La leggenda delle disuguaglianze crescenti?

FrGRa si occupano di un recente articolo di Luca Ricolfi pubblicato sul Sole 24ore e basato su una ricerca condotta dalla Fondazione Hume, nel quale si sostiene che quella delle disuguaglianze crescenti sarebbe una leggenda. FraGRa concordano con Ricolfi che è impreciso affermare che la disuguaglianza è in crescita ovunque ma ricordano che gli studiosi del fenomeno non commettono questo errore. Inoltre essi esprimono le proprie perplessità su diverse affermazioni di Ricolfi e sul messaggio tranquillizzante rispetto alle disuguaglianze che sembrano trasmettere

Luca Ricolfi, nell’articolo “La leggenda delle disuguaglianze crescenti” pubblicato su Il Sole 24 ore domenica 26 aprile e nel Dossier curato per la Fondazione Hume che sta alla base di tale articolo, giustamente considera le affermazioni secondo cui la disuguaglianza sarebbe cresciuta ovunque frutto di una lettura affrettata, o quanto meno non completa, dei dati di cui disponiamo. Con Ricolfi si può certamente concordare che il giudizio sull’andamento della disuguaglianza può essere diverso a seconda che ci si riferisca alla disuguaglianza nel mondo come un tutto, a quella media tra paesi oppure a quella all’interno dei paesi e, in quest’ultimo caso, il giudizio dipenderà anche dai paesi presi in considerazione. E che conta il periodo di riferimento. Si può aggiungere che le misure di disuguaglianza, anche quelle applicate al reddito e alla ricchezza, sono sostanzialmente relative – e ciò implica che una diminuzione della disuguaglianza è perfettamente compatibile con un peggioramento complessivo nello standard di vita, incluso quello di chi sta peggio – e che i dati stessi, come risulterà meglio da qualche esempio che faremo tra breve, sono largamente carenti.

Ammettere tutto ciò non equivale, però, a trovare convincente tutto quello che Ricolfi scrive nel suo articolo. Anzitutto, se nella discussione pubblica si parla spesso e un po’ genericamente di disuguaglianze sempre e ovunque in crescita, questo non avviene nella letteratura scientifica che, invece, è da sempre concorde nel segnalare l’eterogeneità dell’andamento della disuguaglianza rispetto ai singoli contesti spaziali e ai singoli intervalli temporali. E aggiungiamo subito che, dall’andamento delle disuguaglianze in sé e anche dalla loro altezza, non è possibile derivare alcun giudizio di valore. Contano, al contrario, i meccanismi attraverso cui le disuguaglianze vengono create nonché le loro conseguenze.

Ma un conto è riconoscere questa eterogeneità e un altro conto è concludere, come fa Ricolfi, che i dati sarebbero ben lungi dall’attestare, in questi ultimi decenni, una tendenza generalizzata (pur con tutti i caveat sopra rilevati) alla crescita delle disuguaglianze. Più precisamente, secondo Ricolfi, la disuguaglianza fra paesi, la cosiddetta disuguaglianza internazionale, in crescita fino all’ultimo decennio dello scorso secolo, sarebbe da allora in diminuzione. Lo stesso varrebbe per la disuguaglianza globale (la disuguaglianza fra i cittadini del mondo), sebbene la diminuzione sarebbe iniziata dopo, ossia all’inizio di questo secolo. Per le disuguaglianze interne ai singoli paesi, citando Ricolfi “tutto si può dire, tranne che esistano tendenze generali!”.

Innanzitutto, la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per asserire la tendenza alla diminuzione delle disuguaglianze è l’indice di Gini che si caratterizza per essere una misura sintetica che non consente di conoscere cosa capita nei diversi segmenti della distribuzione dei redditi o della ricchezza. Infatti, lo stesso valore del Gini è compatibile con distribuzioni molto diverse. Inoltre, quell’indice esalta le disuguaglianze che si verificano nella parte centrale della distribuzione, a danno di quelle relative agli estremi. Se, come ci dicono molti dati, le disuguaglianze hanno, in questi decenni, investito la parte alta o la parte bassa, l’indice di Gini sottovaluterebbe la disuguaglianza esistente. Ad esempio, utilizzando il rapporto P90/P10 e i dati Ocse emergerebbero incrementi della disuguaglianza non rilevati dall’indice di Gini.

