La geometria della sconfitta

Roberto Tamborini sostiene che la sconfitta storica della Sinistra italiana nelle elezioni del 4 marzo, comune a gran parte dell'Occidente, al di là di responsabilità ed errori contingenti, ha origini lontane. Per cominciare a organizzare le idee, Tamborini, propone una "geometria della sconfitta" che, lungo le coordinate Stato/Mercato e Nazione/Mondo, consente di leggere le grandi correnti socio-economiche che hanno prima alimentato e poi svuotato lo spazio politico della Sinistra a partire dagli anni '80, complice una sua tendenza all'anacronismo, molto acuta in Italia.

Le elezioni del 4 marzo hanno svelato un’Italia simile a molti altri paesi occidentali in cui il popolo si era già espresso. Una società deformata, frantumata, impaurita dalla forza tellurica profonda e di lunga durata della globalizzazione e della sua crisi. Come avvertono Franzini e Vona sullo scorso numero del Menabò, la sconfitta storica della Sinistra italiana nelle elezioni del 4 marzo, che l’accomuna alla gran parte del resto dell’Occidente, ha però un’origine e una storia che vengono da lontano, ben prima di responsabilità ed errori di leader contingenti. Una storia che deve essere ricostruita e capita per trarne le dovute lezioni (il materiale su cui lavorare non manca; cito solo i due best seller degli ultimi anni: T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014 e E. Luce, Il tramonto del liberalismo occidentale, Einaudi, 2017). Per cominciare a organizzare le idee, e nulla più, possiamo costruire una geometria della sconfitta rappresentata nella figura sottostante.

Prendiamo due delle grandi antinomie economico-politiche del Novecento: Stato/Mercato e Mondo/Nazione. Esse formano quatto quadranti. Ciascun quadrante è presidiato da un ideal-tipo politico-ideologico (con molte eccezioni e varianti che qui non consideriamo, tranne una). La Sinistra classica si colloca nello spazio tra Stato e Mondo: ruolo centrale dello Stato nella vita economica e politica nazionale, forte ancoraggio ai valori e all’identità nazionali, e nel contempo apertura alle relazioni inter-nazionali in chiave di dialogo, cooperazione, solidarietà tra i popoli. Lo spazio tra Stato e Nazione è presidiato da quella che oggi si autodefinisce Destra sociale: la nazione e il “nazionalismo” come luogo fisico e ideale a fondamento dell’identità e legittimità dell’azione politica dello Stato che in ogni ambito si pone “al servizio”, ma al di sopra dell’individuo. I Liberali classici propugnano la centralità del Mercato, come elemento di libertà dell’individuo, ma lo collocano all’interno dello spazio politico, se non identitario, della Nazione. I Neoliberisti si staccano dalla famiglia liberale e creano e occupano lo spazio che ha sempre come coordinata fondamentale il Mercato da un lato, ma dall’altro ha il Mondo, cioè un “mercatismo” senza confini. Al crocevia di queste coordinate possiamo collocare la variante della Sinistra classica che storicamente in Europa si chiama Socialdemocrazia.

Le grandi tendenze che prima alimentano, e poi svuotano, quest’area sono indicate dalle frecce diagonali. Scopriamo allora che la storia recente della Sinistra nei paesi occidentali, ma in Italia in particolare, sembra segnata da una malattia che per la Politica è letale: l’anacronismo.

Nel Trentennio aureo (1950-80) la Socialdemocrazia si afferma e si espande nello spazio sia della Sinistra classica che dei Liberali classici bilanciando Stato e Mercato nella sfera economica della società, e Nazione e Mondo nella sfera dell’identità e dell’azione politica. La prima manifestazione di anacronismo della Sinistra italiana è che essa diventa, apertamente e programmaticamente, socialdemocratica quando la forza di attrazione della Socialdemocrazia è in declino.

L’avvento della globalizzazione ne determina la prima forza centrifuga. Le ragioni sono molteplici e ben note, ma tra esse non bisogna mai dimenticare che le prospettive di progresso, affermazione, e arricchimento individuali aperte dall’orizzonte Mercato/Mondo esercitano una formidabile attrazione sui pilastri sociali della Social­democrazia, i cui estesi e complessi sistemi di regolazione, tassazione e redistribuzione appaiono un intralcio, un’imbragatura non più necessaria anche ai loro beneficiari. Reaganismo e Thatcherismo sono fenomeni politici sostenuti da spinte sociali e consensi ben più ampi rispetto alle sole classi egemoni dell’economia e della finanza.

