“La legge fondamentale dell’umanità è l’interdipendenza”. Implicazioni per i sistemi sanitari ai tempi del Covid-19

Elisabetta Magnani, dopo aver ricordato quanto siano rilevanti, sotto molteplici aspetti, le disuguaglianze di salute nel determinare gli effetti della pandemia da COVID-19, si sofferma sui rischi che pongono al mondo intero i sistemi sanitari dei paesi poveri, che possono essere visti come l’anello debole di una catena globale. Da ciò Magnani deduce, in accordo con alcuni appelli internazionali, l’urgenza di una politica di aiuti che permetta di intervenire a sostegno dei sistemi sanitari dei paesi più poveri.

Qualche tempo fa Desmond Tutu, l’arcivescovo anglicano che negli anni ’80 lottò contro l’apartheid in Sud Africa, ebbe a dire che la “legge fondamentale dell’umanità è l’interdipendenza”. Forse mai come adesso, questa legge – che vale anche, ad esempio, per la crisi climatica – dispiega le sue implicazioni e ci suggerisce possibili soluzioni alle sfide che dovremo affrontare nel prossimo futuro.

La crisi che la pandemia del coronavirus ha attivato avrà ripercussioni per decenni a venire, per almeno un paio di ragioni importanti. In primo luogo, l’umanità si deve preparare alla possibilità sempre più reale di una pandemia endemica, un termine che designa la persistenza di una malattia, soprattutto, ma non soltanto, in regioni già devastate da altre malattie altamente infettive come la malaria o l’Aids; in secondo luogo, le conseguenze economiche presenti imporranno scelte di politica economica che hanno ripercussioni di lungo termine sulla direzione che vogliamo imporre ai nostri sistemi economici. Tali scelte sono necessariamente politiche prima ancora che economiche, perché coinvolgono la nostra capacità collettiva di immaginare un futuro possibile, che, se saremo saggi, potrà essere migliore del nostro triste presente. E tra le politiche certamente rilevanti ci sono quelle sanitarie sulle quali mi soffermerò in queste note, adottando un punto di vista globale perché è a livello globale che la pandemia ci impone di ragionare, coerentemente con il riconoscimento di quell’interdipendenza dei nostri destini collettivi che Tutu ha eletto a legge fondamentale dell’umanità.

La pandemia del COVID-19 ha messo tristemente in risalto, nonostante i richiami ossessivi in molti casi alla gestione efficiente delle risorse, l’incapacità, di diversa gravità, dei sistemi sanitari – locali, regionali, nazionali e globali – di fare fronte ad uno tsunami di infettati che richiedono accesso a cure intensive.  In realtà nel tardo capitalismo in cui viviamo e in cui l’atteggiamento prevalente è quello della tolleranza delle disuguaglianze, anche le più estreme, l’allocazione delle risorse, anche pubbliche, sempre più ha avuto luogo prestando la minima attenzione agli effetti che ne derivano per i più deboli. Nei paesi più avanzati sono state ridotte, talvolta in maniera drammatica, le risorse rivolte ai nostri servizi pubblici ed in particolare alla scuola e alla sanità. Peraltro, nei paesi più poveri il livello di questi servizi, anche in assenza di appropriati aiuti, è drammaticamente basso e espone a rischi enormi la popolazione, soprattutto in casi come quelli dell’emergenza in atto.

Il risultato sono statistiche allarmanti come quelle sulla disuguaglianza di salute resa nota dalla Organizzazione Mondiale per la Sanità. I fatti sono chiari. I sistemi sanitari non proteggono i più deboli: il divario di aspettativa di vita a livello globale è di 34 anni, come dire che i più “fortunati” vivono due vite. Le ineguaglianze non sono solo tra paesi ma anche, tristemente, al loro interno.  Per esempio, negli Stati Uniti gli Afro-Americani sono solo il 13% della popolazione, ma costituiscono quasi il 50% degli infettati dal virus HiV. Inoltre, ed è ciò che più rileva ai nostri fini, la stragrande maggioranza delle persone che la pandemia del COVID19 ci impone di definire “vulnerabili” è concentrata nei ceti sociali più poveri con precise connotazioni etniche e razziali. E i primi dati sui contagi da Covid-19 sembrano confermarlo: ad esempio quelli sugli Afro-Americani contagiati in alcuni stati degli USA.

Inoltre, nelle aree più povere del mondo, quasi un miliardo di persone, circa un quarto della popolazione urbana mondiale, vive in ghetti molto densamente popolati, senza acqua, elettricità e in condizioni igieniche disastrose. Circostanze disumane che, peraltro, favoriscono anche la diffusione della pandemia.