Inoltre è noto che, come abbiamo sottolineato in altri nostri interventi sul Menabò, uno dei cambiamenti più importanti degli ultimi decenni riguarda non soltanto la tendenza a crescere, in molti paesi, della quota di reddito concentrata nei segmenti più ricchi della popolazione ma anche la natura dei redditi compresi nelle top incomes shares: il peso dei super-redditi da lavoro è infatti fortemente aumentato. Ad esempio, negli Stati Uniti dagli anni ’70 a oggi, la quota del reddito del top 0,1% che proviene da attività lavorative, è cresciuta fino a 20 punti percentuali e attualmente è pari a circa il 45% e in Italia, dal 1980 in poi, la quota di reddito da lavoro (autonomo e dipendente) dell’1% più ricco della popolazione è passata dal 46,4% al 70,9% con la parallela riduzione di quella del reddito da capitale o delle rendite. Una maggiore attenzione a queste tendenze servirebbe forse a formulare un giudizio più equilibrato sulla dinamica della disuguaglianza.

Peraltro, l’indice di disuguaglianza potrebbe non variare in presenza di opposti movimenti nella distribuzione, anche molto marcati. Una situazione con queste caratteristiche si è verificata in Italia negli ultimi 20 anni: al miglioramento di alcune categorie (dirigenti, pensionati, lavoratori autonomi) si è contrapposto il peggioramento di altre (operai e impiegati). Insomma, sotto l’apparente quiete potrebbero nascondersi forti e rilevanti sommovimenti; a piccoli o nulli cambiamenti nell’indice di disuguaglianza potrebbero corrispondere grandi cambiamenti nel contesto sociale e nel disagio che lo caratterizza.

E, sempre per restare all’Italia, è naturalmente vero che i differenziali di reddito medio tra Nord e Sud concorrono alla formazione delle disuguaglianze complessive. Ma sarebbe un errore – che il titolo dell’articolo del Sole 24 ore potrebbe aiutare a commettere – credere che azzerando quei differenziali la disuguaglianza si annullerebbe o almeno si ridurrebbe in modo drastico. Alcune nostre analisi mostrano che anche se riuscissimo a eguagliare i redditi medi dei cittadini residenti nelle diverse regioni italiane, lasciando immutate le differenze interne a ciascuna di esse, la diseguaglianza complessiva si ridurrebbe solo del 7%.

E’ inoltre presumibile che la disuguaglianza, così come solitamente misurata, sia sottostimata a causa della difficoltà di tenere conto di una serie di fattori “aggravanti”. I dati campionari utilizzati per calcolare la disuguaglianza non registrano con precisione ciò che accade nelle code estreme della distribuzione, dal momento che i più poveri (in primis gli immigrati) e i più ricchi difficilmente sono oggetto di rilevazione. Alcune tendenze generalizzate in gran parte dei paesi del globo possono avere reso più grave questa carenza: la prima riguarda il corposo aumento dell’immigrazione che ha avuto l’effetto di concentrare nella coda bassa della distribuzione individui che, per varie ragioni, tendono a non essere correttamente rappresentati nelle indagini campionarie; la seconda è la crescente concentrazione dei redditi più elevati nelle mani di pochissimi super-ricchi e anche questo fenomeno tende a sfuggire quasi del tutto alle rilevazioni campionarie. Di conseguenza, se, come sembra, le modifiche hanno riguardato, in modo particolare, i segmenti estremi della popolazione, la disuguaglianza sarebbe sottostimata a causa dell’incapacità dei dati di cogliere questi cambiamenti decisivi.

