La Germania e l’eurozona mediterranea: ovvero l’eterna controversia tra Hayek e Keynes.

Marcello Basili legge l’odierna contrapposizione tra il rigore della Germania e le politiche keynesiane invocate da molti, soprattutto ad di là dell’oceano, come una riproposizione del conflitto tra Hayek e Keynes, già manifestatosi quando la Thatcher divenne primo ministro. Il punto specifico di contrapposizione riguarda la focalizzazione delle politiche sul lungo periodo, sostenuta da Hayek contro la concezione di Keynes per cui nel lungo periodo siamo tutti morti. Basili presenta alcuni risultati delle politiche hayekiane della Thatcher e una serie di dati, molto meno positivi di quanto normalmente si assuma, sull’economia tedesca ma si mostra scettico sulla possibilità che questi dati possano modificare la posizione di chi coltiva convincimenti hayekiani.

Quando Margaret Thatcher divenne primo ministro britannico, alle fine degli anni ’70, la Gran Bretagna e molti altri paesi attraversavano una durissima crisi economica. Questa similitudine con gli anni a noi più vicini non deve far dimenticare le differenze tra i due periodi e, in particolare, che allora le economie erano flagellate da un’inflazione galoppante mentre oggi l’Eurozona sta precipitando in un’inattesa deflazione.

Vi è tuttavia una elemento comune tra i due periodi. Si tratta della possibilità di ricondurre le principali posizioni in campo, allora come oggi, a due dei maggiori economisti della prima metà del secolo scorso: Keynes e Hayek, separati da distanze incolmabili nell’analisi della cause delle crisi economiche e delle ricette per farvi fronte.

Senza entrare nel merito di questa contrapposizione, si ricorda che Friederich Hayek fu considerato il padre nobile della Thatcher che come lei stessa scrisse, “in The Road to Serfdom ha fornito la più potente critica alla pianificazione e allo stato socialista”. La stima reciproca tra l’economista austriaco e la Lady di Ferro è testimoniata dalla lettera inviata da Hayek al Times nel 1982, per difendere la Thatcher dalle feroci critiche degli accademici di Cambridge e dell’altra sponda dell’Atlantico, in cui riconosceva alla Thatcher il grande merito di aver combattuto l’immoralità keynesiana della famosa affermazione “nel lungo periodo tutti saremo morti” concentrando coraggiosamente le proprie azioni proprio sul futuro del Regno Unito senza lasciarsi condizionare dai possibili effetti immediati sull’elettorato.

Non è questa l’occasione per discutere a fondo gli effetti prodotti nel lungo termine dalle politiche thatcheriane come la deindustrializzazione del Regno Unito, la sua dipendenza strategica dai servizi finanziari (che valgono attualmente il 13% del PIL con oltre 2 milioni di occupati) e l’esplosione degli impieghi a bassi salari (pari a quelli che oggi si registrano in Germania). Una rappresentazione sintetica dei disastri determinati dalla Thatcher nella società Britannica in quegli anni è offerta dalla dinamica della disuguaglianza economica. Il coefficiente di Gini – l’indicatore più usato della disuguaglianza – dei redditi disponibili, che durante gli anni ‘60 e per buona parte degli anni ‘70 aveva fluttuato intorno a 0,26, negli anni 80 crebbe senza freno, fino a raggiungere il valore di 0,34 nel 1990, determinando la più elevata crescita della disuguaglianza economica mai osservata nella storia del Regno Unito. Dopo essersi ridotto durante il primo decennio del 2000, esso ha raggiunto il suo massimo storico nel 2009 a 0,36, per poi tornare a 0,34 nel biennio 2010-2011.

Una banale considerazione: la disuguaglianza economica è diminuita con i governi laburisti ed ha avuto una brusca riduzione con il ricorso al quantitative easing nella conduzione della politica monetaria, ancorchè in un paese governato dai Conservatori di D. Cameron.

Oggi sembra di vivere una situazione simile. Da entrambe le sponde dell’Atlantico piovono critiche alla politiche restrittive teorizzate dalla Germania e perseguite dalla Commissione Europea. Oggi come allora i rigoristi richiedono aumenti della tassazione indiretta, liberalizzazioni, deregolamentazione dei mercati, in particolare del lavoro e del credito, e riduzione del debito pubblico, dichiarandosi indisponibili a adottare anche parziali iniziative di supporto alla domanda aggregata con politiche monetarie espansive (quantitative easing), in spregio alla teoria keynesiana e forse anche al buon senso. Stiamo forse assistendo a un nuovo episodio della contrapposizione tra Hayek e Keynes.

Di fronte a tale contrapposizione è legittimo chiedersi se la Germania rappresenti davvero un modello da seguire e se i risultati prodotti dalle sue politiche siano significativamente diversi da quelli a cui ha condotto, soprattutto nel lungo termine, l’impostazione hayekiana della Thatcher in Gran Bretagna. In una breve, e necessariamente sommaria analisi, il dato da cui prendere l’avvio è il surplus commerciale della Germania. Il bilancio commerciale corrente è passato da un sostanziale pareggio nel 2001 a un surplus del 7,5% del gennaio 2014, mentre durante tutti gli anni ‘90 la Germania ha registrato significativi deficit nel bilancio commerciale. Quindi il surplus commerciale della Germania, dopo qualche sporadica apparizione negli anni della Reaganomics, è diventato un dato strutturale con la creazione dell’Eurozona. Questo permanente e crescente surplus commerciale riflette più che l’esplosione delle esportazioni, la crescente differenza tra produzione e consumo interno. Questo è particolarmente evidente allorchè si consideri che il surplus commerciale tedesco è determinato soprattutto dai beni capitali e intermedi, in genere diretti verso i paesi integrati nella sua catena del valore. Questo surplus è stato costruito non su di un’incessante innovazione tecnologica guidata dagli investimenti interni, soprattutto in ricerca e sviluppo e nel capitale immateriale, quanto piuttosto sulla caduta dei costi di produzione e dei prezzi relativi rispetto ai paesi periferici dell’Eurozona e a quelli integrati nella catena del valore (ex-Europa Orientale, Russia e Ucraina).

