La direttiva sui salari minimi e la copertura dei Ccnl in Italia. Una stima sulla base dei dati Inapp

Francesca Bergamante, Marco Centra e Manuel Marocco, in un contributo diviso in due parti, affrontano il tema del salario minimo e della copertura della contrattazione collettiva. In questa prima parte, partendo dalla Direttiva europea sui salari minimi e utilizzando la banca dati dell’Indagine Inapp-Ril condotta su un campione di 30.000 imprese non agricole, presentano una stima del tasso di copertura dei CCNL in Italia che risulta elevato per il complesso dei lavoratori dipendenti, ma che si riduce considerando anche altre tipologie contrattuali.

1. Il salario minimo costituisce una pietra angolare del modello sociale europeo. La scelta di affidare il compito di determinarlo alla Legge, o piuttosto alla contrattazione collettiva, è in linea con le tradizioni dei sistemi di relazioni industriali dei singoli paesi. D’altro canto, il cambiamento delle dimensioni della struttura della contrattazione collettiva può indurre a sovvertire queste tradizioni: l’esempio è la Germania che nel 2015 ha deciso di introdurre un salario minimo legale (SML), a fronte della diminuzione della copertura della contrattazione collettiva settoriale, fiaccata dal decentramento contrattuale e dalle cd. clausole di opting out (Treu, 2019).

In Italia l’autorità salariale è la contrattazione collettiva e una legislazione sui minimi non si è storicamente affermata. Fattori esogeni ed endogeni al sistema di relazioni industriali inducono a riflettere sulla tenuta di un sistema di wage setting del tutto anomico come quello italiano. Senza qui soffermarci su quelli esogeni (come ad esempio il diffondersi dei working poor, del lavoro discontinuo e del part-time involontario), vanno considerate le tendenze in atto del sistema di contrattazione collettiva. Preoccupa in particolare la recente proliferazione dei Ccnl (Inps, 2021) indotta dalla frammentazione della rappresentanza sindacale e datoriale. A tale ultimo proposito alcuni nostri studi (Bergamante, Marocco, in Quaderni di Rassegna Sindacale, 2017) mostrano che nel tempo è aumentata la quota di imprese che dichiarano di applicare spontaneamente un Ccnl, senza cioè aderire ad un’associazione imprenditoriale. L’aumento della schiera di datori di lavoro free riders può essere espressione di fenomeni di law shopping, i cd. contratti pirata, un sistema “fai da te” di opting out dalla contrattazione collettiva rappresentativa che rende incerto ed inefficiente il tradizionale meccanismo giurisprudenziale ex art. 36 Cost. È noto che, in virtù di una consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, in Italia i cd. minimi tabellari stabiliti nei Ccnl costituiscono già un “equivalente funzionale del salario minimo legale” (Leonardi, 2014), poiché, grazie a questo meccanismo, i minimi risultano applicabili anche a imprese e lavoratori che non hanno sottoscritto alcun contratto collettivo.

2. In questo quadro, è intervenuta la Commissione Europea con una proposta di Direttiva (d’ora innanzi Proposta). La Proposta segna comunque una sorta di cambiamento di paradigma nella strategia di crisis management (Müller et alii, 2021): se l’Europa aveva reagito alla crisi finanziaria e alle conseguenti ricadute occupazionali del 2008, suggerendo austerità e di “riesaminare gli accordi salariali e laddove necessario, il grado di accentramento del processo negoziale” (cd. Patto Euro Plus del 2011), nella attuale fase di crisi pandemica non solo non si abbandona l’idea di una politica europea volta ad assicurare il diritto “a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso” (cd. Pilastro Europeo dei diritti sociali, principio 6), ma nell’attuare tale principio si suggerisce a tutti Stati membri indistintamente – dotati o meno di salario minimo legale – di promuovere la contrattazione collettiva sui salari, estendendone la copertura e vale a dire ampliando la “percentuale di lavoratori a livello nazionale cui si applica un contratto collettivo” (Cfr. art. 3, n. 3 della Proposta). Peraltro, in questo articolo oggetto di attenzione non è la contrattazione collettiva di qualsiasi livello, ma specificatamente quella di “livello settoriale o intersettoriale”.

Secondo la Commissione UE infatti: “La contrattazione collettiva svolge un ruolo fondamentale nella garanzia di un salario minimo adeguato. I paesi caratterizzati da un’elevata copertura […] tendono ad avere, rispetto agli altri paesi, una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori disuguaglianze salariali e salari più elevati” (p. 3, Relazione Proposta). In sostanza, posto l’obiettivo fondamentale dell’adeguatezza dei salari minimi, il ruolo dell’intervento legale in materia è comunque strumentale rispetto ad un intervento adeguato della contrattazione salariale.

L’art. 4, 2° co., della Proposta, volto espressamente alla “Promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari“, prevede una soglia minimale di copertura – una sorta di campanello d’allarme – al di sotto della quale si ritiene opportuno un intervento diretto da parte dello Stato membro. Si dispone infatti che qualora, a livello nazionale, la quota di lavoratori coperti sia inferiore al 70% (ma sulla nozione di lavoratori considerata a questo fine vedi più avanti nel testo) lo Stato membro debba:

  • prevedere – per legge, previa consultazione con le parti sociali, o mediante accordo tripartito – un “quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva”;
  • definire un “piano d’azione” pubblico di promozione della stessa contrattazione, da notificare alla Commissione.

