La MMT dalla teoria alla prova dell’Eurozona

Alessandro Bonetti e Paolo Paesani si confrontano con la Modern Monetary Theory, una dottrina economica eterodossa che di recente è stata al centro di accesi dibattiti. Dopo avere ricordato quali siano i suoi pilastri teorici e i loro antecedenti, Bonetti e Paesani discutono il possibile legame tra limiti alla sovranità monetaria, da un lato, ed esposizione al rischio default per i paesi dell’Eurozona, dall’altro, che è il tema di cui più di recente si è molto discusso in relazione alle posizioni della Modern Monetary Theory.

La Teoria della Moneta Moderna (Modern Monetary Theory, di seguito MMT) è un insieme di proposizioni sull’interazione tra economia reale, moneta e bilancio pubblico, elaborate a partire dagli anni Novanta. Base della MMT è l’idea cartalista che la moneta non emerga spontaneamente dall’interazione di attori privati all’interno del mercato ma come risultato di un’autorità emittente. Per la MMT lo Stato, “monopolista della valuta”, ha il potere di creare attività finanziarie nette a vantaggio del settore privato, ossia attività che non comportano una corrispondente passività all’interno del settore privato stesso. Da questa idea di fondo discendono due implicazioni importanti.

Primo, per la MMT il default involontario di uno Stato sovrano è impossibile: lo Stato non può “finire i soldi”, non può diventare insolvente nella sua stessa valuta. Il bilancio di uno Stato non è come quello di un cittadino o un’impresa e lo Stato non è una famiglia almeno finché è in grado di esercitare una piena sovranità monetaria, punto sul quale torneremo più avanti. Secondo, per la MMT lo Stato non ha bisogno di “finanziarsi” attraverso le imposte prima di spendere. Al contrario, è la spesa pubblica a precedere logicamente l’imposizione fiscale, perché è attraverso la spesa che lo Stato immette valuta nell’economia che poi ritirerà attraverso le imposte pagate in moneta legale.

In altri termini, forte del suo potere di esercitare pressione fiscale, lo Stato genera una domanda di moneta da parte dei contribuenti, spingendoli a offrire lavoro per procurarsela. Questa domanda di moneta sarà soddisfatta dalla liquidità creata attraverso la spesa pubblica e drenata attraverso le imposte. In quest’ottica, le imposte e la spesa pubblica insieme sono lo strumento attraverso il quale lo Stato si approvvigiona delle risorse reali di cui ha bisogno per funzionare.

Partendo da questa impostazione, la MMT si sofferma sulla capacità dello Stato di stabilizzare l’economia e di fornire un sostegno alla crescita e all’occupazione attraverso la politica fiscale e interventi anticonvenzionali come il Job Guarantee (JG), che prevede di regolare disoccupazione e inflazione attraverso un “buffer stock” di dipendenti pubblici variabile in funzione del ciclo economico. Finanziare programmi del genere per la MMT non comporta problemi particolari a patto che lo Stato mantenga la propria sovranità monetaria. Per la MMT il limite di spesa di uno Stato (sovrano) è dato dai vincoli reali, non da quelli finanziari, che sono sempre auto-imposti (essenzialmente per motivi politici). Sono le risorse reali che una nazione può mobilitare a definire invece i suoi limiti di sviluppo e la capacità che uno Stato ha di spendere senza generare pressioni inflazionistiche.