L’arrivo in Europa della crisi dei subprime ha determinato una riallocazione del surplus corrente. Si è bruscamente ridimensionato il flusso di capitali privati verso i paesi mediterranei e laddove persiste esso è ora intermediato dalle autorità monetarie. Inoltre il divario tra investimenti e risparmi è testimoniato anche dalla dinamica del corporate saving, che dal 2000 al 2007 è cresciuto in Germania, anche in Olanda a ben guardare, del 6% rispetto al PIL, mentre gli investimenti hanno rappresentato solo una piccola parte di questo incremento. Quindi già nei primi anni dell’unione monetaria le imprese tedesche, a differenza di quelle di altri paesi dell’UE con surplus di bilancio corrente, hanno reagito all’aumento relativo del costo del capitale, rispetto ai paesi dell’area mediterranea, “reinvestendo solo una piccola parte dei loro ingenti profitti nella sostituzione e aumento dello stock di capitale, e impiegando il resto per ripianare il debito, piuttosto che accrescere i dividendi distribuiti” (Current Account Surpluses in The EU, Bruxelles 2012).

Gli investimenti in termini di PIL sono caduti del 15% nell’Eurozona dal 2008, ma anche prima risultavano inferiori rispetto alla media OCSE. Queste dinamiche sono esaurientemente espresse nell’andamento del rapporto investimenti/stock di capitale che nell’eurozona è stato di oltre 2% inferiore a quello medio dei paesi dell’OCSE, anche per il cosiddetto capitale intangibile. La Germania non rappresenta un’eccezione nell’Eurozona tutt’altro, infatti prima della crisi Berlino presentava investimenti di molto inferiori a quelli dei cosiddetti PIIGS e la convergenza è avvenuta solo sulla base del trend negativo sia dei PIIGS che della Germania. Infine, sfatando un altro mito, le imprese tedesche, soprattutto quelle manifatturiere, si comportano in modo assolutamente ciclico rispetto agli investimenti in R&D, infatti nel biennio 2008-2009, allorchè anche la Germania subì una forte caduta della produzione, gli investimenti si sono ridotti, mentre sono cresciuti nel biennio successivo.

Le ragioni del successo tedesco vanno ricercate altrove, cioè nel basso costo unitario del lavoro che ha determinato il deprezzamento reale del tasso di cambio nominale fisso rispetto ai paesi mediterranei dell’Eurozona (la svalutazione effettiva in termini comparati del costo per unità di lavoro è stata del 20% nel periodo 1994-2009). A questo risultato hanno contribuito due fattori: la dinamica salariale interna (7 milioni di lavoratori pari a ¼ degli occupati sono impiegati a salari minimi o molto bassi compresi, in media, tra i 6,21 e i 6,46 euro orari e in generale il 47% degli occupati nell’ex-DDR e il 23% dei lavoratori nella ex-RFT guadagnano meno di 7 euro orari) e la delocalizzaizone (offshoring e outsourcing) delle produzioni negli stati dell’Est Europa poi membri dell’UE, nell’Ucraina e nella Russia. Gli investimenti tedeschi verso questi paesi sono passati dal 4% del totale nel 1999 a oltre il 30% nel 2006. Il ruolo dell’Est Europeo nella catena del valore dei prodotti tedeschi è ben rappresentato dall’andamento del deflatore implicito del PIL, che dall’introduzione dell’euro risulta essere di circa 20 punti inferiore a quello di Francia e Italia.

Ricapitolando la super competitività della Germania, non è assicurata da un imponente flusso d’investimento, in particolare in capitale intangibile e R&D, quanto piuttosto della combinazione di due eventi difficilmente ripetibili ed esportabili, entrambi connessi alla caduta del Muro: bassi salari e delocalizzazione delle produzioni in paesi ex-comunisti.

L’attuale polemica sulle misure di politica economica necessarie per far uscire l’Eurozona dalla Grande Recessione vede l’inconciliabile contrapposizione degli economisti anglosassoni e del sud dell’Europa, in massima parte di ispirazione keynesiana, agli economisti tedeschi e del nord Europa sedotti nuovamente dall’ Ordoliberalismo (da Tommaso D’Aquino) o neoliberalismo della Scuola di Freiburg, fondata nella metà degli anni 30 da Walter Eucken, Franz Böhm and Hand Grossman-Doerth (Ordo Manifest 1936). Hayek ha trascorso lunghi periodi nell’università di Freiburg e durante i suoi lunghi soggiorni ha intensamente ispirato gli sviluppi dell’ordolibelismo, in particolare per ciò che riguarda la necessità di tutelare la libertà dei contratti e dei mercati e la protezione dei diritti di proprietà. Quindi anche oggi, sperare di far cambiare opinione alla Germania e alla Commissione Europea, sulla base di argomentazioni di tipo Keynesiano è un’illusione destinata a infrangersi sul muro dell’ideologia del liberalismo ordinato.

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