La lotta alla povertà in Europa: cause, evoluzione, politiche e obiettivi mancati

Chiara Mussida e Dario Sciulli richiamano l’attenzione su due fenomeni che hanno inciso sulla povertà in Europa nel periodo pre-pandemico: i) l’eredità della Grande Recessione che ha aggravato, e reso più persistente, la povertà aumentando la polarizzazione e impedendo di centrare gli obiettivi della Strategia Europa 2020; ii) l’aggravarsi del rischio di povertà delle famiglie con redditi medi alla nascita di un figlio. In entrambi i casi occorre intervenire, in particolare con politiche della famiglia.

Il tema della povertà è di grande attualità, non solo per le ripercussioni della pandemia, ma soprattutto perché l’uscita dalla Grande Recessione è stata caratterizzata da tassi di povertà elevati e persistenti in molti paesi europei, tra cui l’Italia, nonostante l’impegno delle autorità europee e delle istituzioni nazionali di contrastare il fenomeno. Analizzare il problema da una prospettiva europea presenta alcuni vantaggi, tra cui l’opportunità di inquadrare il ruolo delle politiche pubbliche e la possibilità di collocare il caso italiano in un contesto più ampio. Di seguito riflettiamo su questo tema prendendo spunti da due nostri recenti studi.

La Strategia Europa 2020 promossa dalla Commissione Europea nel 2010 si era posta l’obiettivo di far uscire dal rischio di povertà o esclusione sociale almeno 20 milioni di individui in Europa. Nonostante alcuni miglioramenti, il numero di poveri alla fine del decennio pre-pandemico è rimasto elevato (passando dai 116.5 milioni del 2010 ai 107.5 milioni del 2019 secondo i dati Eurostat) ed in alcuni paesi (tra cui, i paesi del mediterraneo, la Svezia, i Paesi Bassi) il tasso di povertà è addirittura aumentato. A questo proposito, ci ricorda Stephen Jenkins, i postumi della Grande Recessione e delle politiche di austerità, così come la deregolamentazione del mercato del lavoro hanno svolto un ruolo importante nel frenare la riuscita degli obiettivi della Strategia 2020. Considerata l’importanza e la persistenza di elevati livelli di povertà, la sua riduzione è stata ripresa negli obiettivi dell’Agenda ONU 2030. Proprio il primo obiettivo, tra i 17 proposti, si pone di ‘porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo’.

I nostri due studi analizzano da una prospettiva micro aspetti della povertà, che seppur diversi tra loro, conducono ad alcune riflessioni comuni. Nel nostro primo studio, in corso di pubblicazione su Journal of Economic Inequality, analizziamo come siano cambiati tra periodo pre e post Grande Recessione i meccanismi che determinano il rischio di povertà, con particolare riguardo al ruolo della dipendenza dal precedente stato di povertà. Nel secondo studio ci concentriamo sui possibili eventi scatenanti la condizione di povertà con particolare attenzione all’effetto della nascita di un figlio. In entrambi i casi, sottolineiamo il ruolo delle politiche pubbliche come possibile fattore di contrasto della povertà, evidenziando l’importanza della spesa pubblica per le famiglie.

Nel primo studio, abbiamo analizzato l’evoluzione delle cause del rischio di povertà in Europa confrontando il periodo precedente la Grande Recessione (2005-2008) con un periodo successivo (2015-2018). Uno dei risultati più rilevanti suggerisce che nel periodo post-crisi è aumentata la dipendenza di stato, che individua quanto la probabilità di essere poveri nell’anno corrente dipenda dall’essere stati poveri nell’anno precedente. Questa componente incorpora una serie di ‘meccanismi-trappola’ associati alla povertà, tra cui la perdita di motivazione, il deprezzamento del capitale umano, oppure il possibile ruolo disincentivante indotto dalla ricezione dei trasferimenti sociali. Individuare correttamente l’entità della dipendenza di stato è importante, quindi, per identificare il ruolo di una fonte rilevante di persistenza nella condizione di povertà.

D’altra parte, l’aumento della dipendenza di stato suggerisce che l’uscita dalla Grande Recessione sia stata accompagnata da un irrobustimento dei meccanismi-trappola citati sopra e abbia, in definitiva, determinato una maggiore difficoltà delle persone povere di affrancarsi dalla situazione di svantaggio.

Da un lato, le evidenze trovate confermano il ruolo di politiche implementate per assistere i poveri aiutando individui e rispettive famiglie a superare la soglia di povertà, tra le quali trasferimenti monetari, che devono trovare rinnovata importanza proprio nell’attuale contesto, considerando il loro potenziale effetto di riduzione della persistenza della povertà.

