La leva fiscale come strumento prevalente di politica industriale in Italia

Serenella Caravella e Francesco Crespi muovono dalla considerazione che, allineandosi ad altri paesi europei, l’Italia ha dato nuovamente un ruolo di rilievo alla politica industriale, varando, nel 2017, un piano da 12 mld per il rilancio dell’industria italiana. Gli autori sostengono, però, che il piano è prevalentemente orientato a stimolare gli investimenti e lo sviluppo delle imprese con strumenti fiscali senza prevedere interventi di matrice “sistemica” e che questo sbilanciamento potrebbe limitare i risultati raggiungibili con le risorse messe in campo.

Il ruolo di rilievo che la politica industriale è tornata ad occupare in Italia e in Europa segna una forte discontinuità rispetto agli anni pre-crisi, durante i quali ha avuto luogo una significativa riduzione del peso del settore pubblico come primario attore industriale e come catalizzatore nella generazione e diffusione di nuova conoscenza. Peraltro, a livello europeo, per decenni il settore pubblico ha svolto un ruolo di mera “regolazione” dei mercati di beni innovativi senza partecipare alla “creazione” di nuovi beni e servizi.

Tuttavia, a seguito dei gravi squilibri economici emersi in Europa a partire dagli anni ’90 e inaspriti dalla crisi del 2008, molte importanti iniziative sono state lanciate sia a livello europeo sia in Italia per ripristinare la competitività dell’industria, favorendo l’innovazione e lo sviluppo. In linea con politiche già varate da Germania, Francia e Spagna, in Italia è stato recentemente introdotto un piano programmatico prevalentemente orientato all’uso della leva fiscale che punta a supportare le imprese fino al 2020 sui fronti dell’innovazione, dell’internazionalizzazione, della nuova imprenditorialità e dello sviluppo.

In questa nota vengono sintetizzati i contenuti delle principali misure previste dal piano, anche con l’obiettivo di sottolineare come l’attuale quadro di politica industriale non contempli nuovi interventi di matrice “sistemica”, ma sia prevalentemente orientato all’utilizzo di strumenti fiscali volti a stimolare gli investimenti e lo sviluppo delle imprese. Il piano “Impresa 4.0” è stato immaginato come un intervento di tipo prevalentemente orizzontale rivolto al mondo delle imprese e generalmente svincolato da criteri di “selettività”, sebbene il focus sulle PMI rimanga di grande rilevanza data loro centralità nella struttura economica del Paese. I principali provvedimenti inclusi nel piano sono articolati come segue.

Riduzione aliquota legale IRES e contestuale depotenziamento ACE. A partire dal 2017, l’aliquota IRES (Imposta sul reddito delle società) è stata ridotta di 3.5 punti percentuali, passando dal 27.5% al 24% (Legge di Stabilità 2016). Secondo le stime fornite da ISTAT (Rapporto Annuale, 2016) e IRPET (Le novità della legge di bilancio, 2017) tale azione determinerebbe un taglio lineare del 12,7% dell’imposta in virtù di una riduzione dell’aliquota effettiva mediana di 2.5 p.p. Tale provvedimento interessa tutte le società a debito di imposta – cioè il 63% delle società di capitali – e determina una riduzione di 3 miliardi del gettito su base annua (Tabella 1), alla quale va sottratto l’incremento di gettito (circa 900 milioni l’anno) derivante dal depotenziamento dell’ACE (Aiuto alla Crescita Economica).

 Superammortamento e Iperammortamento. Introdotte dalla Legge di Stabilità 2016, le due misure fanno riferimento alle possibilità di maggiorazione delle quote di ammortamento relative all’acquisto di beni strumentali tangibili e intangibili ai fini della riduzione della base imponibile sul reddito d’impresa. In dettaglio, il Superammortamento fissa la percentuale di maggiorazione del costo di acquisizione al 140% (Ridotto al 130% dalla Legge di Bilancio 2018) mentre l’Iperammortamento prevede un tasso di maggiorazione pari al 250% per tutti beni inerenti alle tecnologie 4.0 (stampanti e scanners 3D, nanotecnologie, sistemi di gestione dei big data, etc.). I costi associati a tali provvedimenti sono stimati in 3,5 miliardi per il triennio 2017-2019 (IRPET, 2017). Da quanto diffuso dall’edizione 2018 del Rapporto ISTAT sulla Competitività dei settori produttivi, il Superammortamento e l’Iperammortamento hanno svolto un ruolo rilevante nella decisione di investire per il 62,1% e il 57,3% degli imprenditori, rispettivamente. In particolare, un giudizio favorevole per dell’Iperammortamento sulle decisioni di investimento è stata espresso da più del 50% del totale delle medie e grandi imprese e da un terzo delle imprese con meno di 50 dipendenti.

