La pensione di cittadinanza. Un’occasione persa?

Massimo Baldini, Carlo Mazzaferro e Stefano Toso illustrano in dettaglio le caratteristiche della Pensione di Cittadinanza, che si distingue dal Reddito di cittadinanza non solo per la denominazione ma anche perché il trasferimento monetario è strutturato in modo diverso. Gli autori ragionano sui limiti che tale strumento presenta in un contesto come quello italiano caratterizzato da un insieme spesso disorganico di misure di contrasto della povertà per gli anziani.

La pensione di cittadinanza è l’ultimo di una lunga serie di interventi a favore degli anziani in condizione di povertà. In questo contributo ne analizziamo le caratteristiche e la coerenza con il disegno attuale dell’insieme di prestazioni assistenziali erogate dal sistema pensionistico italiano.

Anche prima dell’introduzione del REI e del reddito di cittadinanza per gli anziani era prevista un’ampia serie di trasferimenti a contrasto della povertà. Ricordiamo, ad esempio, le integrazioni al minimo per le pensioni di importo inferiore a 509 euro, l’assegno sociale, l’importo aggiuntivo per le pensioni previdenziali, le maggiorazioni sociali e, in un’accezione più ampia, le pensioni di invalidità civile e l’assegno di accompagnamento. L’insieme delle prestazioni assistenziali erogate dal sistema pensionistico italiano realizza, seppure in maniera alquanto tortuosa, l’obiettivo di garantire a tutti i soggetti con età superiore ai 70 anni, un livello minimo di reddito, attualmente pari a 643 euro per tredici mensilità. Rimanevano fuori dal disegno di protezione dalla povertà nella parte anziana della popolazione i soggetti che non avevano raggiunto l’età per accedere all’assegno sociale e non avevano maturato i requisiti per la percezione di una prestazione di tipo previdenziale, un aspetto non trascurabile, soprattutto in considerazione del progressivo innalzamento dell’età di pensionamento e dell’età in cui si diventa beneficiari di assegno sociale.

Le evidenze empiriche mostrano che i pensionati e le loro famiglie non rientrano tra le categorie maggiormente a rischio di povertà, né sono la parte della popolazione maggiormente colpita dagli effetti negativi della crisi finanziaria ed economica che ha interessato l’economia italiana a partire dal 2008. Nel corso degli ultimi 30 anni la condizione dei pensionati rispetto a quella dei lavoratori è decisamente migliorata. Il rapporto tra il valore medio della pensione e quello della retribuzione media, entrambi misurati al netto della tassazione personale sul reddito, passa dal 40% della fine degli anni ’70 del secolo scorso a valori superiori all’80% nel 2017. La quota di famiglie con pensionato capofamiglia sotto la soglia di povertà relativa per anno passa, secondo stime basate sui dati campionari della Banca d’Italia, dal 50% circa della fine degli anni ’70 del secolo scorso a valori intorno al 15% del 2017. Anche le comparazioni internazionali situano l’Italia tra le nazioni per le quali il fenomeno della povertà tra gli anziani è meno intenso.

In questo contesto la pensione di cittadinanza, introdotta da aprile 2019 insieme al reddito di cittadinanza, rischia di essere l’ennesimo tassello di un sistema ormai caotico e difficilmente razionalizzabile, nel quale la componente assistenziale della spesa pensionistica risulta sempre più difficile da valutare e da misurare.

