La legge sulle unioni civili in Italia: il dibattito politico tra mito e realtà

Marta Capesciotti analizza la legge sulle unioni civili recentemente approvata alla Camera, alla luce del riconoscimento delle rivendicazioni delle soggettività LGBT nel contesto europeo. Capesciotti illustra i contenuti della legge e i diritti che da essa discendono, si interroga sulla pertinenza di due temi strumentalmente inseriti nel dibattito politico, ovvero la gestazione per altri e le adozioni per le coppie omosessuali, e, infine, analizza le step-child adoptions, espunte dal testo definitivo, quale lacuna della nuova normativa.

Il dibattito politico che ha condotto all’introduzione della legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso, approvata in via definitiva alla Camera pochi giorni fa , appare ampiamente sintomatico delle difficoltà e, soprattutto, delle ambiguità del risultato ottenuto..

Questo traguardo, che ha molto diviso l’opinione pubblica e la rappresentanza politica, dovrebbe permettere ora all’Italia di mettersi al passo di molti altri Stati membri dell’Unione Europea che da tempo hanno provveduto a disciplinare questo tipo di unioni con leggi statali.

A riprova di questo, è sufficiente dare uno sguardo ai dati relativi agli altri Paesi UE. L’Italia era, fino alla settimana scorsa, uno dei nove Paesi dell’Unione ancora del tutto privi di una disciplina delle unioni tra persone dello stesso sesso, insieme a Bulgaria, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Repubblica Slovacca. Altri Stati membri, al contrario, hanno previsto da tempo una specifica disciplina introducendo una fattispecie aggiuntiva di matrimonio (Svezia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Irlanda, Regno Unito, Lussemburgo, Portogallo, Spagna) o di unione civile (Estonia, Germania, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria, Croazia, Grecia, Cipro) o di unione civile con limitazioni (Slovenia).

Questo dato non dovrebbe stupire, considerata la pressoché totale assenza in Italia di una cultura politica che riconosca alle rivendicazioni di diritti espressi dalle soggettività LGBTI (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender e Intersessuali) un ruolo di rilevanza nell’agenda politica e culturale.

Il network non governativo ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), nella sua sezione europea, compila annualmente un indice che misura il grado di apertura politica, giuridica e culturale nei confronti di tale tema, tenendo conto di vari indicatori relativi alla qualità della vita dei soggetti LGBTI nei differenti Paesi. Nel 2015, l’Italia si è posizionata nel quartile di coda della classifica (22%), registrando una performance particolarmente negativa secondo il rapporto ILGA-Europe associato a tale indice, non solo per quanto concerne gli strumenti legislativi e di welfare a disposizione delle soggettività LGBTI, ma anche per quanto riguarda i livelli di omo-bi-transfobia registrati.

Alla luce di tale contesto, e dopo che nel corso di numerose legislature si sono susseguiti vari tentativi di introdurre strumenti parziali di riconoscimento di tali unioni – si pensi agli sfortunati e inconcludenti DICO (Diritti e Doveri delle Persone Stabilmente Conviventi) e PACS (Patto Civile di Solidarietà) – il 25 febbraio 2016 il Senato della Repubblica ha approvato in prima lettura – con 173 voti favorevoli e 71 contrari – il disegno di legge in materia di “Disciplina delle unioni di fatto e delle unioni civili”, meglio noto come “d.d.l. Cirinnà” dal nome della Senatrice relatrice Monica Cirinnà (Partito Democratico), ora divenuto legge

Nella confusione del dibattito politico che ha accompagnato la discussione della proposta e l’approvazione della legge, sembra quanto mai opportuno descriverne sinteticamente i contenuti, tralasciando la disciplina delle convivenze e focalizzando l’attenzione esclusivamente sulla regolazione delle unioni civili.

La legge, come già il c.d. “d.d.l. Cirinnà”, in un articolato composto da un unico articolo suddiviso in 69 commi, definisce tali unioni come “specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” – ovvero le disposizioni costituzionali che tutelano, rispettivamente, la dignità della persona e il principio di uguaglianza nella sua accezione formale e sostanziale – che può essere costituita tramite “dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”.

I motivi ostativi alla contrazione di tali unioni sono, come previsto anche per il matrimonio tra persone di sesso diverso, la sussistenza per una delle due parti di altro vincolo di matrimonio o di unione civile, l’interdizione per una delle due parti per infermità mentale, la sussistenza tra le parti di un legame di parentela (secondo quanto previsto dall’art. 87 del Codice civile), nonché la condanna definitiva di uno dei contraenti per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte. I due contraenti, la cui unione viene certificata dal rilascio di un documento attestante la costituzione dell’unione, possono scegliere di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi e, una volta stabilita l’unione, questa si espleta nel rispetto del principio di parità tra i contraenti. Questi ultimi assumono l’obbligo reciproco di assistenza morale e materiale e di coabitazione e si impegnano, ciascuno sulla base delle proprie possibilità, a contribuire ai bisogni comuni.

