le vigenti disposizioni sulla nomina del Governatore, è quello di una complessiva diminuzione della centralità dell’organo di vertice della Banca, finalizzato sostanzialmente ad evitare che, soprattutto in relazione ad interventi di vigilanza, le decisioni possano essere ricondotte esclusivamente alla volontà del Governatore. Tale “riallineamento” dei poteri del Governatore rispetto agli altri organi direttivi della Banca potrebbe essere condivisibile se venisse comunque assicurata l’autonomia dell’istituto, ma l’aver spostato la titolarità dell’investitura del Governatore tutto a favore del governo, non sembra che possa offrire – soprattutto nell’attuale contesto della nostra forma di governo – tale garanzia ed espone la nomina a rischi di pressione politica variamente espressa, come mostrano le vicende delle ultime settimane.

In conclusione occorre ricordare che l’analoga disciplina in vigore nei Paesi che hanno adottato la moneta unica – e che, quindi, devono necessariamente garantire alla banca centrale, attraverso le rispettive legislazioni, uno status di piena indipendenza dal potere politico – in alcuni casi prevede che il governo partecipi della procedura di nomina del presidente/governatore, oppure, in altri casi, possa essere del tutto responsabile dell’investitura. Tuttavia, il grado di incidenza dell’origine governativa della nomina sull’autonomia della banca centrale, in realtà non è mai definito soltanto da un determinato assetto di norme, ma è in larga misura anche il risultato di una “convenzione” tra le istituzioni che operano secondo indirizzi e per obiettivi concordati, in un contesto in grado di favorire la sostanziale indipendenza dell’istituzione tecnica – banca centrale – dall’istituzione politica – governo.

Si pensi al caso paradigmatico della Bundesbank, la cui indipendenza, già in epoca pre-moneta unica, era sacralmente posta a difesa della stabilità del marco, incessantemente alimentata proprio da quella stessa “cultura della stabilità” che ha favorito la banca centrale nel riuscire a preservare il suo status. La vigente normativa tedesca prevede, infatti, che – analogamente alla disciplina dell’art. 19, c. 8, della legge n. 262/2005 – il presidente della banca sia nominato dal governo federale, sentito il parere del comitato esecutivo della banca. Ciò che tuttavia non è dato di poter riscontrare nella nostra legislazione e che, al contrario, è codificato nel sistema tedesco, è il riconoscimento dell’indipendenza della banca centrale in un contesto di “cooperazione” con l’esecutivo (artt. 7, 12, 13 Bundesbank Act, art. 13, “Cooperation”: “(1) The Deutsche Bundesbank shall advise the Federal Government on monetary policy issues of major importance, and shall furnish it with information on request; (2) The Federal Government should invite the President of the Deutsche BundesBank to attend its deliberations on important monetary policy issues.”). Presumibilmente, proprio la mancanza nel nostro ordinamento di questo dato normativo testuale, anche se non ne è l’unica ragione, di certo non contribuisce ad evitare le contrapposizioni tra Banca d’Italia e Governo alle quali si è assistito anche di recente.

Infine, non si può evitare di riflettere sul fatto che tali contrasti rappresentano anche il frutto di politiche legislative dettate e indirizzate, ormai da decenni, dall’urgenza e dalla contingenza politica, invece che da una visione ampia e lungimirante della struttura e delle relazioni tra le istituzioni, che sia funzionale ad indirizzi e obiettivi predeterminati e di lungo periodo. Anche la legge n. 262/2005 è, infatti, maturata in un contesto connotato da aspre contrapposizioni in Parlamento, in gran parte dettate dai contrasti politici del momento; ne danno prova gli interventi sulla “… stucchevole lotta tra “fazisti e antifazisti”, come se una legge sul risparmio dovesse riguardare solo una persona (…), l’esigenza di una legge che riveda sia la governance societaria sia gli assetti delle authorities va ben oltre le singole persone, per quanto le medesime possano essere autorevoli (…)” (cfr. intervento on. Mario Lettieri, Camera dei Deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 704,14/11/2005).

In altri termini, nel presunto tentativo di risolvere il nodo di un Governatore inamovibile, se ne è spostato il potere d’investitura del tutto a favore del governo.

La cura, come spesso accade, rischia di rivelarsi più nociva della patologia poiché, come mostrano anche le vicende di questi giorni, quel che inevitabilmente resta nel tracciato dei processi istituzionali è il segno negativo di un sistema istituzionale che procede con enorme difficoltà, con un alto tasso di conflittualità e più che mai lontano da qualsiasi principio e forma di “leale cooperazione”.

* Queste note riprendono temi trattati in E. Paparella, La controversa nomina del nuovo Governatore e il (presunto) ruolo “ausiliario” della Banca d’Italia, in Rivista-Associazione Italiana Costituzionalisti, 02/11/2011; e anche in Id., La collocazione istituzionale del banchiere centrale in Italia e in Europa: le origini e i recenti sviluppi in tempi di crisi, in Studi in onore di Claudio Rossano, Napoli, Jovene, 2013.

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