La pensione di cittadinanza (PdC) estende ai nuclei con uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni, i benefici economici introdotti con il reddito di cittadinanza. Sia il richiedente del reddito di cittadinanza sia quello della pensione di cittadinanza devono essere cumulativamente: 1) in possesso della cittadinanza italiana o di un paese facente parte dell’Unione europea, ovvero loro familiare e titolare del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadini di Paesi terzi in possesso di permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo; 2) residenti in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Per quanto riguarda i requisiti economici, il nucleo familiare del beneficiario della pensione di cittadinanza deve avere: a) un Isee inferiore a 9.360 euro; b) un patrimonio immobiliare (definito a fini Isee con l’esclusione della casa di abitazione), in Italia e all’estero, non superiore a 30.000 euro; c) un patrimonio finanziario (sempre definito a fini Isee) non superiore a 6.000 euro (l’importo è aumentato in base al numero dei membri della famiglia e alla presenza di disabili); d) un reddito familiare (definito a fini Isee, comprensivo dei trattamenti assistenziali non ivi inclusi se soggetti alla prova dei mezzi) inferiore a 7.560 euro annui, moltiplicato per il corrispondente coefficiente di equivalenza. In aggiunta ai requisiti economici di tipo reddituale e patrimoniale, la legge fissa ulteriori vincoli all’accesso alla misura con riferimento al godimento di alcuni beni durevoli: il nucleo richiedente non deve possedere auto immatricolate negli ultimi sei mesi, né auto o moto di cilindrata elevata immatricolate negli ultimi due anni, né navi o imbarcazioni da diporto.

Il beneficio economico della pensione di cittadinanza si compone di due elementi: una prima parte a integrazione del reddito familiare, fino alla soglia predetta di 7.560 euro (630 euro al mese) moltiplicata per il corrispondente coefficiente di equivalenza e una seconda parte che incrementa il beneficio di un importo pari all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto di locazione (o alla rata del mutuo per l’acquisto o la costruzione dell’abitazione principale) fino a un massimo di 1.800 euro annui (150 euro al mese). L’ammontare massimo della pensione di cittadinanza per un anziano solo è quindi di 9.360 euro (780 euro mensili), un valore esattamente pari al reddito di cittadinanza percepito dal single nullatenente, anche se ottenuto con una riponderazione della parte reddituale del beneficio (che è pari al massimo a 500 euro al mese nel caso del reddito di cittadinanza). La pensione di cittadinanza, esente da Irpef, è corrisposta in via permanente ed è suddivisa in parti uguali tra i componenti il nucleo familiare.

Che valutazione dare del nuovo istituto? Una prima osservazione è che la pensione di cittadinanza, lungi dal fare ordine nell’affastellato e disorganico sistema italiano di prestazioni assistenziali rivolte agli anziani, contribuisce ad aumentarne il già elevato grado di frammentarietà, interessando peraltro una platea modestissima di pensionati. Il carattere fortemente selettivo dei requisiti di accesso restringe infatti di molto la possibilità di beneficiare del contributo mensile. Tutti i componenti del nucleo familiare, e non solo il capofamiglia, con la sola eccezione della eventuale presenza di persone in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza, devono avere almeno 67 anni. Anche la norma che fissa in 6.000 euro annui la soglia di patrimonio mobiliare al di sopra della quale si è esclusi dal trattamento pensionistico è piuttosto bassa. Va poi tenuto conto che l’importo mensile della pensione di cittadinanza non copre la differenza tra la pensione percepita e i fatidici 780 euro (per un nucleo mono-componente) ma solo quella tra la pensione e 630 euro. In Italia poi gli anziani che possiedono una casa sono circa il 90% e quindi l’integrazione aggiuntiva (150 euro mensili) riguarda una quota molto bassa di ultra-sessantaseienni.

Nonostante l’introduzione aggiuntiva della pensione di cittadinanza, il problema dell’individuazione di un uniforme e appropriato sistema di targeting da applicare ai fini della individuazione dei beneficiari di prestazioni sociali rivolte agli anziani appare tutt’altro che risolto e, anzi, è stato ulteriormente complicato dalla recente riforma. A seconda del trattamento convivono nel sistema italiano prove dei mezzi basate, nei vari casi, sul reddito individuale, sul reddito familiare, sul patrimonio e su metriche miste come l’Isee. Affrontare questo problema è tanto più urgente quanto più si consideri che l’ingente massa di risorse pubbliche devolute va ad una popolazione, quella degli ultra sessantacinquenni, che da ormai una decina d’anni è caratterizzata da tassi di povertà assoluta pari alla metà della media nazionale e a un terzo di quella che si registra tra i minori di 17 anni.