L’unione civile può essere dissolta, tra le altre fattispecie, in caso di violenza perpetrata da una delle due parti nei confronti dell’altra persona, dei suoi beni e dei suoi ascendenti o discendenti, nonché quando ne faccia richiesta una o entrambe le parti dell’unione di fronte all’ufficiale di stato civile. Dalla contrazione dell’unione civile discendono, nel caso di decesso di uno dei contraenti, la possibilità della reversibilità della pensione, la possibilità di accedere all’eredità, il subentro nei contratti di affitto; l’accesso congiunto alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica; al godimento degli alimenti in caso di scioglimento dell’unione; il diritto di prendere decisioni in materia sanitaria nel momento in cui l’altro membro dell’unione non sia in grado di scegliere autonomamente; nonché il dovere di assistenza reciproca, materiale e morale. Interessante è anche la disciplina proposta in relazione ai casi di rettifica di riattribuzione del sesso: questa procedura (regolata dalla legge 14 aprile 1982, n. 164) comporta la dissoluzione dell’unione civile, permettendo alle parti di contrarre regolare matrimonio; allo stesso tempo, nel caso uno dei due coniugi decida di intraprendere il percorso di riassegnazione del genere di appartenenza, possono decidere, a fronte della dissoluzione forzata del matrimonio, di contrarre un’unione civile.

Si ricorda che il disegno di legge approvato è il frutto di un maxi-emendamento richiesto dal Governo alla luce dell’alto rischio di rallentamento dell’iter legislativo a seguito dei numerosi emendamenti proposti al d.d.l. originario, nonché a causa del livello crescente di tensione che ha accompagnato il dibattito parlamentare su tale materia.

Tale compromesso politico ha comportato, tra le altre cose, l’espunzione dal testo della disciplina delle c.d. step-child adoption, ovvero la possibilità per uno dei due partner dell’unione civile di adottare il minore figlio dell’altro componente l’unione, secondo quanto previsto dall’art. 14 del disegno di legge originario. La disciplina delle step-child adoption è già da tempo prevista in altri Stati membri della UE (Finlandia, Estonia, Germania, Croazia e Slovenia) oltre a quelli che prevedono anche la possibilità da parte della coppia same-sex di accedere alle procedure di adozione di minori non biologicamente legati ad alcuno dei due partner (Svezia, Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Spagna, Malta) ed è prevista in Italia dalla legge n. 184/1983, relativa al diritto del minore ad avere una famiglia, per le coppie eterosessuali. Quello che si chiedeva, in sostanza, era l’estensione di tale possibilità alle coppie composte da persone dello stesso sesso vincolate da un’unione civile.

Quello che invece il disegno di legge non comprendeva, neanche nella sua versione originaria, era la possibilità per le persone dello stesso sesso vincolate da un’unione civile di accedere alle procedure di adozione né tanto meno di usufruire della procedura di “maternità surrogata” o “gestazione per altri”, ovvero una forma particolare di fecondazione assistita tramite la quale una donna porta avanti una gravidanza per un’altra donna la quale, per diversi motivi, non può farlo a sua volta, o per una coppia di persone dello stesso sesso (per maggiori informazioni si veda qui). Tale possibilità, già vietata dalla legge n. 40/2004 anche per le coppie eterosessuali, non è stata in alcun momento contemplata nella proposta di innovazione legislativa relativa alle unioni civili. E tuttavia, è stata oggetto di notevole interesse, evidentemente strumentale, assieme alla questione anch’essa infondata delle adozioni, nel dibattito politico in materia di unioni civili.

D’altronde la “Piazza del Family Day” del 30 gennaio, ha rappresentato uno dei punti più bassi del dibattito politico italiano degli ultimi anni, poiché ha introdotto volontariamente e strumentalmente, molti elementi di confusione e di evidente disinformazione sulle diverse questioni, al fine di impedire una piena e reale comprensione della portata del disegno di legge. Si è parlato di difesa della famiglia, di tutela dei minori, di ordine naturale e di valori culturali inalterabili. La legge Cirinnà in realtà, e per stessa ammissione di parte del movimento LGBT italiano (a titolo esemplificativo, si veda questo documento) è un compromesso al ribasso, solo un primo passo verso un pieno riconoscimento di soggettività relegate costantemente al margine dell’agenda politica, in altri termini verso una misura di civiltà “minima” e indispensabile, in un momento in cui la tutela dei diritti e della dignità della persona sembra sempre più lasciare il passo ad una società in balia della paura dell’altro e della diversità.

 

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