Credito d’imposta per attività di R&S e Patent Box. La Legge di Bilancio 2014 potenzia il credito d’imposta per la R&S. Accessibile a tutte le imprese senza vincolo dimensionale, la misura consiste in un credito di imposta (fino al 50%) sulle spese incrementali per le attività di R&S intercorse nel periodo 2017-2020, fino al un tetto di 20 milioni di Euro. Secondo l’ISTAT (2018) tale provvedimento dovrebbe generare un incremento degli investimenti in proprietà intellettuale pari a 0,2 punti percentuali nel biennio 2018-2019 mentre la stima del costo della misura fornita da IRPET (2017) risulta pari 1,4 miliardi di Euro per il triennio 2017-2019. Nel 2015 il provvedimento è risultato essere particolarmente sfruttato per circa il 70% dalle imprese manifatturiere con meno di 50 dipendenti e concentrate nelle regioni nord-occidentali (ISTAT, 2018). Da una preliminare valutazione, (Rapporto sulla competitività dei settori produttivi, 2018, pp. 116-8) non sembra tuttavia emergere un effetto moltiplicativo attribuibile all’incentivo per lo stesso anno di riferimento.

Introdotto dalla legge di Stabilità 2015 e regolamentato dal Decreto Legge 29/2015, il Patent box stabilisce una deduzione fiscale dalla base imponibile dei redditi di impresa pari al 50% (30% e 40% rispettivamente per gli anni fiscali 2015 e 2016) dei proventi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali quali software protetto da copyright, brevetti, marchi, disegni, modelli, processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili.

Tra le misure finalizzate alla concessione di credito agevolato, spiccano il Fondo di Garanzia e la Nuova Legge Sabatini che, secondo i dati ISTAT, sembrano essere state particolarmente rilevanti nelle decisioni di investimento delle imprese di piccole dimensioni.

Il Fondo Nazionale di Garanzia. Operativa fin dal 2000 (Legge n. 662/96), questa misura sostiene l’accesso al credito delle PMI appartenenti ai settori della manifattura, delle costruzioni e dei servizi. Il FG consiste infatti in una garanzia pubblica che copre fino all’80% del valore del prestito bancario per un massimo di 1,5 milioni di Euro. Spesso sostituisce le garanzie reali fornite dalle imprese, consentendo di ottenere finanziamenti senza garanzie aggiuntive. Il FG risulta ad oggi essere stato uno strumento molto utilizzato dalle imprese, specialmente negli anni compresi tra 2008-2014, in cui l’ammontare dei prestiti bancari coperti da garanzia pubblica hanno raggiunto circa i 54 miliardi di Euro. La legge di Stabilità 2017 ha destinato circa 895 milioni al FG, un ammontare che sul triennio 2017-2019 corrisponde allo 7,3% del costo totale dell’intera manovra (Tabella 1).

Nuova Legge Sabatini. Questa misura è stata introdotta dalla Decreto Legge 69/2013 con l’obiettivo di facilitare l’accesso al credito per le PMI italiane attive in tutti i settori produttivi. La legge fornisce un contributo a copertura degli interessi pagati sui prestiti finanziari per investimenti realizzati per l’acquisto di beni strumentali. Il contributo è calcolato su un piano di ammortamento quinquennale ad un tasso pari al 2,57% e incrementato del 30% in caso di acquisti di beni 4.0.

La seguente tabella presenta la stima complessiva dei costi associati ai principali provvedimenti inclusi nel Piano 4.0. Senza considerare le recenti modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2018 in riferimento alla deduzione ACE e al Supermmortamento, il costo complessivo della manovra ammonta a più di 12 miliardi di Euro per il triennio 2017-2019, la maggior parte dei quali destinati a finanziare agevolazioni fiscali per le imprese. Le prime simulazioni ed i dati forniti da ISTAT e IRPET, inoltre, mostrano come l’adozione e gli effetti sortiti da tali misure interessino maggiormente specifiche popolazioni di imprese (ISTAT, 2018). In generale, le facilitazioni fiscali risultano particolarmente rilevanti per imprese di medie e grandi dimensioni, mentre le misure a favore dell’accesso agevolato al credito appaiono maggiormente apprezzate dalle piccole imprese.

Tabella 1. Costi stimati delle principali misure incluse del piano “Impresa 4.0”)

Dall’esame degli interventi, pur osservando una discontinuità rispetto al recente passato in termini di risorse mobilitate, ne emerge un quadro di politica industriale che si allinea ad un approccio tradizionale caratterizzato da una mancanza di interventi radicali, orientati a particolari settori e ambiti tecnologici e capaci di realizzare un vero rilancio tecnologico e industriale del paese.

