La legge di stabilità e i suoi argomenti

FraGRa e Ruggero Paladini esaminano brevemente gli argomenti con i quali il governo ha giustificato due dei più importanti provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio delle tasse e l’innalzamento a 3000 euro del limite per i pagamenti in contanti. Rispetto al primo si sostiene che, anche per il modo in cui è attuato, non è facile considerarlo “giusto e normale”, come invece ha affermato il Presidente del Consiglio e rispetto al secondo si spiega perché è debole l’argomento secondo cui sarebbe ininfluente sull’evasione fiscale.

Le misure adottate dal governo sono, naturalmente, molto importanti. Ma piuttosto importanti sono anche gli argomenti con i quali il governo giustifica le proprie scelte. Aiutano a individuare i valori a cui esso si ispira e la coerenza ed il rigore con cui li persegue. Tra i vari casi che possono darsi, c’è quello dell’argomento convincente che si combina, però, con misure inadeguate e quello, maggiormente degno di attenzione, dell’argomento non convincente con il quale si cerca di giustificare misure inadeguate. Gli   argomenti potrebbero essere, poi, distinti tra quelli che servono a sostenere che le misure sono indispensabili e quelli che invece si limitano a escluderne la dannosità, quelli che chiariscono le priorità del governo e quelli che invece le nascondono, talvolta dietro le nebbie del “di tutto un po’”.

In questo Contrappunto proveremo, senza troppe ambizioni, a riflettere (a più mani) su due argomenti avanzati dal governo a sostegno di importanti misure contenute nella legge di stabilità: la riduzione delle tasse e l’innalzamento a 3000 euro del limite per i pagamenti in contanti.

In cerca dei tagli alle tasse giusti e normali*

“Abbassare le tasse è né di destra né di sinistra, ma semplicemente giusto e normale.” A questa essenziale affermazione del Presidente del Consiglio è stato dato enorme risalto. Ed è giusto e normale che sia così. Forse meno normale è che a questa espressione necessariamente sintetica del proprio pensiero, praticamente una battuta, (ma non è obbligatorio fare battute su tutto) Renzi – tenendo anche conto che la materia su cui si è pronunciato ha mosso moltissime menti e inondato intere biblioteche – non abbia fatto seguire una riflessione un po’ più articolata che aiutasse a comprendere, ad esempio, se non vi sia qualcosa di più normale e giusto che abbassare le tasse, almeno in specifiche circostanze o, ancora, se il modo nel quale si abbassano le tasse conti qualcosa rispetto ai giudizi che ha espresso.

Allora proviamo noi a fare qualche breve riflessione, riservandoci di ritornare in modo più sistematico sugli argomenti e le misure della legge di stabilità.

Supponiamo che la collettività abbia a cuore il finanziamento di alcuni investimenti pubblici per i quali le entrate già disponibili siano insufficienti. Sarebbe normale in queste condizioni tagliare le imposte? E nel caso in cui a soffrire del taglio fossero essenziali prestazioni sociali? E, ancora, se si dimostrasse (come in effetti è) che gli effetti moltiplicativi sul reddito di aumenti della spesa pubblica sono maggiori di quelli del taglio delle imposte, sarebbe normale procedere con questo taglio, soprattutto in tempi di crisi? Forse sarebbe “obbligatorio” o conveniente, considerando altri obiettivi e altri vincoli, ma proprio normale non sembra.

Ma ammettiamo che nessuna di queste condizioni sia data e, quindi, che vi sia semaforo verde per la riduzione del prelievo. Considerare giusta ogni modalità di attuazione del prelievo è poco meno che una provocazione – ma data la stringatezza del suo pronunciamento non possiamo attribuire a Renzi questa intenzione. Però possiamo fare qualche riflessione a partire dal modo nel quale il governo intende realizzare il taglio delle imposte.

La riduzione delle entrate (al netto di nuovi aggravi) è di circa 21 miliardi di euro, di cui ben 16,8 derivanti dal congelamento per il 2016 delle clausole di salvaguardia (relative all’incremento dell’Iva e delle accise e al taglio delle agevolazioni fiscali). Le altre principali misure consistono nell’abolizione della Tasi sulla prima casa (anche per la parte concernente gli inquilini risiedenti in un immobile che rappresenta l’abitazione principale), dell’Imu sugli “imbullonati” e sui terreni agricoli, nella detassazione dei premi di produttività, nell’azzeramento dell’Irap per i settori agricolo e della pesca, in alcuni super-ammortamenti per le imprese che investono e nell’estensione di alcuni regimi agevolativi per professionisti e lavoratori con partita Iva con giro di affari in media inferiore a 30.000 euro. A ciò si aggiungono la previsione di una diminuzione dell’aliquota dell’imposta societaria dal 27,5% al 24% a regime e la conferma (anche se con importi e durate attenuate) degli sgravi contributivi per chi assume col contratto a tutele crescenti.

A proposito di quest’ultima misura va ricordato che gli sgravi sono concessi alle imprese senza condizionarli alle loro scelte di investimento e occupazione (si può licenziare un vecchio dipendente per assumerne con sgravio uno nuovo) o all’effettiva stabilità del nuovo contratto (lo sgravio ricevuto non decade se il lavoratore viene poi licenziato). Come si è già mostrato nel Menabò, la target efficiency della misura rischia quindi di essere molto limitata e di risolversi in una mera redistribuzione a vantaggio delle imprese.

