La grande banca

L’intera classe dei dirigenti politici esulta per la nascita della superbanca nata dalla fusione tra Banca Intesa e Banco S.Paolo. Si va dalle manifestazioni di “grandi felicità” all’affermazione, invero un po’ azzardata, che abbiamo la prova provata che “il Paese può farcela”, al “fiore d’agosto per azionisti e clienti” porto da Giovanni Bazoli, uno dei grandi protagonisti dell’operazione, fino al patriottismo e al nazionalismo di chi sottolinea l’italianità dell’operazione e la sconfitta dello straniero ( lo stesso “straniero” con il quale siamo partiti per il Libano in nome dell’europeismo). Un altro po’ e, senza il clamore sollevato dalla vicenda Telecom e dalle dimissioni di Tronchetti Provera, avremo avuto la ola in Parlamento al grido “grande è bello”.

Etica ed Economia non ha mai pensato che di per sé ciò che è grande sia automaticamente bello e, soprattutto, efficiente. E la stessa cosa vale per ciò che è “piccolo”: non a caso siamo sempre stati favorevoli, per esempio, ai distretti industriali come strumenti per realizzare sinergie e per far crescere la piccola imprenditoria. In ogni caso riteniamo che la fusione tra Banca Intesa e Banco San Paolo, creando una nuova grande banca a fianco di Unicredito, possa assicurare al nostro paese, a certe condizioni, uno strumento valido per interloquire e pesare sul piano internazionale e per affiancare le nostre imprese sul mercato europeo, oltre ovviamente, che sul mercato interno.

Il problema è di realizzare le “certe condizioni” e di evitare di scaricare i costi della integrazione sui dipendenti e sui clienti. Non sui clienti privilegiati che godono di particolari condizioni di favore, e che di queste condizioni hanno sempre approfittato con risultati spesso catastrofici (vedi per tutti, per non andare troppo indietro, Bibop Carire che ha travolto migliaia e migliaia di azionisti dopo aver assorbito la Banca di Brescia e la gloriosa Cassa di risparmio di Reggio Emilia o il caso Parmalat), ma sui clienti che debbono fare la fila agli sportelli o offrire solide garanzie reali per realizzare una nuova idea imprenditoriale.

I precedenti non sono sotto questo profilo incoraggianti. Proprio il Banco San Paolo ha inglobato tre anni fa il Banco di Napoli, ma, dopo tre anni, le attese sinergie sono lontane dall’essersi realizzate: non sono state per esempio unificate – dopo tre anni – le reti telematiche delle due banche così che esistono ancora i clienti Banco Sanpaolo e i clienti ex Banco di Napoli, con trattamenti diversi (ovviamente a danno dei clienti ex Banco di Napoli, fermi alla pratica burocratica cartacea). Ora, dopo gli inni entusiastici dei primi giorni, con conseguenti speculazioni in Borsa, leggiamo che la integrazione nella Grande Banca sarà lenta e che ci sono ancora problemi non facili da risolvere (per esempio il diritto di veto di cui gode Le Crédit Agricole all’interno del gruppo di controllo di Banca Intesa e le mosse legali annunciate dal gruppo spagnolo Santander socio di rilievo del Sanpaolo IMI) e questioni logistiche – scelta della sede operativa per cui è candidata Milano – che rischiano di aprire complessi problemi non solo di natura sindacale ma anche di natura politica. E’ vero che l’asse Torino- Milano, a differenza di quello Torino Napoli è servito da ottimi e rapidi collegamenti (specialmente se la Tav non scavalcherà Torino), ma gli interessi torinesi di varia natura costituiti attorno al Sanpaolo e quelli milanesi costruiti attorno a Banca Intesa non sono altrettanto ben collegati e sono in molti casi divergenti. Non si dimentichi il particolare legame del Banco Sanpaolo con Torino, dove la banca fu fondata come Monte di Pietà nel 1563 dalla Compagnia da cui ha preso il nome, o al ruolo particolare che svolge in Lombardia la Fondazione Cariplo, secondo azionista di riferimento di Banca Intesa.

Ora è vero che i teorici del capitalismo selvaggio, caro anche a taluni esponenti del centro sinistra grazie allo sguardo che essi hanno rapidamente spostato da Mosca agli Stati Uniti (dove tuttavia il senso della comunità locale è più forte di quanto essi pensino), considerano certi legami un impaccio allo scatenarsi delle forze animali del sistema, ma è stato proprio un grande banchiere, Raffaele Mattioli, che è parte della storia di Banca Intesa, a insegnarci quanto conti anche per una banca che voglia lanciarsi nel mondo (e il laico Mattioli fu il primo banchiere italiano che nel dopoguerra, per volere di de Gasperi, ristabilì i legami tra mondo finanziario ed economico italiano e Stati Uniti) un radicamento di base con un determinato territorio e con le imprese, iniziative, stimoli, persone e comunità di quel territorio. I radicamenti del Banco di Napoli, mal assorbito dal San Paolo, erano altrettanto forti anche se non sempre sani e il Sud ha patito la perdita della sua antica banca.

Certamente il management delle due banche che si sono fuse è di grande livello e ciò è una garanzia per il positivo superamento dei problemi non facili che si porranno, così come è una garanzia che a presiedere il Comitato di sorveglianza della nuova banca sia un uomo i cui contrappunti annuali alle relazioni del Governatore Fazio (negli ultimi anni era Bazoli a parlare a nome degli azionisti della Banca d’Italia) meriterebbero di essere pubblicati e studiati non solo per ricostruire la storia economica di un periodo, ma per trarne utili lezioni per un oggi ancora non chiaramente definito.

Ma, ripetiamo, i problemi che una integrazione per fusione pone sono molti e, nel momento in cui la dualità di direzione complica tali problemi, è bene seguire la vicenda con atteggiamento senz’altro favorevole ma, allo stesso tempo, critico.

L.B.

Ps- L’amministratore delegato del Banco San Paolo ha escluso, “almeno per la Banca da lui diretta” che siano intervenuti nell’operazione, giochi politici. Sembra tuttavia difficile attribuire al mondo della fantasy l’annotazione del Sole 24 Ore (27 agosto) secondo la quale “La fusione d’agosto è molto di più di un merger bancario. E’ la cartina di tornasole dei rapporti di forza dell’Unione.” Con una vittoria netta del gruppo prodiano e della Margherita sul “Botteghino”. In vista, aggiungiamo noi, della leadeship effettiva e del controllo di tesoreria del cosiddetto Partito democratico. La gioia di Prodi e del suo gruppo aveva ben ragione di essere, al di là del ruolo istituzionale; peccato abbia avuto vita breve e sia stata stroncata dal 1997.

Schede e storico autori