Dall’altro, i risultati enfatizzano che malgrado le intenzioni della Strategia Europa 2020, i programmi anti povertà implementati non sono stati in grado di combattere il circolo vizioso mediante il quale la povertà si autoalimenta, dimostrato anche dal crescente effetto scarring, per cui la persistenza nella povertà determina una condizione di marginalizzazione di lungo periodo. Tale vortice negativo può essere determinato da vari fattori, quali scarse misure di supporto alla povertà, difficoltà di reinserimento nell’occupazione soprattutto a causa del deprezzamento del capitale umano e conseguente disoccupazione di lunga durata, nonché la diffusione di lavori scarsamente retribuiti.

Lo studio, inoltre, mette in luce come nel periodo successivo alla Grande Recessione sia aumentato il ruolo ‘protettivo’ del lavoro stabile, e contestualmente si sia ridimensionato il ruolo anti povertà giocato dall’istruzione terziaria, in linea con una tendenza di medio-lungo periodo piuttosto marcata. Questi due risultati rimandano all’importanza di intervenire sulla condizione dei giovani i quali, in modo sempre più evidente, risultano stretti tra la difficoltà di assicurarsi il ruolo protettivo di un’occupazione stabile e il declino

dell’investimento in istruzione quale fattore in grado di assicurare redditi sempre soddisfacenti.

Un altro aspetto importante è che l’evoluzione della dipendenza nella condizione di povertà risulta eterogenea tra i Paesi europei. Il contesto macroeconomico e le caratteristiche istituzionali di ogni paese sembrano avere svolto un ruolo rilevante nel determinare sia la condizione di povertà, che la probabilità di uscire da tale stato. Nell’approfondire questa eterogeneità, emergono delle correlazioni abbastanza chiare tra l’andamento della dipendenza di stato e l’andamento di alcune variabili di contesto/macroeconomiche. Nel decennio analizzato, l’aumento della dipendenza di stato è stato associato all’aumento del PIL, a testimonianza del fatto che la crescita economica post Grande Recessione si è ripartita in modo piuttosto diseguale all’interno dei singoli paesi europei. Allo stesso tempo, l’aumento della dipendenza di stato mostra un’associazione moderata ma positiva con l’aumento della diffusione del lavoro temporaneo, confermando il ruolo importante giocato dal mercato del lavoro per la condizione di povertà. Infine, l’aumento della spesa per trasferimenti sociali ha determinato una riduzione della dipendenza di stato. In questo ambito, tuttavia, le varie funzioni di prestazione sociale non giocano un ruolo omogeneo. L’aumento di buona parte di queste funzioni (disabilità, malattia, disoccupazione, esclusione sociale) è correlato debolmente con la riduzione della dipendenza di stato. Al contrario, l’aumento della spesa sociale per famiglie e figli si associa nettamente con la riduzione della dipendenza di stato.

Quest’ultimo risultato si ricollega a quelli emersi dal nostro secondo studio sulla povertà in Europa, che si focalizza sulla relazione che intercorre tra rischio di povertà e la nascita di un figlio. La letteratura ha evidenziato alcuni “comportamenti” caratteristici della povertà. Essa tende a colpire con maggiore probabilità alcuni sottogruppi della popolazione, quali giovani, famiglie monogenitore e famiglie monoreddito con figli, e tende ad insorgere in ragione di eventi specifici della vita di individui e famiglie, come la perdita del lavoro, l’ottenere impieghi a bassa retribuzione, o l’uscita dal nucleo familiare di origine. Abbastanza sorprendentemente, la letteratura ha prestato poca attenzione a come la nascita di un figlio si leghi alla condizione di povertà e alla sua insorgenza, nonostante investigare questa relazione possa aiutare a comprendere meglio anche le dinamiche legate ai tassi di fertilità declinanti che caratterizzano il vecchio continente.

Dallo studio emergono alcune considerazioni interessanti. In primo luogo, la condizione di povertà pregressa influenza le scelte di fertilità; in particolare, la nascita di un figlio sembra essere più probabile nelle famiglie con basso reddito, un risultato in linea con il moderno approccio alla fertilità proposto da Becker, e in contrapposizione con le ipotesi di Malthus e le condizioni tipiche delle società dell’Ottocento, per cui esisteva un nesso positivo tra reddito e fertilità.