La legge di stabilità, come si è visto, è avveduta nel distribuire la riduzione del prelievo su una platea ampia di contribuenti. Tuttavia, una grossa fetta dei vantaggi va a chi ha di più e ciò non vale solo rispetto alla dibattutissima eliminazione della Tasi sulla prima casa. Ancora una volta, le riforme di struttura (così è stata denominata la diminuzione delle imposte prevista nella legge di stabilità) si caratterizzano per abbassare il costo del lavoro a favore dei profitti, probabilmente nella convinzione che ne deriveranno, “per sgocciolamento”, effetti positivi per tutti. Le evidenze empiriche non confermano, però, l’esistenza di tali effetti positivi cosicché questo modo di realizzare la riduzione delle imposte difficilmente potrebbe essere considerato, dopo un test neanche troppo severo, normale e giusto. Altre strade appaiono decisamente preferibili.

Ad esempio, in un convegno tenutosi recentemente all’Università di Roma3 su Le decisioni di politica fiscale per il 2015. Impatti e valutazioni, Claudio Lucifora ha ricordato che, con riferimento a 21 paesi europei nell’intervallo di tempo compreso tra il 1998 e il 2008, una maggiore progressività delle imposte sul reddito (a parità di gettito complessivo) – dunque con redistribuzione del carico dai lavoratori poveri a quelli ricchi – ha avuto effetti favorevoli sull’occupazione. La spiegazione principale è che l’elasticità dell’offerta di lavoro è maggiore per i bassi redditi. Facendo tesoro di questa esperienza si sarebbe potuto ridurre il carico fiscale alleggerendo il prelievo su questi redditi e così si sarebbe imboccato il sentiero che porta a minori disuguaglianze e maggiore occupazione: cioè, il sentiero del “ giusto” e del “normale”.

Molto altro si potrebbe aggiungere sul modo più giusto e normale di ridurre le tasse. Ma ci fermiamo qui. Con la speranza che, prima o poi, un tema di questa portata sia affrontato in un contesto più ampio.- nel quale le questioni di giustizia non siano limitate al taglio delle tasse-, con abbondanza di argomenti, anche contrapposti, e senza risparmio di parole, soprattutto se queste servono a mostrare che gli argomenti degli altri, di tutti gli altri, sono stati presi sul serio.

I tremila euro: stimolo ai consumi o all’evasione?**

Se su un motore di ricerca scrivete “evasion” e “currency” trovate articoli e anche paper accademici sulla relazione tra evasione fiscale e uso del contante. Oppure potete procurarvi il libro a cura di Buratti e Campana (Contrasto al riciclaggio e misure anti-evasione, 2012), rispettivamente generale e tenente colonnello della Guardia di Finanza, che contiene una buona bibliografia sull’argomento. L’autore che ha originato un flusso di letteratura su questo tema è Vito Tanzi del FMI, che ai primi anni ottanta pubblicò due lavori in cui stimava la “underground economy” proprio sulla base dell’uso del contante. Oppure più semplicemente andate su LaVoce.info e guardate l’articolo di Immondino e Russo del 20 ottobre, in particolare i grafici dove viene riportata la relazione, inversa, tra grado di evasione ed uso di strumenti elettronici di pagamento. Sarebbe interessante se il Ministro Padoan indicasse i lavori che dimostrerebbero l’assenza di relazione tra evasione e contante.

Non tutta l’evasione dipende dal contante, ovviamente. Ci sono metodi che confinano con forme elusive (il confine, come mostra la giurisprudenza sull’abuso di diritto, tra evasione ed elusione è labile), ma non c’è dubbio che l’esperienza di tutti coloro che hanno avuto a che fare con artigiani, commercianti, affittacamere o professionisti, è che l’evasione avviene col pagamento con banconote.

Ma è bene considerare il seguito. L’evasore che ha raccolto una discreta somma sottofatturando, in parte o del tutto, deve anche decidere cosa fare delle somme che tiene in forma liquida. Se le depositasse in banca rischierebbe di subire un controllo e di non saper giustificare quanto incassato. Pertanto deve anche lui trovare il modo di far girare il contante. Un commercialista mi ha raccontato il caso di un artigiano che, in possesso di poco più di 100mila euro, chiedeva se fosse rischioso depositarli in banca. Avendo saputo che in effetti era rischioso, decise di far ristrutturare un vecchio casolare, pagando in nero gli operai, per poi eventualmente sostenere che il lavoro era stato fatto in proprio da lui e dai familiari durante i fine settimana. In questo modo aveva una giustificazione nel caso fosse incappato nel redditometro. A loro volta anche gli operai avranno usato il contante.

Ecco perché esiste una relazione diretta tra tasso di evasione e uso del contante. Chi riceve in contanti deve poi a sua volta usare il contante, in una certa misura, se non al 100%. Il centro studi degli artigiani di Mestre ha provato ad argomentare in senso contrario, con il seguente ragionamento: poiché il limite al contante è rimasto a lungo fermo negli anni 2000, mentre l’evasione ha oscillato in su ed in giù, se ne deduce (?) che non vi è relazione. Lascio al lettore decidere se l’argomento può essere considerato valido.

E’ evidente che il limite all’uso dei in contanti costituisce un freno all’ingranaggio, anche se non insuperabile. Portare il limite da mille a tremila stimolerà i consumi? Forse sì, ma agevolerà anche l’evasione. In un recente paper Kenneth Rogoff (Working Paper 20126, NBER, maggio 2014) si è chiesto se non valga la pena di eliminare l’uso del contante. Una misura del genere non potrebbe essere attuata in un colpo solo, ma progressivamente, limitando la possibilità di ritirare dai bancomat le banconote, essiccando via via il flusso che alimenta il circuito in nero. Che ne direbbe il Presidente del Consiglio?

* Di FraGRa

** di Ruggero Paladini

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