Sulla sostenibilità dei nostri sforzi di contenimento della pandemia è stato scritto molto ma un aspetto che merita qualche osservazione alla luce della interdipendenza che condiziona le  sorti dell’umanità è lo stato globale dei sistemi sanitari nazionali. Combinando cinque aspetti di un sistema di assistenza sanitaria (pubblica e privata) a livello nazionale che sono cruciali per la capacità di rispondere ad emergenze come quelle pandemiche, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato nel 2000 il “World Health Report – Health Systems: Improving Performance” con lo scopo di fornire una valutazione oggettiva e comparativa della qualità dei Sistemi sanitari nazionale in 191 paesi. Questa valutazione si basa su cinque indicatori: il livello medio di salute pubblica, la sua distribuzione all’interno di confini nazionali, la capacità di reazione media del Sistema sanitario (e le sue implicazioni di equità) in presenza di fattori che hanno direttamente o indirettamente un impatto sulla salute pubblica, e la capacità di finanziare spese per la salute per I meno abbienti.  Il risultato è visualizzato nel grafico sotto e mostra le profonde differenze esistenti tra i sistemi a livello globale: ai paesi in blu, che sono quelli che raggiungono ottimi risultati, si affiancano quelli in giallo e rosso, dove sono presenti lacune di varia natura e gravità.

 

Se sovrapponiamo questa mappa a quella sulla diffusione della pandemia da Covid-19 al 27 Marzo, come nel grafico sotto, emergono alcune immediate osservazioni. In primo luogo, le infezioni sono concentrate in paesi con sistemi sanitari di qualità relativamente alta. In secondo luogo, è chiaro il trend verso una diffusione della pandemia in paesi dove quella qualità è, invece, carente. Il terzo punto riguarda proprio la preoccupazione su cosa potrà accadere quando il virus si diffonderà in paesi con pochi mezzi per gestire la crisi pandemica.

Il timore per la gravità della situazione e i connessi enormi pericoli ha spinto 20 esperti, tra cui diversi premi Nobel per l’economia, a rivolgersi, poche settimane fa, al G20 per chiedere aiuti ed interventi immediati a favore dei sistemi sanitari di quei paesi.

Di quella lettera merita di essere ricordata almeno la frase finale: “Vi esortiamo ora, leader del G20, a fornire urgentemente le risorse necessarie per ridurre le perdite di vite umane e sostenere i più vulnerabili. L’investimento richiesto è minimo rispetto ai costi sociali ed economici dell’inazione. La storia ci giudicherà severamente se non lo faremo”.

I problemi sono molteplici e spesso hanno dimensione e origini internazionali. È questo il caso dell’elevato debito estero il cui servizio confligge con l’esigenza di disporre di risorse da destinare alla sanità. Un intervento del FMI appare necessario, come sostenuto da The Economist.  Ed è anche il caso delle varie sanzioni imposte ad alcuni di questi paesi che rischiano di limitare fortemente le possibilità di accesso a cibo, a essenziali farmaci e prodotti sanitari. Su tali problemi ha richiamato l’attenzione il segretario generale dell’ONU in un appello rivolto, anche questo, al G20.

La World Bank ha iniziato a fornire aiuti: ha stanziato 160 miliardi di dollari per I prossimi 15 mesi; sta aiutando I paesi ad accedere a essenziali strumenti e prodotti sanitari e sta incoraggiando altri soggetti a dare il loro aiuto.  L’augurio è che questi interventi siano o diventino rapidamente adeguati alla sfida che si ha di fronte e che riguarda anche, come hanno  di recente sottolineato R. Weintraub, P. Yadav e S. Berkley, (“A COVID19 Vaccine will need equitable, global distributionHarvard Business Review, 2020 ) la produzione, speriamo imminente, di un vaccino rispetto al quale si pongono problemi di accesso e di equità distributiva. Per prevenire e curare gli effetti della pandemia di Covid-19 saranno, inoltre, necessari investimenti in logistica, infrastrutture, conoscenza e gestione di cui molti paesi sono attualmente poveri.

Al di là di quello che si potrà fare per contrastare i rischi più terribili, vi sono almeno due lezioni, riguardanti i sistemi sanitari, che questa esperienza ci impartisce. La prima è che le disuguaglianze di salute, su scala globale, possono generare costi enormi e non soltanto a carico dei più deboli. Esse finiscono, in vari modi, per imporre costi rilevanti a tutta la collettività. Ad esempio le perdite economiche legate alle disuguaglianze nella salute pubblica nell’Unione Europea sono state stimate nella misura dell’1,4% del PIL.

La seconda è che nel caso della salute vale la teoria dell’anello debole: un paese con un sistema sanitario debole rischia di produrre danni a tutti gli altri paesi. Per questo occorre una politica lungimirante e efficacia di aiuti internazionali. Una politica che non sembra essere quella seguita di recente da moltissimi paesi. Ed in particolare dal governo federale australiano che, come mostra il grafico, (si veda “Budget 2019: the race to the bottom of foreign aid” the Lowy Institute).

È la legge dell’interdipendenza: quello che non facciamo ora per i paesi più poveri ci tornerà indietro con un prezzo alto in termini di vite umane e perdite economiche, e non solo. Come dice Tutu” My humanity is bound up in yours, for we can only be human together”.

 

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