Intorno alla MMT sono nati dibattiti accesi tra gli economisti di varia impostazione, ortodossa ed eterodossa, a livello internazionale e in Italia. L’eco di questi dibattiti ha raggiunto da tempo la comunicazione di massa e vede anche qui contrapporsi sostenitori e critici feroci di questa nuova dottrina monetaria. Sul versante mainstream, convinto dell’esistenza di un livello “naturale” del reddito e dell’occupazione, determinato esclusivamente da tecnologia, risorse e preferenze degli agenti economici, e indipendente dalla moneta, la MMT è vista con grande sospetto. Un artificio retorico a sostegno dell’illusione che lo Stato possa creare la ricchezza dal nulla controllando la spesa pubblica e la moneta, un’illusione pericolosa, destinata ad alimentare sprechi e inflazione. Tra i sostenitori della MMT, si sottolinea la necessità di riaffermare il principio che produzione e occupazione dipendono dalla domanda di beni superando l’idea che esista un tasso di disoccupazione “naturale”, che può ridursi solamente aumentando la flessibilità del mercato del lavoro e riducendo i salari. Pochi mesi fa, l’uscita del libro di Stephanie Kelton, Il mito del deficit (Fazi Editore, 2021), ha alimentato ulteriormente l’interesse per la MMT e le polemiche che accompagnano questa dottrina. Anche per questo, iniziative come la lezione sulla MMT, tenuta dall’economista post-keynesiano Marc Lavoie, nell’ambito dell’ultimo convegno annuale dell’Associazione Italiana per la Storia dell’Economia Politica (STOREP), che si è tenuto all’Università dell’Insubria, sono importanti e meritano attenzione.

La lezione di Lavoie ha preso le mosse dai tre elementi di fondo su cui, a suo giudizio, si fonda la MMT: il principio keynesiano della domanda effettiva, la teoria kaleckiana della crescita trainata dagli investimenti e dai profitti, la rappresentazione del sistema economico come un insieme di settori legati tra loro da relazioni reali e finanziare che coinvolgono flussi e stock di cui fanno parte la Banca Centrale, l’autorità fiscale, il sistema finanziario e il settore privato (consumatori, imprese).

Nell’ambito di questa visione, l’aumento della spesa e del deficit pubblico non implica necessariamente l’aumento dei tassi d’interesse con conseguente riduzione dei consumi e degli investimenti privati (effetto spiazzamento o crowding out). Allo stesso tempo, non è detto che ridurre la tassazione sui redditi e la ricchezza porti gli individui a lavorare e a risparmiare di più (effetto Laffer). Ciò che conta, nel determinare il reddito e l’occupazione è il livello complessivo della domanda aggregata e la capacità dei diversi attori del sistema economico, pubblici e privati, di onorare con regolarità i propri debiti, che sono i crediti di qualcun altro. Debiti e crediti sono denominati in termini di un’unità di conto che spetta allo Stato fissare e regolare.

Lo Stato determina l’unità di conto, emette moneta e obbligazioni denominate e ripagabili nella stessa moneta, non s’indebita in valuta estera. In questo si sostanzia la sovranità monetaria che lo Stato esercita, di concerto con la Banca Centrale, a cui spetta il compito di regolare i tassi d’interesse. Su questo si fonda la garanzia per chi sottoscrive il debito pubblico di riavere indietro il proprio investimento. Se a questo aggiungiamo l’ipotesi che il paese adotti un regime di cambi flessibili, escludendo la presenza di vincoli sul valore esterno della moneta, la piena sovranità monetaria è raggiunta e con essa la possibilità per lo Stato di agire a sostegno della crescita e alla piena occupazione.

Una visione del genere è stata da molti (soprattutto da parte dei post-keynesiani) tacciata di attagliarsi con precisione a una sola nazione nel mondo: gli Stati Uniti d’America. Il merito di credito del governo degli Stati Uniti rimane solidissimo, nonostante il forte aumento del deficit e del debito pubblico, registrati negli ultimi anni, e il persistente deficit esterno lo avrebbero dovuto compromettere, almeno secondo le teorie tradizionali. La Federal Reserve, pur mantenendo la propria indipendenza, segue con attenzione gli sviluppi macroeconomici interni ed è impegnata a sostenere l’economia reale e il sistema finanziario statunitense con strumenti convenzionali e non convenzionali. Il dollaro, prima e più importante valuta di riserva internazionale, fluttua liberamente nel mercato dei cambi senza registrare tensioni particolari.

