La legge del più forte? A proposito dei dazi di Trump

Luca Salvatici e Fabrizio De Filippis si occupano degli interventi di politica commerciale attuati o minacciati dal Presidente Trump mettendone in evidenza gli elementi di rottura rispetto al modello di governance multilaterale dei decenni precedenti. Salvatici e De Filippis sostengono che queste evoluzioni accrescono i rischi di guerre commerciali con conseguenze negative non limitate ai soli paesi e settori inizialmente coinvolti e che, in un simile scenario, l’interesse dell’Italia è al mantenimento di una posizione negoziale comune da parte dell’Unione europea.

Chi è superiore esige quanto è possibile

e i deboli cedono

Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro V.

 

 

Sullo scorso numero del Menabò Giuseppe De Arcangelis ha commentato la decisione del Presidente Trump di introdurre dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. Le vicende degli ultimi giorni permettono di comprendere meglio la strategia statunitense.

Da una parte l’Unione Europea (Ue) è stata aggiunta al non piccolo novero di paesi (almeno per il momento) esentati dal pagamento dei nuovi dazi; dall’altra sono stati minacciati ulteriori interventi contro la Cina legati ai trasferimenti tecnologici. Da quello che è dato di capire allo stato dei fatti, si tratterebbe di misure ben più rilevanti di quelle relative alla siderurgia, che potrebbero coinvolgere flussi commerciali per 60 miliardi di dollari e si manifesterebbero non solo attraverso dazi ma anche con restrizioni agli investimenti esteri.

Una possibile interpretazione è che la Cina sia sempre stata il vero e unico obiettivo della strategia dell’amministrazione Trump. Si tratta di un’interpretazione plausibile alla luce del timore che il paese asiatico stia insidiando il primato tecnologico degli Stati Uniti; e qualora le misure protezionistiche fossero effettivamente adottare vorrebbe dire che la Cina è ormai considerato un concorrente temibile alla pari di quanto accadde nei confronti di un altro paese asiatico, il Giappone, alcuni anni addietro.

Se l’obiettivo fosse effettivamente la (sola) Cina, il governo statunitense potrebbe però facilmente trovare alleati – innanzi tutto l’Ue che condivide preoccupazioni analoghe – e portare avanti la propria battaglia continuando a utilizzare i non pochi strumenti previsti dagli accordi multilaterali. Gli Usa, invece, sembrano mossi da un duplice obiettivo: da un lato, usare la politica commerciale per sanzionare Paesi ‘nemici’ quali la Cina; dall’altro, infliggere il colpo di grazia al modello di liberalizzazione multilaterale promosso dagli stessi Usa all’indomani del secondo conflitto mondiale e basato prima sull’Accordo Gatt (General Agreement on Tariff and Trade) e poi sull’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Si tratterebbe di un colpo di grazia giacché quel modello di globalizzazione multilaterale era già da tempo in crisi profonda, come ampiamente testimoniato dal sostanziale fallimento dei negoziati del Doha round e del sempre più frequente ricorso ad accordi regionali per governare i nuovi temi del commercio mondiale come servizi, diritti di proprietà e regolamentazioni interne.

La novità è rappresentata dal fatto che mentre l’Ue e gli stessi Usa fino all’amministrazione Obama hanno utilizzato un bilateralismo ‘progressivo’ riconducibile a obiettivi ultimi di liberalizzazione commerciale – ossia per scambiare concessioni ulteriori rispetto agli impegni già esistenti in ambito Omc e facendo in qualche misura da traino all’ulteriore apertura dei mercati – il bilateralismo ‘aggressivo’ dell’amministrazione Trump minaccia azioni protezionistiche per ottenere quote di mercato (o raddrizzare presunti torti) sulla base della legge del più forte. In altri termini, invece di utilizzare il negoziato per concordare la distribuzione dei benefici di un gioco a somma positiva, si usano le politiche commerciali come armi di ricatto o rappresaglia, a volte poco comprensibili, anche in una logica mercantilistica: le importazioni di acciaio dalla Cina, ad esempio, sono relativamente modeste.

A tutti i presidenti statunitensi è accaduto di adottare misure protezionistiche, a volte anche più pesanti di quelle finora introdotte da Trump; ma mentre in passato tali misure rientravano nei margini di manovra previsti dalle regole multilaterali, stavolta esse vengono rivendicate come misure unilaterali da usare in modo discrezionale. Inoltre, è difficile sfuggire alla sensazione che il nemico esterno venga utilizzato strumentalmente per distrarre l’opinione pubblica rispetto ai problemi e agli scandali della politica nazionale. The Economist sostiene che per descrivere la strategia del Presidente Trump sono sufficienti 6 parole: ‘make threats, strike deals, declare victory’. E’ una strategia coerente con una visione dell’ordine economico internazionale basata sulla legge del più forte evocata da Tucidide nel dialogo fra gli ateniesi e gli abitanti dell’Isola di Melo, riportato all’inizio di questo articolo: si tratta di capire quali paesi l’accetteranno e quali reagiranno correndo il rischio di innescare una guerra commerciale.