Un ulteriore aspetto critico riguarda l’effetto distorsivo che l’introduzione della pensione di cittadinanza potrebbe determinare sui comportamenti individuali. Se si sommano i trattamenti assistenziali che un anziano povero può in teoria percepire, quest’ultimo si vede accreditato un beneficio monetario comparabile a quello riservato a un lavoratore a basso reddito e/o con carriera discontinua. In linea di principio un soggetto potrebbe quindi essere indotto ad astenersi dal cercare un lavoro (o a lavorare in nero) e a non effettuare il versamento dei contributi pensionistici, potendo comunque contare da anziano su di una serie di trattamenti assistenziali di importo complessivo non dissimile da quello della pensione di vecchiaia che percepirebbe se lavorasse.

Il rischio di povertà per gli anziani è molto inferiore rispetto alle altre fasce di età, ma rimangono comunque ancora alcune centinaia di migliaia di anziani in povertà relativa con linea al 40% del reddito equivalente. Sulla base di alcune elaborazioni che abbiamo svolto sul dataset Silc 2016, rappresentativo della distribuzione del reddito nazionale, risulta inoltre che per gli anziani poveri la probabilità di ricevere la PdC è inferiore alla probabilità che le persone più giovani che si trovano in povertà possano ottenere il Reddito di cittadinanza. Per gli anziani, infatti, la povertà di reddito ha caratteristiche peculiari, soprattutto perché un basso reddito può associarsi a valori non trascurabili di patrimonio, in particolare immobiliare. Il diritto al RdC/PdC dipende infatti non solo dal reddito disponibile, ma anche dal valore dell’Isee. Se una famiglia ha reddito molto basso ma Isee più alto grazie alla componente patrimoniale, essa può rimanere esclusa dal sussidio.

L’introduzione del reddito di cittadinanza ha suscitato grandi aspettative per il forte incremento dello sforzo economico dello Stato nel contrasto della povertà economica ma anche non poche perplessità legate in particolare alla fretta con cui la misura è stata varata e alle difficoltà di avviare i percorsi di inclusione e riattivazione sociale. Nel caso degli anziani le perplessità riguardano l’opportunità di estendere il nuovo istituto ad una fascia di età che, grazie alle misure già in essere, vanta oggi un rischio di povertà molto inferiore a quello dei giovani. In un contesto di risorse scarse e di alta povertà minorile, ha senso destinare nuove risorse agli anziani? Eppure la povertà esiste ancora anche tra loro. Per contrastarla ci si deve quindi chiedere se sia preferibile riservare una componente specifica del reddito di cittadinanza agli anziani poveri, come è stato fatto con la pensione di cittadinanza, o invece incamminarsi verso un graduale ma coerente riordino delle misure vigenti. Noi propendiamo per la seconda linea d’azione. Riteniamo inoltre che la lotta alla povertà tra gli anziani debba prima di tutto fondarsi sulla ridefinizione dei sistemi correnti di means-testing. La determinazione di una uniforme e appropriata prova dei mezzi e la sua applicazione alle politiche di contrasto della povertà tra gli anziani, tipicamente caratterizzati dal fatto di essere poveri di reddito ma ricchi di patrimonio (in quanto possessori dell’abitazione di residenza) non è tuttavia compito agevole. Subordinare, ad esempio, tutti i benefici economici all’Isee – una delle possibili ipotesi in campo – non è di per sé scontato, visto che anche tra gli anziani che vivono in povertà o quasi-povertà la ricchezza immobiliare può raggiungere livelli ragguardevoli ma presentare problemi di scarsa liquidità. Al tempo stesso è difficile sostenere che la valutazione della loro condizione economica possa prescindere del tutto da una variabile di stock, come il patrimonio. Per questo riteniamo che, in assenza di una vera e propria riforma, invece che ideare l’ennesima misura a favore degli anziani poveri, sarebbe stato preferibile fare leva sul potenziamento di un istituto collaudato come l’assegno sociale, rivolto ai cittadini italiani e stranieri in condizioni economiche disagiate e con redditi inferiori a soglie predeterminate.

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