La gestione delle crisi di impresa al Mise: qualche riflessione critica

Giampiero Castano, basandosi sulla sua lunga esperienza di gestione delle principali crisi industriali presso il MISE, interviene nel dibattito innescato dai recenti casi ALITALIA, ILVA Arcelor Mittal. Castano sostiene che il problema non è il numero dei ‘tavoli di crisi’, ma la capacità di gestire le informazioni che da essi provengono trasformandole in articolata azione politica. Si tratta di un problema che esiste da tempo, mentre altri sembrano presentarsi oggi in forma aggravata. Tutto ciò rende ancora più difficile gestire le crisi di impresa nel Mezzogiorno.

Nelle ultime settimane, di fronte alle numerose crisi aziendali, il Ministero dello Sviluppo economico (MISE) ed il suo Ministro pro tempore sono stati oggetto di un numero crescente di critiche che si riferiscono non soltanto all’incapacità di gestire il confronto tra le parti, ma anche alla mancanza di idee su come aiutare le imprese in difficoltà e come ridare prospettive di sviluppo ai territori che soffrono per la cessazione di essenziali attività economiche e la conseguente riduzione di occupazione.
Sono queste critiche giustificate? E’ giustificato l’allarme di coloro che denunciano il crescente degrado della nostra base industriale?

Per rispondere a queste domande farò ricorso alla mia esperienza di “gestore” di crisi al MISE iniziata nel 2007 e terminata all’inizio di quest’anno, cercando di affrontare con il necessario ‘distacco’ un argomento che, peraltro, abbraccia aspetti non solo economici ma anche sociali, etici e di strategia-paese.

  1. Anzitutto va detto che i tavoli di crisi gestiti al Ministero dello Sviluppo Economico riguardano una parte considerevole del sistema industriale italiano: quasi tutte le imprese di maggiore dimensione e quelle che avviandosi a cessare parzialmente o totalmente la loro attività rischiano di generare problemi molto seri al territorio in cui sono localizzate. Tenendo conto di ciò, si può dire che il numero dei tavoli attivi (150 piuttosto che 155 o 165 tavoli attivi) non ha molto significato.

Diverso è se il costante e attento monitoraggio dei dossier viene utilizzato per cogliere le tendenze in atto e per fornire al decisore politico elementi utili per elaborare una strategia e per compiere le scelte operative che gli competono. In questa ottica il “gestore dei tavoli di crisi” (che io ho sempre voluto definire “di confronto”) può svolgere un lavoro prezioso: quello che consiste nel trasformare la conoscenza situazioni aziendali più critiche in materia utile per giungere a una articolata interpretazione delle difficoltà sistemiche.
Alcuni esempi possono far meglio comprendere quel che intendo.
Negli ultimi due anni sono stati attivati tavoli di confronto per un numero elevato di imprese operanti nel settore delle grandi costruzioni: Condotte, Astaldi, CMC, Tecnis, ecc; il punto di osservazione del Mise ha permesso non solo di cogliere un trend fortemente negativo (e fin qui nulla che già non si sapesse), ma anche di conoscere lo stato reale delle imprese, il loro indebitamento, le loro debolezze; in breve, i meccanismi che hanno prodotto una crisi che coinvolge oltre a decine di migliaia di lavoratori, una parte importante del sistema creditizio, molte amministrazioni pubbliche e interi territori travolti dal crollo di imprese importanti. Sono questi aspetti della realtà che il decisore politico, il responsabile delle politiche industriali deve conoscere per definire le proprie linee di azione. Le medesime considerazioni possono valere per altri settori importanti: la grande distribuzione alimentare e non, la componentistica automotive, il vasto mondo dei call center, l’elettrodomestico o, in periodi meno recenti, il tessile-abbigliamento-calzaturiero e la componentistica elettronica.
In casi come questi, la gestione delle crisi non è (e non è stata) solo ricerca della soluzione più o meno efficace per i singoli casi; essa è anche l’occasione per acquisire numerose informazioni importanti e non sempre disponibili in maniera strutturata. I dati statistici forniti dall’Istat o dalle associazioni settoriali possono essere utilmente integrati con molte altre informazioni riguardanti l’impatto sociale dei fenomeni di crisi, la loro influenza sul tessuto territoriale, le ricadute economiche allargate, la perdita di competenze e professionalità e molto altro ancora.
Quindi conoscere la dinamica dei tavoli di crisi, i problemi qualitativi e quantitativi che fanno emergere non è un esercizio statistico fine a se stesso e ancor meno dovrebbe servire a alimentare la curiosità o il sensazionalismo giornalistico. Quella conoscenza è invece essenziale per definire la complessità dei problemi e individuare le loro radici.

Va detto che, purtroppo, la mole di informazioni disponibili non viene sistematizzata come sarebbe necessario, a causa dell’assoluta insufficienza delle risorse impegnate nelle diverse fasi in cui consiste la gestione delle vertenze: valutazione preliminare dei casi di crisi aziendale, gestione del confronto, ricerca di soluzioni e attivazione di tutti gli stakeholder, sistemazione delle informazioni raccolte e loro interpretazione. Mancano le risorse e manca la sensibilità del decisore politico che il più delle volte si limita a gestire il singolo caso (possibilmente di successo), prestando ben poca attenzione ai dati più generali, perdendo così la possibilità di trarne indicazioni operative di più ampio respiro. Quindi la querelle sul numero dei “tavoli“- nella quale molti si sono impegnati nelle scorse settimane – a mio parere è del tutto inutile; arrivo a dire che se fossero in numero maggiore sarebbe meglio perché avremmo più informazioni utili per prendere efficaci decisioni di politica industriale.

