La “Fusione dei Comuni” e la “Questione Meridionale”

Massimo Calise ricostruisce le caratteristiche e gli obiettivi del Decreto Legislativo sulla “Fusione dei Comuni” e fa il punto sul suo stato di attuazione. L’osservazione che il numero dei Comuni si è ridotto grazie alla fusione di quelli più piccoli esclusivamente nelle Regioni del Centro-Nord, fornisce a Calise lo spunto per sottolineare il ritardo del Mezzogiorno nel cogliere questa che può essere un’opportunità e ne individua le cause nell’ostacolo che il carattere “estrattivo” della politica nel Mezzogiorno pone al cambiamento.

Tutti a guardare verso Roma, sembra che il destino del sud dipenda esclusivamente dal Governo nazionale. Come non condividere la critica che il Prof. Mariano D’Antonio rivolge alla classe dirigente meridionale “Mai che venisse in mente […] che la sorte dei nostri territori dipende soprattutto dalle classi dirigenti locali, in primo luogo dai politici e poi dagli esponenti di primo piano degli imprenditori, dei ceti professionali, insomma da quanti sono ai vertici di istituzioni pubbliche e di associazioni private”? (“Per un nuovo Mezzogiorno”, La Repubblica,  2 settembre 2015).

Della inadeguatezza della classe dirigente locale qui cercherò di fornire un’ulteriore prova nella speranza, mai sopita, di stimolare la parte di essa più sensibile ai destini del nostro Paese e del Meridione in particolare.

Il nostro ordinamento giuridico prevede l’istituto della “Fusione dei Comuni”, che consiste nell’accorpamento di più Comuni preesistenti per istituire un Comune unico. Tale istituto  rappresenta, da un lato, un’ulteriore prova che la questione meridionale persiste e, dall’altro, un’opportunità che, se colta, può contribuire a mitigarne gli effetti.

Il quadro normativo di riferimento prende le mosse dall’articolo 133 della Costituzione che al secondo comma recita “La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”.

La Fusione dei Comuni è prevista dall’articolo 15 del Decreto Legislativo 267/2000 TUEL, “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, ed è ulteriormente regolamentata dalla legge 56 del 2014 (detta Del Rio); tali norme prevedono, tra l’altro, per i Comuni nati dalle fusioni, finanziamenti statali decennali aggiuntivi ed altre agevolazioni come, ad esempio, deroghe al Patto di stabilità.

Alle Regioni, nel rispetto del dettato costituzionale, spetta il compito di regolare per legge le modalità d’attuazione delle Fusioni; il referendum fra le popolazioni interessate è tassativo. Le Regioni hanno emanato proprie leggi specifiche, qualcuna si è limitata a regolamentare, altre hanno assunto un ruolo di stimolo e hanno inteso incentivare e premiare le Fusioni con ulteriori proprie agevolazioni e finanziamenti.

Numerosi sono i vantaggi per il Comune unico frutto della fusione. Ecco  i principali:

  • maggiori economie di scala;
  • riduzione dei costi degli organismi rappresentativi (sindaco, assessori e consiglieri);
  • possibilità di razionalizzare il funzionamento degli uffici e dei servizi comunali;
  • un decennale periodo di maggiori entrate dovute ai finanziamenti aggiuntivi sia statali e sia, dove previsti, regionali;
  • un maggiore grado di supporto allo sviluppo e all’integrazione di politiche di qualificazione del territorio nell’ambito di una diversa capacità progettuale e propositiva dell’ente comunale;
  • un’aumentata possibilità di realizzare servizi per i cittadini creando, al tempo stesso, nuove opportunità di lavoro (esempio: trasporti urbani, assistenza domiciliare, …);
  • maggior “peso” nei rapporti con altre Istituzioni (Regione, Governo, …).

Nella Fusione dei Comuni molti politici ed amministratori hanno visto la possibilità di affrontare positivamente la crisi generale e la crescente difficoltà degli enti locali.

Il vantaggio che ne deriva non riguarda solo i Comuni ma l’intero sistema statale; ad esempio,  le Regioni e lo Stato dovranno relazionarsi con un numero minore di enti.

“8000 Comuni in Italia sono troppi. Oltre a una riduzione della spesa bisogna pensare anche a una riduzione dei Comuni”. Lo affermava, in audizione in Commissione di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Carlo Cottarelli dal punto di vista di (ora ex) commissario alla spending review (Agenzia di Stampa Italpress, 15 ottobre 2014). È opinione diffusa che comuni piccoli non possano assolvere adeguatamente ai loro compiti; lo sancisce anche il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali che recita: “salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti”. Insomma la soglia minima è  10.000 abitanti.

