La fine del capitalismo secondo Rifkin

Stefania Jaconis esamina l’ultimo libro di Jeremy Rifkin la cui tesi centrale è che le innovazioni in atto nel settore dei servizi e delle infrastrutture permettono di produrre con costi marginali prossimi allo zero, convertendo quindi l’universo del capitalismo in un nuovo ‘mondo dell’abbondanza’. Jaconis, nel suo esame critico, si sofferma sulle implicazioni che, a parere di Rifkin, questi sviluppi avrebbero sui rapporti sociali e in particolare sulle possibilità di cooperazione grazie anche all’affermarsi della figura dei produttori-consumatori .

Jeremy Rifkin ha colpito ancora. Dopo aver dimostrato che la nostra società è retta dalle leggi della termodinamica (di cui la seconda porta dritto all’entropia), che la civiltà delle macchine conduce alla fine del lavoro così come lo conosciamo, che lo sviluppo delle energie rinnovabili, la decentralizzazione della produzione e la diffusione di internet sono all’origine della ‘terza rivoluzione industriale’, nel suo ultimo lavoro, La società a costo marginale zero, Rifkin ci accompagna verso la meta finale, il grande salto di paradigma del capitalismo di mercato.

Il passaggio è arduo, e il punto d’approdo per molti aspetti dissimile sia da quello di molte futurologie correnti che dagli elaborati dei pensatori sociali degli ultimi secoli. Quindi, questo libro merita di sicuro una lettura e una riflessione non superficiali, anche e forse soprattutto da parte degli economisti, a qualsiasi scuola o tendenza appartengano. Vediamo dunque di procedere con ordine.

Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, sostiene Rifkin, la progressiva concentrazione delle imprese a integrazione verticale, che ha caratterizzato la seconda rivoluzione industriale nel segno della riduzione dei costi marginali e delle economie di scala, non si ripropone con la terza rivoluzione, che presenta matrici comunicazione-energia di natura essenzialmente nuova. Alla base di questa transizione stanno infatti le reti, che sono a integrazione ‘laterale’ e che permettono di abbattere in misura determinante sia i costi di produzione che quelli di distribuzione. Si arriva quindi a definire le caratteristiche di questo mondo postcapitalistico, retto da un’economia in cui “i costi marginali per la produzione, l’archiviazione e la condivisione di comunicazioni ed energia, nonché quelli di un numero sempre maggiore di prodotti e servizi, tendono allo zero” (p.91 ediz. italiana).Con buona pace di Hotelling, e di tutto il dibattito sulla fissazione dei prezzi dei servizi e delle infrastrutture, la tendenza dei costi marginali ad azzerarsi rende impossibile applicare in un mercato capitalistico la regola considerata indispensabile per l’efficienza e cioè la fissazione del prezzo al livello del costo marginale.

É evidente che la questione non è di poco conto, in quanto riguarda uno dei tempi centrali dell’intervento pubblico nell’economia. Come sappiamo, nei servizi una parte della domanda globale è disposta a pagare per il costo addizionale ad essa imputabile, contribuendo così alla copertura dei costi fissi; d’altro canto, non si crede più che l’efficienza si ottenga con la vendita dei servizi al costo marginale. Ma, appunto, cosa accade quando questo costo tende allo zero, come già vediamo in parte dei settori dell’intrattenimento, della comunicazione e dell’energia?

Siamo nel pieno del paradosso notato anni fa da Summers e DeLong, i quali fecero osservare che “se fossero distribuiti al costo marginale di produzione, cioè zero, i prodotti informatici non potrebbero essere né ideati né fabbricati dalle realtà imprenditoriali, che utilizzano i ricavi ottenuti dalla vendita ai consumatori per coprire i costi fissi di produzione” (p.13). Rifkin è contrario alla conclusione raggiunta dai due economisti statunitensi – non erogare sussidi pubblici a copertura dei costi, ma nel breve periodo promuovere invece forme di monopolio naturale – e risolve il problema (in modo elegantemente nebuloso) proponendo il succitato salto di paradigma del capitalismo.

Nel nuovo universo che si sta delineando nella civiltà occidentale, dove non vige più il principio della scarsità delle risorse, personaggi centrali sono così i ‘prosumers’, consumatori diventati produttori di quanto loro abbisogna, si tratti di un libro o di una qualche energia alternativa, i quali agiscono in un regime proprietario che non è né pubblico né privato, ma che fa riferimento a titoli di proprietà gestiti collettivamente da gruppi sociali. É un sistema che ha una sua propria efficienza sia allocativa che distributiva e che permette di realizzare un benessere sociale non ben definito quanto ai criteri di raggiungimento, ma che in ogni caso poggia sull’offerta di tutta una serie di beni e servizi che non sono forniti né dal mercato né dal governo.