  1. Le osservazioni critiche di queste settimane non si sono, però, limitate agli aspetti quantitativi della gestione delle crisi; esse hanno riguardato anche le modalità operative, la crescente difficoltà a gestire situazioni complesse, lo scarto molto pericoloso tra annunci e realtà.

A mio parere queste critiche sono fondate, ma ciò a cui siamo di fronte è solo il peggioramento di una situazione che da molto tempo non è certo ottimale.

Le funzioni di chi è chiamato in ambito ministeriale ad occuparsi di crisi aziendali, è quella di “soggetto terzo” nel confronto che si apre tra l’imprenditore e i suoi collaboratori. Ogni modificazione dei complessi equilibri all’interno di una impresa, genera sempre tensioni tra tutti gli stakeholder, anche se nell’ impresa dove vige un sistema ottimale di relazioni.

In questo contesto di crisi, il ruolo del soggetto pubblico deve essere quello di assicurare un nuovo equilibrio a una realtà che lo ha perso. E, contemporaneamente, favorire una soluzione che rigeneri, nel territorio in cui opera o operava l’impresa, il tessuto economico e sociale lacerato dal suo collasso. Se questa funzione viene meno; se gli interessi prevalenti del soggetto pubblico chiamato a gestire le crisi risentono troppo di logiche politiche di parte, allora viene meno l’interesse ad affidarsi a questo soggetto e a riconoscergli un ruolo.

In tutti i Governi con i quali ho avuto l’onore di collaborare, vi è stata anche una spinta partitica volta a favorire questa o quella parte sociale se non in qualche caso anche gli interessi di una parte politica. Temo però che l’attenzione agli interessi partitici stia crescendo in modo pericoloso con la conseguenza di generare difficoltà gestionali importanti: crescente sfiducia nella istituzione ministeriale, poca disponibilità a trasmettere informazioni sensibili (necessarie per la ricerca di soluzioni), maggiori difficoltà nella costruzione di un sistema ordinato di relazioni industriali.

Talora viene privilegiato l’annuncio eclatante per sopperire alle difficoltà gestionali (un esempio per tutti è quello che riguarda le vicende di “Alitalia”), immaginando con ciò di colmare il divario tra la volontà (ammesso che ci sia) e la realtà. E’ una “fuga” non certo originale che, tuttavia, diventa dannosa quando il contesto, ampiamente inteso, non è dei più favorevoli. I continui rinvii, in attesa che qualcosa di inaspettato possa accadere, unito al tentativo di semplificare le dinamiche sociali eliminando il confronto con le organizzazioni di rappresentanza sociale, non favoriscono la soluzione di situazioni molto complesse e concorrono ad accrescere le tensioni sociali e la sfiducia verso le istituzioni.

  1. Prima di concludere queste considerazioni sulle dinamiche presenti (non solo da oggi) nella gestione pubblica delle crisi di impresa, ritengo molto importante sottolineare la mancanza di una attenzione specifica alle crisi di imprese che operano nel Mezzogiorno del nostro Paese. E’ banale affermare che il dualismo economico e sociale richiede una attenzione differenziata alle dinamiche delle diverse realtà, ma questa “banalità” purtroppo non ha fino ad ora trovato una adeguata risposta. La unificazione degli strumenti a disposizione ha risposto ad una astratta strategia che non ha avuto alcuno sviluppo adeguato. Non sfugge che i tempi necessari per ricostruire una economia colpita dalla cessazione di attività economiche, sono molto più lunghi se l’impresa si trova in una regione meridionale. Attrarre investitori, riqualificare i lavoratori, ricercare (con politiche attive) altre collocazioni lavorative, rimotivare socialmente il territorio e ricostruire un adeguato sistema di forniture (supply chain), sono tutte operazioni che richiedono mediamente un tempo doppio al Sud rispetto al Nord e strumentazioni dedicate che neppure le Regioni interessate sono in grado di predisporre. Anche per queste ragioni molte delle crisi di impresa che riguardano aziende collocate nel Mezzogiorno si trascinano a lungo senza che una soluzione adeguata si prospetti (cito per la memoria di tutti BLUTEC ex Fiat di Termini Imerese, IND ITAL AUTOBUS ex Iveco di Avellino, OM Carrelli di Modugno, ma l’elenco continua a lungo).
  2. Un’adeguata conclusione a questa mia riflessione, richiederebbe ulteriori approfondimenti che mi riservo eventualmente di fare anche sulla base di critiche, sollecitazioni e osservazioni che mi auguro numerose.

Ma sono convinto che i limiti strutturali nella gestione ministeriale (MISE) delle crisi di impresa, ha radici lontane nel tempo, non sono la conseguenza di una mala gestio improvvisa. La scarsità ed inadeguatezza di persone e di strumenti dedicati, la estemporaneità degli interventi di questa o quella parte politica, la crisi del sistema di relazioni industriali con una caduta gravissima della rappresentatività, sono tutti fattori che non facilitano di certo la migliore gestione delle crisi.

E’ anche vero, però, che l’allentamento della “terzietà” nella gestione dei tavoli di confronto sta provocando un ulteriore peggioramento che rischia di essere letale. Gli altri ostacoli potrebbero essere superati con impegni cogenti e rapidi, quest’ultimo rischia invece di rendere inutile ogni tentativo di migliorare un impegno pubblico che a tutti dovrebbe apparire quanto mai necessario, soprattutto se si analizza l’attività dell’Unità Gestione Crisi d’Impresa presso il MISE durante la più severa crisi economica dal dopoguerra.

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