Viceversa l’Italia è estremamente frammentata come risulta da un’elaborazione dei dati ISTAT relativi alla popolazione residente al 1 gennaio 2015.  Gli 8.047 comuni italiani hanno, in media, solo 7.555 abitanti. Di essi l’85% ha meno di 10.000 abitanti e ben il 25% ne ha meno di 1000! Nel Mezzogiorno: le percentuali sono rispettivamente 82%  e 19%.

Molti Comuni  hanno ritenuto che tale situazione non fosse più accettabile; incentivati dai provvedimenti citati, spinti dalla crisi e da una riduzione dei trasferimenti statali a loro destinati, hanno aderito al semplice principio di buon senso “l’unione fa la forza”.

È recente la notizia che dal 1° gennaio del prossimo anno saranno istituiti 23 nuovi Comuni frutto della fusione dei complessivi 63 preesistenti. In due anni, dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2016, si saranno creati 54 nuovi Comuni in sostituzione dei 137 precedenti, con una diminuzione dei Comuni italiani di 83 unità. I nuovi enti sono così ripartiti fra le Regioni interessate: Emilia-Romagna (8), Friuli Venezia Giulia (2), Lombardia (11), Marche (2), Piemonte (2), Toscana (8), Trentino-Alto Adige (20), Veneto (1) (elaborazione su dati: www.Tuttitalia.it).

È molto significativo che tutto ciò stia avvenendo solo nel Centro-nord del Paese. Si tratta, come ho detto all’inizio, di un ulteriore segnale che la questione meridionale è, ahinoi, viva. Se tali iniziative al Sud non sono discusse ed attuate non può essere frutto di una “distrazione”. È soprattutto la qualità della classe politica meridionale che, pur in un panorama nazionale non esaltante, riesce a distinguersi per la sua colpevole inadeguatezza.

Qui viene immediato il riferimento al saggio di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro”. È la classe dirigente meridionale, quindi non solo quella politica, che gestisce le istituzioni locali in modo “estrattivo” ossia finalizzato ad estrarre rendite e consenso a proprio favore.

Non è necessario  elencare i numerosi indicatori, anche statistici, che continuano ad attestare che il Meridione, più di altri, necessiterebbe di un recupero in termini di sviluppo socio-economico. Quest’ultimo ha, a mio avviso, un presupposto fondamentale nel riassetto territoriale. La frammentazione del territorio contribuisce al permanere di uno stato di arretratezza.

È intuitivo che un Comune con poche migliaia di abitanti, tanto più se circondato, come è frequentemente il caso, da altri di dimensione analoga non possa assicurare ai propri cittadini servizi adeguati e alcuna prospettiva di sviluppo. Ad esempio un centinaio di Comuni, nella bellissima terra del Cilento, hanno, in media, meno di 3000 abitanti!

La duratura crisi che, al Sud si sovrappone all’irrisolta questione meridionale, imporrebbe discontinuità: superare la naturale resistenza al cambiamento, abbandonare anacronistici localismi. Ma un’interessata resistenza dei notabili locali, diffidenti verso tutto ciò che minaccia il consenso di cui godono,  non basta a giustificare l’immobilismo. È diffuso un malinteso ed arcaico senso dell’identità, un atteggiamento di chiusura teso alla difesa del proprio cortile. Le forze nuove, i giovani che potrebbero contrastare questa mentalità emigrano. La mancanza di opportunità lavorative provoca un’emorragia di risorse umane che aggrava la situazione socio-economica in una spirale perversa.

La Fusione dei Comuni è una possibile e concreta riforma strutturale che parte dai territori. Una sfida soprattutto culturale. Non è un caso che trovi maggiori adesioni nelle Regioni dove le popolazioni hanno una forte cultura solidaristica e cooperativistica.

Non dobbiamo nasconderci le difficoltà ed è facile prevedere l’ostruzionismo di chi vede danneggiati i suoi interessi personali. Già sarebbe positivo che i cittadini, adeguatamente informati, ne discutessero.

Forse occorre anche che il Governo  si impegni su questo fronte. Le leggi non bastano; per superare inerzie e resistenze  sono necessarie anche iniziative di informazione e sensibilizzazione. Ancora un richiamo alle parole di Emanuele Felice “la distinzione da porre non è fra meridionali e settentrionali ma fra quanti, dentro il Mezzogiorno, hanno goduto di rendite e privilegi e quanti invece si sono ritrovati vittime di quell’assetto estrattivo, spinti a emigrare o costretti a adattarvisi” (Menabò di Etica ed Economia n. 32). Sta a noi meridionali, alla classe dirigente locale, scuotersi, ravvivare l’appannato senso  civico e, concretamente, afferrare tutte le opportunità che possono migliorare la situazione dei nostri territori. Non è semplice ma è obbligatorio tentare.

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