L’insieme di queste condizioni fa sì che gli Stati Uniti godano di spazi di manovra nella gestione delle proprie politiche fiscali e monetarie fuori dalla portata della maggior parte delle nazioni del mondo. Come ha osservato Jan Kregel fra gli altri, il fatto di esercitare formalmente la sovranità monetaria, nel senso sopra specificato, non garantisce un esercizio sostanziale della stessa. Strette tra un debito denominato in valuta estera, limiti nella capacità produttiva e un posizionamento non sempre favorevole nelle catene globali del valore, molte nazioni emergenti non hanno alcuna possibilità di applicare le indicazioni di policy della MMT. A tal riguardo, la MMT prescriverebbe in primis di rafforzare la sovranità monetaria e aumentare l’indipendenza nella gestione e nell’approvvigionamento di risorse reali. Tuttavia, questo è spesso difficile per i Paesi che si trovano nei gradini più bassi della gerarchia valutaria internazionale e che hanno scarse risorse reali.

Per i teorici della MMT questi stessi problemi, legati alla presenza di limiti alla sovranità monetaria, hanno colpito anche alcuni Paesi europei, nell’ambito della cosiddetta crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona. La narrazione di quella crisi da parte della MMT comincia con la scelta di una parte dei membri dell’UE di rinunciare alla sovranità monetaria a favore dell’euro, affidato alla Banca Centrale Europea, al Patto di Stabilità e Crescita e a una rigida separazione tra politica fiscale e monetaria. Con questa scelta, prosegue la narrazione MMT, i paesi dell’Eurozona si sarebbero condannati a utilizzare una “valuta estera”, esponendosi ai diktat e ai capricci dei mercati finanziari.

Scrivendo nel 2012, Randall Wray, uno dei principali esponenti della MMT, affermava: “La nostra tesi era che separare la politica fiscale dalla sovranità monetaria avrebbe sollevato questioni di solvibilità che avrebbero limitato la capacità della politica fiscale di espandersi quando necessario“. La scelta di aderire all’UME avrebbe dunque posto quei paesi in una condizione di fragilità strutturale, che l’impatto della recessione e della crisi finanziaria ha trasformato in una crisi sistemica. Quali le possibili soluzioni per evitare che crisi simili si ripropongano in futuro? In sintesi, o ritornare alle valute nazionali, o creare un Tesoro europeo. In ogni caso, occorrerebbe ricongiungere pienamente la politica fiscale alla sovranità monetaria.

L’interpretazione della crisi europea fornita dai teorici della MMT non ha trovato un accordo generale, nemmeno nel campo affine dell’economia post-keynesiana. Per Lavoie, il vero problema dell’Eurozona è nei vincoli alla politica fiscale (da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita), nella mancanza di un vero governo centrale e nella passata reticenza della BCE a svolgere il ruolo di compratore di ultima istanza dei titoli di Stato dei Paesi membri.

Questa visione presenta alcune differenze rispetto a quella proposta da Sergio Cesaratto, commentata sul Menabò, per il quale la crisi dell’Eurozona è stata una crisi di bilancia dei pagamenti, con alcune particolarità dovute alla presenza di un’unione monetaria incompleta. La mancanza di sovranità monetaria degli Stati membri avrebbe esacerbato la crisi, la cui origine risiederebbe tuttavia principalmente negli squilibri esteri.

Le tre prospettive a cui abbiamo accennato mostrano alcune linee di faglia che ancora dividono la MMT dalle scuole post-keynesiane più “tradizionali”, e che separano gli stessi post-keynesiani fra di loro. Ben venga dunque il confronto, tra economisti portatori di visioni diverse, in un momento in cui politicamente e mediaticamente la MMT sta ricevendo molta attenzione e in una fase storica che ha visto l’economia mondiale scossa dall’emergenza pandemica, con le sue ricadute sulla produzione, l’occupazione e le finanze pubbliche di molti stati del mondo. Il dibattito è aperto!

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