La Terza Via intrapresa dal New Labour di Blair e dai New Democrats di Clinton appare come l’inizio di una nuova era di modernità della Sinistra, si noti bene liberal e anglosassone, come capacità di adattarsi e spingersi nel nuovo spazio di attrazione, cercando di coniugare il Neoliberismo di massa, “forte come l’acqua e come il vento” (Clinton), con alcune forme di protezione e d’inclusione sociale, e grazie anche ad un messaggio di ricambio generazionale e di nuovi stili di vita. In realtà, già a partire dalla metà degli anni ’90, alcuni studiosi internazionali (quelli che non hanno paura di pensare, come li definiva Marcello De Cecco) avvertivano che la globalizzazione, allora in pieno vigore e foriera di magnifiche sorti, avrebbe prodotto (stava producendo) anche alcuni “effetti collaterali” (ad esempio, J. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002). Le disuguaglianze di reddito e ricchezza si stavano riducendo tra paesi avanzati ed emergenti dal sottosviluppo, ma sarebbero aumentate all’interno dei primi. Si sarebbero avvantaggiati i soggetti con maggior qualificazione e collocati in settori tecnologicamente avanzati, mentre tutti gli altri sarebbero stati risucchiati verso il basso nella competizione con gli emergenti. Il ceto medio era a rischio, e la società si sarebbe polarizzata. La capacità dei sistemi di welfare, ancorché “modernizzati”, di far fronte a questi fenomeni sarebbe stata messa in crisi. La parte dei paesi in via di sviluppo rimasta ai margini della globalizzazione avrebbe prodotto una grande massa di migranti. Tutto questo si va largamente avverando, mentre chi deve ascoltare, capire, prevedere e provvedere non lo fa o non è in grado di farlo. Poi arriva l’attentato delle Torri Gemelle, e al momento pochi si accorgono che esso segna l’inizio della fine del Mondo Neoliberista, in conseguenza del suo sciame d’instabilità, conflitti, guerre, terrorismi e profughi.

E a quel punto si manifesta di nuovo l’anacronismo della Sinistra. Col nuovo secolo, la Sinistra riformista, come viene a definirsi in Italia, s’impegna in un’altra faticosa conversione, proprio verso il modello liberal anglosassone (come mostra il nome stesso del neonato Partito democratico), mentre nello spazio Mercato/Mondo cominciano a crescere le contraddizioni e i fattori di crisi, e la Terza Via comincia a smarrirsi. In Italia, la Sinistra riformista ha il merito di essere l’unica forza politica che comprende, anche a costo di qualche impopolarità, che il paese necessita di profondi cambiamenti economici, istituzionali e sociali perché sta scivolando in un declino che non gli consente più di prosperare in Europa e nell’arena mondiale, ma la visione proviene dallo specchietto retrovisore, non va oltre le “istruzioni di volo per il bel tempo” (J. Stiglitz), cioè le politiche economiche e sociali che hanno accompagnato la fase espansiva della globalizzazione. Da questo punto di vista, non giova il pur meritorio ancoraggio all’Europa, che di quelle politiche è diventata precettrice e guardiana in maniera rigida e ideologica. Ce lo chiede l’Europa!

La sconfitta elettorale dell’Ulivo del 2008 è letta come necessità di un ulteriore sforzo di “modernizzazione” nella stessa direzione, mentre la Destra forzaleghista rivince proponendo molto pragmaticamente la nuova formula Tremontiana, che anticipa il nazional-liberismo di Trump, ossia il mito fondativo della “libera iniziativa” per tutti dentro una forza popolare in grado di presidiare la sovranità e l’identità nazionale, e di offrire protezione dai morsi dei mercati globalizzati.

Lo slogan “meno Stato e più Mercato”, abbandonato dalla Destra, viene introiettato dalla Sinistra riformista come propria missione, anche in espiazione delle colpe precedenti. La ricerca economica più avanzata sui limiti e le disfazioni dei mercati deregolati, tanto quanto le crescenti evidenze, vengono trascurate, forse pensandole come foriere di tentazioni “stataliste”. Cresce l’ansia di accreditamento agli occhi delle élite vincenti della globalizzazione, forse credendole ancora portatrici e creatrici di un consenso ampio e trasversale che invece si sta rapidamente sbriciolando. La comunicazione politica si sostanzia in una diuturna “pedagogia delle masse” a favore delle forme di vita economica, sociale, e persino personale (un esempio su tutti: l’addio al mito del posto fisso come scelta di vita) più consone per stare al passo coi tempi del mercatismo senza confini. Non chiedere cosa il Paese può fare per te, ma cosa tu puoi fare per te stesso nel gran bazar del Mondo. La tensione crescente tra gli effetti collaterali e la riduzione dei sistemi di welfare di tipo europeo viene subìta come inevitabile, se non necessaria, e semmai viene tamponata con pannicelli e cerottini applicati qua e là sul corpo sociale. Come ha scritto il noto editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, una volta essere riformisti voleva dire riformare il capitalismo per renderlo socialmente equo e sostenibile, ora vuol dire riformare la società per renderla adatta al capitalismo globale.