Un economista non può fare a meno di notare che quella enunciata da Rifkin è una sorta di economia del benessere che non contiene una teoria delle scelte sociali. Infatti il sistema proposto, valido per quei settori non-profit dove forza dominante non è né il mercato né lo stato, è basato fondamentalmente sull’agire di produttori ‘collaborativi’, i quali si preoccupano del benessere dei consumatori dei beni da loro offerti, in un quadro di vincoli sociali costruiti sulla fiducia. Anche il problema del finanziamento dell’attività produttiva viene risolto in modo alternativo, ad esempio con forme di prestiti sociali o di crowdfunding. (Ma Rifkin non ci dice nulla sul finanziamento di quei settori che agiscono in regime di monopolio naturale).

In questa economia postcapitalistica, né statale né di mercato, operano quindi agenti che non sono smithianamente mossi da interessi individuali o personali, ma che nel gestire beni collettivi compiono spontaneamente scelte dettate dalle esigenze del benessere sociale.

Siamo, in altri termini, al rovesciamento della ‘tragedia dei Commons’, e non a caso quello che Rifkin propone è un modello di gestione del capitale sociale ispirato alle argomentazioni che Elinor Ostrom e Carol Rose hanno avanzato in risposta al noto articolo di Hardin.

Il futuro, secondo Rifkin, ci riserva cosi l’ascesa del ‘Commons collaborativo’, un modello di organizzazione composto da milioni di istituzioni autogestite, che vanno dai circoli sportivi alle cooperative di produzione e di consumo, fino alle associazioni condominiali. Tutte insieme queste istituzioni danno vita a una nuova società civile, che fa perno su principi di tipo collaborativo e solidaristico, e fonda un’economia che solo riduttivamente si può definire ‘sociale’. Si tratta infatti di mettere in piedi nuovi modelli di impresa, basati su imprenditori che massimizzano non si sa bene che cosa, mossi come sono da principi di collaborazione.

C’è forse a questo punto da notare l’eccessivo ottimismo di Rifkin, soprattutto per quanto riguarda le speranze riposte sulle cooperative di produzione. Come sappiamo, nella letteratura esistono una serie di contributi sul tema (che Rifkin sembra ignorare): basti citare quelli di Vanek, Ward e Meade, che in modi diversi evidenziano le difficoltà, sia per quanto riguarda il finanziamento che i livelli di investimento, proprie di questo modello gestionale, soprattutto nel caso in cui l’impresa di tipo cooperativo operi in un ambiente ad alta intensità capitalistica. (Incidentalmente, proprio nel nostro paese la recente riforma delle banche popolari cooperative è stata motivata anche con il fatto che la forma giuridica spesso impediva loro di reperire tempestivamente il capitale necessario a fronteggiare il livello di rischio assunto).

Nell’iter visionario del Nostro il settore delle infrastrutture è visto come l’elemento motore della crescita, la sede di una rivoluzione tecnologica che poggia sulla combinazione tra nuovi mezzi di comunicazione e nuovi regimi energetici. L’approccio analitico è contemporaneamente sia micro che macro, e travalica gloriosamente i tradizionali spartiacque accademici. Va qui detto che, nel bene e nel male, tutto il libro ha ben poco di accademico, e rappresenta, in un certo senso, un pamphlet sociale costruito su una originale teoria dello sviluppo economico. Uno sviluppo che, come abbiamo visto, si concluderà con la fine dell’era capitalistica, ma anche con la fine del ‘materialismo’ (inteso, quest’ultimo, nel senso corrente più che in quello filosofico del termine).

Come in altri lavori di Rifkin i cambiamenti che avvengono nei paradigmi tecnologici sono le matrici della sua ‘visione’ del nostro prossimo futuro.. A differenza che in passato, però, il cambiamento che caratterizza la società ‘a costo marginale zero’, basato in gran parte su internet, viene colto nei suoi risvolti positivi, e non solo in fenomeni come la riduzione delle opportunità di lavoro (che il Nostro ha il merito di spiegare senza far riferimento al ciclo economico). Non a caso, nei settori che riescono ad azzerare i costi marginali si naviga nel mare dell’abbondanza, e se questo è il caso, tutti i dettati della teoria economica dominante possono venire gettati nel mare medesimo.

In conclusione, una domanda sorge (quasi) spontanea: occorre forse essere non-economisti, o non economisti accademici, per scrivere opere ‘visionarie?

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