La lunga ricerca di una dimensione sociale per le politiche comunitarie

Raffaele Tangorra ripercorre le recenti politiche dell’UE, dal punto di vista della loro “dimensione sociale” e sostiene che all’ambizione di considerare lo spazio europeo come un “modello sociale” è sempre seguito un ripiegamento sulla mera dimensione economica e finanziaria. Tangorra sottolinea che con la Commissione Juncker la parola “povertà” è uscita dal lessico comunitario e anche se lo spostamento del focus dall’austerity all’investimento potrà avere con conseguenze positive sulla crescita, la parte più vulnerabile della popolazione sembra dimenticata

E’ almeno dalla fine degli anni ‘90 del secolo scorso che le istituzioni europee sono alla ricerca di una “dimensione sociale” che ne possa caratterizzare l’azione. La Strategia di Lisbona, varata nel 2000, aveva rappresentato da questa prospettiva un punto di svolta: l’obiettivo strategico condiviso al più alto livello, dai capi di Stato e di Governo dei paesi della UE, non era solo quello di rendere l’economia europea la più dinamica e la più competitiva nel mondo, ma anche quello di accompagnare la crescita con “migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale”. Ma sin da allora il tentativo di dare un volto “sociale” all’azione comunitaria si è confrontato con una continua tensione a riportarla invece nell’alveo della mera dimensione economico-finanziaria e, in particolare, della disciplina di bilancio. Nel caso della Strategia di Lisbona il coordinamento “verso l’alto” nel campo delle politiche sociali ha subito stentato a decollare e, a metà percorso, con l’insediamento della prima Commissione Barroso, la strategia è stata rifocalizzata (anche nominalmente) su “growth and jobs” – crescita e occupazione – relegando le politiche sociali ad un ruolo ancillare e settoriale rispetto a quello centrale e trasversale che si riconosceva alle politiche economiche e finanziarie. E’ una dinamica che tende ciclicamente a riproporsi, almeno osservando le più recenti vicende della Strategia Europa 2020 – su cui qui ci si concentrerà – varata alla fine dello scorso decennio come seguito della Strategia di Lisbona e da subito impostasi per l’attenzione riservata, per l’appunto, al rafforzamento della dimensione sociale.

Le ambizioni sociali di EU2020 sono state chiare già dalle “parole-manifesto” usate per descrivere la strategia, il cui fine dichiarato era il perseguimento di una “crescita intelligente, sostenibile, inclusiva”. L’attributo “inclusiva”, in particolare, intendeva caratterizzare una crescita capace di ridurre la povertà e l’esclusione sociale: con EU2020, infatti, i vertici della UE si impegnavano a ridurre di 20 milioni i poveri in Europa entro la fine del decennio. Va ricordato il clima generale in cui la Strategia era stata varata: l’espandersi della crisi economica e finanziaria richiamava la responsabilità dei vertici dell’Unione a fornire risposte coordinate per affrontarne le conseguenze sociali. Peraltro, proprio la crisi ha mostrato come i welfare state europei meglio attrezzati – rispetto ad esempio agli Stati Uniti – siano riusciti a evitare le più pesanti conseguenze sociali della fase recessiva e ha fatto anche riscoprire che sistemi ben disegnati possono agire da stabilizzatori automatici del ciclo.

Si è trattato però di una breve stagione. Sin da subito è apparso chiaro che la concreta attuazione degli impegni presi non sarebbe stata all’altezza delle aspettative di rilancio della dimensione sociale dell’azione comunitaria. Quasi immediato, infatti, è stato il ripiegare della Strategia EU2020 dai suoi contenuti sociali più ambiziosi ad una attenzione quasi ossessiva alle politiche di consolidamento fiscale. Il momentum iniziale – frutto della ricerca di Commissione e Paesi membri, mediante una maggiore caratterizzazione sociale del coordinamento comunitario, di una rinnovata fiducia nelle istituzioni da parte delle popolazioni europee – non è stato successivamente sfruttato.

Esaminando il primo biennio della strategia (2010-11), sostanzialmente non v’è traccia degli impegni in termini di lotta alla povertà nei documenti della Commissione. Non ve n’è nella Growth Survey – il documento di indirizzo che alla fine di ogni anno fissa le priorità strategiche generali per i paesi membri – così come non si trovano riferimenti “sociali” nelle prime raccomandazioni specifiche ai Paesi – adottate ogni anno al termine del cosiddetto “semestre europeo” per condizionare le scelte di bilancio nazionali, tipicamente autunnali. E anche quando (a partire dal 2012) si è cominciato a fare qualche timido accenno si è trattato di poco più che una nota a margine: quanto alle Growth Survey, meno di dieci righe in un documento intorno alle 15 pagine; quanto alle raccomandazioni, pochi cenni (nel 2013 e, in particolare, nel 2014 anche per l’Italia) nell’ambito di raccomandazioni per altri versi molto analitiche e, comunque, per solo un terzo dei paesi. Molto più pregnanti, in materia di welfare, i richiami per quasi tutti i paesi alla sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico e, in maniera sempre più diffusa, dei sistemi sanitari.