Guardando alle misure dichiaratamente pensate per stimolare gli investimenti di natura innovativa, è evidente come sia stato scelto un intervento di tipo orizzontale, anziché selettivo e diretto. La formula del credito di imposta alla R&S è stata infatti preferita all’erogazione “controllata” di sussidi alla R&S, due differenti meccanismi di sostegno pubblico all’innovazione largamente discussi in letteratura per i pro e i contro ad essi associati. Da un lato, i crediti di imposta impongono minori costi amministrativi se comparati con i sussidi selettivi e sono, per definizione, neutrali rispetto alle caratteristiche specifiche e settoriali delle imprese in quanto la loro erogazione non è soggetta a procedure di tipo pre-selettivo. Per queste ragioni, l’adozione dei crediti di imposta consente la minimizzazione delle decisioni discrezionali che possono invece interessare le procedure di selezione richieste per l’allocazione di sussidi diretti alla R&S. Tuttavia, molta letteratura sottolinea come le procedure selettive richieste per l’erogazione dei sussidi diretti siano invece decisive per assicurare il successo delle attività innovative, proprio in virtù dei vantaggi ad esse associate. Da un lato, tali procedure riducono la possibilità di includere spese non pertinenti all’interno dei costi dichiarati per le attività di R&S, dall’altro i sussidi diretti dovrebbero avere l’obiettivo di finanziare i progetti maggiormente innovativi. Ne consegue quindi che mentre i crediti di imposta tendono ad incentivare progetti di ricerca a breve termine dai rendimenti privati più elevati, i sussidi diretti, al contrario, concorrono in misura maggiore ad incrementare le probabilità di sviluppare progetti più rischiosi, quindi associati a rendimenti sociali più alti. In quest’ottica, il sostegno diretto alla R&S appare uno strumento particolarmente efficace per colmare il trade-off tra rendimento privato e sociale degli investimenti innovativi.

Più in generale, il prevalere della leva fiscale nell’attuale quadro di policy segnala un mancato apprezzamento di una visione più moderna di politica industriale che enfatizza la crucialità del ruolo imprenditoriale dello Stato nonché la necessità di attuare politiche industriali di carattere sistemico anziché basate su un modello lineare. Il primo punto solleva la necessità di riaffermare il ruolo “proattivo” del settore pubblico come finanziatore e creatore di mercati innovativi piuttosto che di mero regolatore dei fallimenti di mercato (M. Mazzucato, Innovation systems: from fixing market failures to creating markets, in Revista do Serviço Público 2015). Il secondo punto, evidenziato già da molti anni dall’approccio evolutivo sottolinea invece la natura sistemica, dinamica e multidimensionale del processo di innovazione che, in quanto tale, richiede politiche industriali differenziate in grado di favorire il coordinamento tra gli attori pubblici e privati, concorrendo dunque alla produzione nonché allo sviluppo e alla diffusione della conoscenza. In questa prospettiva, una moderna politica industriale richiede l’adozione di politiche in grado di sostenere il cambiamento tecnologico intervenendo non solo sul lato delle imprese private ma su tutte le dimensioni del sistema innovativo. Le funzioni di politica industriale dovrebbero dunque interessare tra gli altri: l’erogazione di risorse aggiuntive per Università e enti di ricerca pubblici; il finanziamento di programmi mission-oriented (sanità, ambiente, energia, agricoltura, ecc….) e di tecnologie ad uso trasversale (general purpose technologies); il finanziamento di programmi di istruzione avanzata; gli acquisti pubblici di beni innovativi (innovative public procurement). Su questi aspetti il ritardo italiano rispetto ai paesi più avanzati è e rimane ampio (L.Nascia et al., RIO – relazione per paese 2017 Italia. Osservatorio sulla Ricerca e l’Innovazione. Serie dei Rapporti Paese. 2018) e nessuna inversione di tendenza nell’indirizzo delle politiche è riscontrabile nei recenti provvedimenti adottati. Basti pensare che poco o nulla è stato fatto per compensare il sistema universitario dei tagli subiti durante la crisi, quando sarebbero sufficienti meno della metà delle risorse stanziate per le misure qui analizzate per colmare il divario tra Italia e Germania in termini di spesa per l’Università in rapporto al PIL.

Il rischio è quindi che in mancanza di provvedimenti complementari in grado di agire a livello di sistema, l’efficacia delle misure esistenti possa risultare inferiore alle attese. Sarebbe quindi auspicabile un rapido riequilibrio tra i diversi strumenti, prima che il rinnovato interesse dei policy maker nella politica industriale non svanisca rapidamente a seguito di risultati poco soddisfacenti.

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