Quando arriva il crollo mondiale del 2008, l’Occidente precipita nella peggior crisi non solo economica, ma soprattutto socio-politica dopo la Seconda guerra mondiale. L’area Socialdemocratica, protesa nello spazio Mercato/Mondo, subisce una seconda forza centrifuga in direzione opposta alla precedente. Lo spazio Stato/Nazione diventa il nuovo polo di attrazione di coloro che si sentono “scartati”, come li chiama Papa Francesco, sia dalla fase espansiva che da quella recessiva della globalizzazione. Questa ondata migratoria socio-politica, imbrigliata da Obama e poi cavalcata da Trump negli Stati Uniti, in Europa, dove non c’è spazio nemmeno per le basilari politiche keynesiane di Obama, trova naturale rifugio nella cosiddetta Destra sociale. Sorge spontaneo chiedersi perché la Destra sociale piuttosto che un ritorno nello spazio della Sinistra, nemmeno quella classica (ogni riferimento al risultato elettorale della Sinistra a sinistra del Pd non è casuale). Mentre approfondite analisi sono ancora in corso, si possono avanzare alcune ipotesi, e forse una lezione.

Prima ipotesi: non conta solo la domanda di protezione dalla crisi economica e dagli eccessi del mercatismo (come la delocalizzazione selvaggia o il dumping sociale), ma anche dal disordine internazionale: guerre, terrorismo, immigrati. La Sinistra appare compromessa col mondialismo, l’europeismo, il pacifismo, la tolleranza e l’accoglienza.

Seconda ipotesi: conta anche la crisi d’identità del cittadino medio occidentale, bianco, nativo, cristiano, eterosessuale. Anche su questo fronte la Sinistra non può assecondare e competere per ragioni identitarie. La Destra sociale offre il pacchetto completo.

Terza ipotesi: non basta più il (ritorno al) Welfare State “difensivo”. Nell’analisi economica delle disuguaglianze si distingue tra la distribuzione del reddito dovuta alle forze di mercato (pre-distribution) e quella che risulta dopo le varie misure redistributive ed equitative. Il welfare “difensivo” è quello che opera soltanto nel secondo momento. Il problema è che se la pre-distribution peggiora fortemente, com’è avvenuto, il welfare difensivo diventa un Fatica di Sisifo insostenibile. Soprattutto se si vuol mantenere l’equilibrio finanziario del sistema. Su questo fronte, il vantaggio comparato (elettorale) della Destra sociale è che propone uno Stato che tassa poco e spende molto, mentre la Sinistra vuol mantenere un profilo di gestore responsabile della finanza pubblica, e quindi per spendere molto deve tassare molto. Da questo punto di vista, il welfare difensivo appare il limite programmatico anche di Liberi e Uguali.

Una lezione: occorrono le riforme strutturali. Ma non (solo) quelle che predica Bruxelles; anche, e soprattutto, quelle che ricorda Munchau. Sempre in tema di ricordi, Andrea Boitani, nel suo bel libro Sette luoghi comuni sull’economia (Laterza, 2017), rievoca come “le riforme di struttura” fossero uno punto cardinale immancabile nei programmi del Partito comunista italiano. In effetti, uno dei fattori di successo della Socialdemocrazia fu non solo il controllo della post-distribution ma anche quello della pre-distribution, mediante la creazione di istituzioni pubbliche e delle parti sociali per la regolazione e auto-regolazione dei processi di mercato. E in fondo, il Trumpismo, a modo suo, è un messaggio di rottura strutturale, da destra, dell’ordine costituito globale. Nessuna delle Sinistre italiane sembra avere più niente da dire su questo fronte.

Viceversa, la nuova frontiera del pensiero della Sinistra occidentale, ai più alti livelli, è che il capitalismo globale necessita, urgentemente, riforme di struttura, se vogliamo scongiurare che, come avvenne tra le due guerre mondiali, anziché creare e diffondere benessere lo distrugga, e con esso la società aperta e democratica come l’abbiamo conosciuta e la desideriamo. L’agenda spazia dalle nuove forme di controllo e di governo delle imprese e delle relazioni industriali, alla ridefinizione dei diritti di proprietà (intellettuale) e partecipazione rispetto ai processi d’innovazione tecnologica; dalla regolazione dei sistemi finanziari in funzione dei loro rapporti con l’industria e i risparmiatori, al ribilanciamento della mobilità internazionale dei fattori produttivi; dal tema dei confini della potestà legislativa e impositiva rispetto alle grandi entità economico-finanziarie transnazionali, alla revisione dei trattati commerciali in chiave di equità economica e sociale, e molto ancora (cfr. Franzini e Vona). Il compito è estremamente difficile, ma le idee non mancano, posto che chi deve ascoltare, capire e provvedere sia pronto a farlo.

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