I risultati mostrano inoltre come la nascita di un figlio comporti un aumento moderato ma significativo del rischio di povertà. Questo risultato suggerisce che, in media, i trasferimenti pubblici legati alla nascita di un figlio non sono in grado di compensare la perdita di reddito equivalente e gli effetti (ancor più) negativi sulle risorse familiari dovuti all’eventuale riduzione dell’offerta di lavoro delle madri.

Approfondendo questo legame, tuttavia, emerge come l’effetto menzionato, in realtà, si componga di due effetti contrapposti, in ragione della condizione di povertà pregressa. Per gli individui precedentemente non poveri, la nascita di un figlio determina un aumento della probabilità di essere poveri, mentre per gli individui precedentemente poveri la nascita di un figlio determina una riduzione della probabilità di essere poveri. In altri termini, la nascita di un figlio induce effetti redistributivi. L’origine di tali effetti può essere riconnesso al disegno delle politiche di sostegno alle famiglie.

Abbiamo quindi condotto un’analisi di robustezza che cerca di identificare l’entità dell’effetto redistributivo condizionatamente al livello di spesa per le politiche per la famiglia. Nello specifico, i Paesi analizzati vengono suddivisi in due categorie, in ragione del fatto che la spesa per politiche familiari sia al di sotto o al di sopra della mediana della distribuzione della spesa stessa. I risultati mostrano che per gli individui precedentemente non poveri, la nascita di un figlio aumenta la probabilità di essere poveri, qualsiasi sia il livello di spesa per le famiglie. Al contrario, per gli individui precedentemente poveri la nascita di un figlio riduce la probabilità di essere correntemente poveri solo nei paesi in cui il livello di spesa per le famiglie è sufficientemente elevato. Questo risultato sottolinea l’importanza delle politiche per la famiglia e suggerisce che, per sortire effetti positivi, i trasferimenti pubblici debbano essere sufficientemente elevati ed essere indirizzati ad una platea sufficientemente ampia di famiglie. In questo senso, per l’Italia, la recente riforma degli assegni per i figli a carico, garantendo l’universalità della prestazione, riconosce l’importanza di estendere la platea, ma rimane da capire quanto sia utile a favorire la fertilità e contrastare gli effetti negativi sui redditi, soprattutto per le fasce medie e medio-basse.

Un’ ulteriore riflessione riguarda la modalità di uscita dalle crisi economiche. L’esperienza della Grande Recessione suggerisce che, malgrado buona parte dei paesi europei abbiano recuperato i livelli di PIL pre-crisi nel giro di pochi anni (i paesi mediterranei e alcuni paesi nel Nord Europa hanno necessitato di periodi più lunghi), la diffusione della povertà e i livelli di disuguaglianza non sono tornati necessariamente al punto di partenza. Piuttosto, le società risultano esserne uscite più polarizzate.

Questa considerazione lascia sul campo una serie di domande anche su come saranno le economie post-pandemia, sebbene l’evento critico non sia paragonabile per modalità e intensità alla Grande Recessione.

Nel 2021 si è verificata in Italia una crescita del PIL pari a ben il 6.5% rispetto al 2020, primo anno di pandemia. La crescita del 2021, come ci informano istituzioni e dati, rappresenta un record storico. Per il 2022 le previsioni sono positive, ed entro il 2022 l’economia italiana potrebbe tornare al livello produttivo pre-crisi. Dati che fanno ben sperare e infondono ottimismo. Ma come siamo usciti, o quasi, dalla pandemia? Per valutare, anche se questo esula dagli obiettivi del presente contributo, occorre considerare altri importanti indicatori e segnali.

Se consideriamo il fenomeno della povertà, che abbiamo analizzato nei due lavori qui sintetizzati, nel primo anno della pandemia i poveri assoluti in Italia sono aumentati di un milione passando da 4,6 milioni nel 2019 a oltre 5,6 nel 2020, nonostante alcuni autori abbiano sottolineato alcuni limiti dell’indicatore di povertà assoluta basato sui consumi per cogliere l’andamento della deprivazione materiale in contesti pandemici. Colpisce inoltre il fatto che, negli anni precedenti al Covid-19, si era ampliata la platea dei working poor, vale a dire degli individui e delle famiglie per cui il lavoro non basta per condurre una vita dignitosa. Le cose non vanno meglio in termini di disuguaglianza (sociale), e da lungo tempo. A fine 2020, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre 2/3 della ricchezza nazionale mentre il 60% più povero appena il 14,3%. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possedeva oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

Dunque, passata la tempesta legata alla pandemia, i cui effetti sulla povertà e sulla distribuzione del reddito (disuguaglianza) saranno da indagare in modo approfondito negli anni a venire, rimangono alcuni problemi strutturali.

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