Come è stato sottolineato (Lucifora, 2020), in Italia come in Europa, non esistono dati attendibili sulla copertura della contrattazione collettiva, il che rende particolarmente difficile l’applicazione delle misure promozionali appena ricordate.

Si aggiunga che sul calcolo dei livelli di copertura incide anche la platea dei lavoratori considerati. Da questo punto di vista la Proposta, come altre recenti Direttive (2019/1152 e 2019/1158), presenta un campo di applicazione (Cfr. art. 2) che va oltre il lavoro tipico e tendenzialmente risulta esteso al c.d. lavoro atipico. La Proposta infatti (Cons. n. 17), analogamente a quanto previsto dalla Direttiva 2019/1152 (Cons. n. 8), richiama in proposito la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue sulla nozione di “lavoratore”, chiarendo che: “i lavoratori domestici, i lavoratori a chiamata, i lavoratori intermittenti, i lavoratori a voucher, i lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti” potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva se soddisfano i criteri indicati in quella giurisprudenza. Inoltre, esclusi i lavoratori effettivamente autonomi, la Proposta dovrebbe applicarsi al falso lavoro autonomo che ricorre “quando il lavoratore, al fine di evitare determinati obblighi giuridici o fiscali, è formalmente dichiarato come lavoratore autonomo pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro“. Da questo punto di vista, riguardando la questione dal punto di vista del diritto interno, e posta la valorizzazione che da tempo la Corte di Giustizia riconosce all’eterorganizzazione quale tratto distintivo essenziale della subordinazione (Ichino, 2014), è lecito interrogarsi se i “lavoratori etero-organizzati siano (…) “falsi” lavoratori autonomi” (Borelli, Orlandini, 2019) e, dunque, potenzialmente rientranti nel campo di applicazione della Proposta. In sostanza, per verificare la copertura della contrattazione collettiva, potrebbe essere opportuno considerare, anche solo a fini conoscitivi, una parte consistente del lavoro atipico o comunque diverso da quello dipendente, anche seguendo le indicazioni dell’Ocse sull’inclusione dei lavoratori della grey zone. Da questo ultimo punto di vista – a conferma del cambiamento di paradigma rinvenibile sottotraccia in Europa – si ricordi che è di questi giorni il lancio di una iniziativa della Commissione volta a consentire lo sviluppo della contrattazione collettiva anche per i lavoratori autonomi, allo stato incerta nella legittimazione perché potenzialmente in contrasto con la disciplina europea a tutela della concorrenza.

3. In Italia – ma non solo – il dibattito sembra in parte soffrire per la mancanza di solide basi di dati “ufficiali” sulla quota di lavoratori coperti dalla contrattazione multi-employer. A colmare questa carenza può contribuire l’Indagine Inapp-Ril (Rilevazione su imprese e lavoro) condotta su un campione di circa 30.000 imprese; la rilevazione è rappresentativa delle società di persone e di capitale attive in Italia nei settori privati, escluso il comprato agricolo, con una copertura di circa 11 milioni di lavoratori dipendenti e 11,8 milioni di addetti delle imprese. L’Indagine Ril consente di produrre stime sull’applicazione di uno o più contratti collettivi nazionali di categoria da parte delle imprese non agricole e, dunque, sulla copertura rispetto ai lavoratori. Va precisato che tali dati sono dunque frutto di una auto-dichiarazione del rispondente (l’impresa) e non prodotti da una fonte di natura amministrativa.

In considerazione della specificità del tessuto imprenditoriale italiano, che presenta una elevata incidenza di piccole e micro imprese, nelle analisi qui presentate sui livelli di copertura sono state considerate tutte le imprese con almeno un dipendente. Altre analisi, al contrario stimano la copertura considerando solo le aziende di una certa dimensione: ad esempio, i dati Ocse sulla copertura della contrattazione collettiva, nel caso dell’Italia escludono dal computo le imprese con meno di 10 dipendenti o anche le analisi Banca d’Italia che considerano solo le imprese con più di 20 addetti.

In relazione all’universo coperto dall’indagine Inapp-Ril (che ricordiamo esclude le imprese operanti nell’agricoltura), in Italia il 75,3% delle imprese attive private dichiara di applicare un Ccnl e la quota di copertura della contrattazione collettiva “dichiarata” è pari alll’88,9% del totale dei lavoratori dipendenti. In sostanza, il richiamato meccanismo giurisprudenziale di estensione soggettiva dei minimi tabellari sembra tenere, pur rimanendo non sciolta la questione della “qualità” – anche rappresentativa – dei contratti applicati.

Considerando poi il tasso di copertura “allargato”, vale a dire in relazione al totale degli addetti delle imprese ed includendo quindi anche le altre tipologie di lavoro diverse da quella dipendente, la copertura scende all’82,3%, comunque sopra il campanello d’allarme europeo, pari come detto al 70% dell’occupazione totale. Nella seconda parte di questo articolo che sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò verificheremo il grado di eterogeneità di questa copertura in relazione a caratteristiche quali i settori di attività, le dimensioni delle imprese, la collocazione territoriale.

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