Il problema dell’affidabilità dei dati si pone anche rispetto alla disuguaglianza tra paesi e a quella riferita al mondo come un tutto, alla quale Ricolfi dà particolare importanza. Uno dei massimi esperti del campo, Branko MiIlanovic della Banca Mondiale, in un recente lavoro con Lakner riconosce che nel 2008 l’indice di Gini della disuguaglianza globale sembrava sceso di circa due punti rispetto al ventennio precedente, arrivando a 70,5. Ma, come detto, tale dato sotto-stimerebbe fortemente il peso dei super-ricchi. Con dati più appropriati, l’indice di Gini salirebbe a quasi il 76%, non mostrando alcuna tendenza alla riduzione. Peraltro, come si è detto, i problemi di under-reporting concernono entrambe le code della distribuzione, dunque, anche i più poveri.

Inoltre, come osserva Ricolfi, è indiscutibile che la scelta dell’intervallo temporale influisca sulla valutazione delle tendenze della disuguaglianza. Al riguardo egli critica Atkinson che nel suo recentissimo libro (Inequality: What Can Be Done, Harvard University Press, 2015), avrebbe dato prova di cherrypicking scegliendo di confrontare la disuguaglianza attuale con quella presente all’inizio degli anni ‘80, quando essa era a un punto di minimo. In realtà questo non è vero per tutti i paesi, ma a noi non pare un scelta di comodo quella che consiste nel fare riferimento ai punti di svolta per cogliere le tendenze. In fondo essa serve a sottolineare proprio che le tendenze di lungo periodo hanno interruzioni e inversioni. D’altro canto, prendere a riferimento l’intervallo 1960-1972, come suggerisce Ricolfi, cioè un periodo di alte disuguaglianza non sarebbe anch’esso un atto di cherrypicking? Atkinson da studioso molto serio qual è informa adeguatamente sulle oscillazioni di lungo periodo della disuguaglianza e così fanno anche altri studiosi preoccupati della disuguaglianza, a iniziare da Piketty. Concentrarsi su quello che è accaduto dall’inversione del ciclo ci pare più che legittimo. Non è forse così che si fa quando si studiano i cicli economici?

Al di là di questi rilievi specifici che a nostro parere hanno, comunque, la loro importanza e possono consigliare una maggiore cautela nel considerare una leggenda la tendenza delle disuguaglianze a crescere, il nostro disaccordo con l’articolo di Ricolfi riguarda il messaggio, un pò troppo semplificato, che esso sembra trasmettere: le disuguaglianze crescenti sono una leggenda, il mondo è meno diseguale e quindi si può continuare così.

L’argomento che potrebbe risultare più convincente di Ricolfi, al di là della solidità dei dati su cui si basa, è forse quello della disuguaglianza globale in calo. Anche se si ammettesse che è così sorgerebbero almeno due domande. La prima: un indice di Gini dell’ordine del 70% per il mondo intero (quello che avremmo dopo la riduzione) non è comunque un’enormità? Secondo le stime della Banca Mondiale in Sud Africa nel 2011 quell’indice era più basso: 65%. Forse, se esistesse un governo mondiale, qualche misura più incisiva per ridurre le disuguaglianze dovrebbe prenderla. Ma il governo mondiale non c’è e allora veniamo alla seconda domanda: se la disuguaglianza globale diminuisce perché la crescita di Cina, India e altri paesi in via di sviluppo ha spinto verso l’alto il reddito di alcuni dei più poveri del mondo, i governi dei paesi avanzati, soprattutto quelli dove la disuguaglianza è alta e forse anche crescente, non devono fare nulla per ridurre la loro disuguaglianza (e con essa, sperabilmente, anche la disuguaglianza globale)? A noi sembra davvero troppo poco contare sulla globalizzazione – se di questo si tratta – che aiuta alcuni dei più poveri del mondo a fare progressi come strategia per ridurre le disuguaglianze. Occorre altro, al di là delle leggende vere o presunte, per fare in modo, possibilmente piuttosto velocemente, che il mondo come un tutto assomigli sempre meno a un gigantesco Sud Africa.

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