Certo va segnalata la decisione di orientare l’utilizzo dei fondi strutturali comunitari nel settennio 2014-20 agli obiettivi di EU2020 e, in particolare, di introdurre uno specifico vincolo di destinazione – pari al 20% del Fondo sociale europeo – per obiettivi di lotta alla povertà da declinare con la programmazione nazionale e regionale. Va anche notato un certo attivismo retorico della Commissione e del Consiglio Europeo sulla necessità di rafforzare la dimensione sociale dell’Unione economica e monetaria, con una Comunicazione della Commissione a questo tema dedicata alla fine del 2013. Ma quel che è apparso più evidente è stata l’assenza di idee forti, peraltro comprensibile, trattandosi di una Commissione a fine mandato.

Molta attesa vi era quindi per la nuova Commissione europea a guida Juncker, insediatasi a novembre 2014. Ebbene, se negli anni era stata manifestata qualche timida apertura dal Gabinetto Barroso, alla luce di questo primo scorcio di azione della nuova Commissione sembra che l’attenzione sia tornata nuovamente ed esclusivamente sulla dimensione economica delle politiche. Certo, il focus si sposta dalle politiche di austerity alla necessità di oculate politiche di investimento e non può negarsi il diverso impatto sociale di tali scelte generali di politica economica. Ma il punto qui è l’attenzione specifica alla parte più vulnerabile della popolazione, completamente assente anche nella retorica. Si prenda ad esempio la prima Growth Survey a firma Juncker; in essa la parola “poverty” ricorre due sole volte in tutto il testo (20 pagine): nel primo caso nel contesto della necessità delle riforme strutturali nei mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, perché queste “contribuiscono a migliorare la situazione sociale generale e a ridurre la povertà” (pag. 10); nel secondo caso, nel contesto della necessità di spending review al fine di permettere, valutando l’efficienza dei programmi di spesa esistenti, ai sistemi di welfare di “giocare il loro ruolo nella lotta alla povertà” (pag. 15). Quanto alle raccomandazioni specifiche adottate a maggio – se si prescinde da quelle sull’integrazione delle minoranze ROM – quelle relative alla povertà si sono ridotte ad una soltanto. Da ultimo si prenda l’atteso Rapporto dei Cinque Presidenti (oltre a Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi e Schulz) sul completamento dell’Unione Economica e Monetaria: qui la parola poverty non compare nemmeno una volta in tutto il rapporto e agli aggettivi “smart, sustainable, inclusive” si sostituiscono i meno impegnativi “deep, genuine and fair”. Ad una agenda molto ambiziosa di integrazione delle politiche economiche non corrisponde alcuno specifico processo in ambito sociale, se non un timido cenno alla necessità di un social protection floor, una protezione sociale di base, previsione che data l’elevata eterogeneità dei Paesi membri rischia di rimanere sterile e puramente formale.

L’impressione, in sintesi, è quella di un passo indietro rispetto ad un percorso che già poca strada aveva fatto con la Commissione precedente. Il punto è che nei primi anni della Strategia la visione condivisa in sede comunitaria delle politiche economiche necessarie a uscire dalla crisi – per semplificare, le politiche di austerità considerate necessarie per ridare fiducia ai mercati e per rendere sostenibili i debiti sovrani sotto attacco – è apparsa inconciliabile con le rinnovate promesse di lotta alla povertà e all’esclusione sociale di cui EU2020 si era fatta originariamente carico. E oggi, mentre si avverte il fallimento di quelle politiche, la tentazione – per la verità ancora un po’ confusa – è di concentrarsi sui margini di flessibilità che possano permettere politiche economiche espansive, nella speranza che da sole portino anche maggiore coesione sociale.

In ogni caso, il perdurare della crisi pone chiari problemi di sostenibilità sociale delle strategie sinora adottate. Nell’Unione nel suo insieme l’area della povertà e/o dell’esclusione sociale è cresciuta di oltre sette milioni di persone dall’inizio di EU2020 rendendo sostanzialmente impossibile perseguire il target della riduzione di 20 milioni (oltre un terzo di questo incremento è avvenuto in Italia). I numeri da soli dicono dell’urgenza del cambio di passo. Le istituzioni europee saranno all’altezza della sfida che le attende?

* Le opinioni qui espresse sono del tutto personali e non coinvolgono in alcun modo l’amministrazione a cui l’autore appartiene.

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