La posizione europea in un simile scenario è assai delicata. Da una parte, l’Ue al pari di altri paesi condivide i fondati dubbi degli Usa sull’opportunità di considerare la Cina come un’economia di mercato. Dall’altra, è inutile farsi troppe illusioni sull’efficacia dell’Omc come strumento di pressione nei confronti del governo statunitense. Al di là dei problemi di funzionamento del meccanismo di soluzione delle dispute, deliberatamente aggravati dalla decisione dell’amministrazione Trump di non consentire la sostituzione dei componenti in scadenza nell’organo di appello dell’Omc, gli Usa hanno utilizzato una motivazione come la “sicurezza nazionale” ben difficilmente riconducibile ai parametri normalmente utilizzati per valutare la necessità e ragionevolezza delle misure di politica commerciale.

In questa prospettiva si potrebbe argomentare che la fermezza dimostrata dalla Commissione Ue, e la minaccia di rispondere con un aumento dei dazi nei confronti di tutta una serie di prodotti statunitensi, abbiano condotto il governo Usa a più miti consigli; ma, vista l’attuale debolezza politica e la scarsa coesione interna dell’Ue, sarebbe una visione tanto ottimistica quanto irrealistica. Nell’ambito di un rapporto di ricerca dell’Ismea (L’America First di Trump. Scenari globali per il commercio agroalimentare, Roma, settembre 2017) sui possibili effetti nel settore agroalimentare della strategia America First, il Centro Rossi-Doria ha svolto alcune simulazioni per quantificare gli effetti di diversi scenari conseguenti alle azioni protezionistiche minacciate dagli Usa. A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione del rapporto, colpisce costatare come lo scenario più estremo che veniva simulato, vale a dire una guerra commerciale tra Usa e Ue, non rappresenti più un termine di confronto ipotetico ma sia diventato una prospettiva in qualche misura realistica.

Al di là dei risultati numerici, tre sono le indicazioni principali che possono essere tratte da quelle simulazioni:

  1. Nel nuovo (dis)ordine mondiale, anche per un paese di medie dimensioni economiche come l’Italia le possibilità di (re)agire ‘da solo’ sono pressoché nulle e appare di gran lunga preferibile negoziare in gruppo. Sarebbe quindi pericoloso indebolire la coesione dell’Ue sperando che il Presidente Trump punti le sue armi protezionistiche contro i prodotti della Germania o della Francia piuttosto che contro il Made in Italy.
  2. In una guerra commerciale nessun settore è al sicuro. Sebbene acciaio e alluminio siano i settori inizialmente interessati, le rappresaglie minacciate dall’Ue riguardano molti altri prodotti ed è facile immaginare che in una eventuale escalation il settore agroalimentare europeo finirebbe per essere coinvolto: l’Italia – che negli ultimi anni ha fatto registrare una crescita delle esportazioni di tutto rilievo – avrebbe molto da perdere.
  3. Parafrasando un famoso detto, oggi è più che mai vero che “nessun paese è un’isola”. Purtroppo (o per fortuna) la riduzione dei costi di trasporto e di transazione, un cinquantennio e più di liberalizzazione commerciale hanno portato alla nascita e al consolidarsi di catene globali del valore tali che eventuali misure protezionistiche hanno effetti rilevanti ben al di là dei confini dei paesi coinvolti. Sarebbe quindi illusorio credere che un’eventuale guerra commerciale tra due economie così rilevanti come Usa e Cina avrebbe conseguenze in qualche modo limitate, senza trasmettersi, attraverso la sostituzione dei flussi commerciali o l’interruzione delle filiere di produzione, a tutti gli altri Paesi. Insomma, se anche le politiche diventano bilaterali è il mondo che è diventato sempre più multilaterale. Questo significa che anche un Paese grande come gli Usa è destinato a pagare un prezzo significativo: in un mondo globalizzato, contrariamente a quanto sostenuto dal Presidente Trump, non esistono guerre commerciali “facili”.

La conclusione è che se gli Usa se la prendono (per il momento) solamente con la Cina, ciò non è affatto rassicurante per il resto del mondo. Da una parte, infatti, la produzione cinese che non venisse più assorbita dal mercato statunitense, finirebbe per cercare sbocchi su altri mercati che sarebbero a loro volta soggetti a crescenti pressioni protezionistiche. Dall’altra, occorre ricordare che lo squilibrio di bilancia commerciale è un fenomeno macroeconomico. Se gli Usa continueranno ad avere un deficit di risparmio pubblico e privato, e le recenti riforme fiscali potrebbero addirittura peggiorarlo, la maggior protezione nei confronti della Cina porterà a un aumento delle importazioni provenienti dagli altri paesi. Se qualcuno considerasse questa una buona notizia per gli esportatori italiani ed europei, farebbe bene a ricredersi: è assai probabile che paesi come la Germania e la stessa Italia finirebbero presto per essere il prossimo bersaglio del Presidente Trump.

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