La dimensione sociale nella strategia europea

Questo articolo del Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan rappresenta il testo del suo intervento al workshop sull’Europa Sociale organizzato da Etica e Economia, presso la Facoltà di Economia della Sapienza, il 17 giugno 2015. Padoan, commentando la presentazione di Vandenbroucke, sottolinea l’importanza dell’ introduzione della dimensione sociale nell’Unione europea e illustra le difficoltà che occorre superare per realizzarla, soffermandosi in particolare sul ruolo cruciale della costruzione della fiducia reciproca tra gli Stati membri

Grazie Fabrizio e innanzitutto un saluto ai colleghi e agli amici che ritrovo in questa aula, nella mia Facoltà. E, se me lo consentite, anche un mio personalissimo e piccolissimo omaggio a Luciano Barca, perché Luciano è stato probabilmente il primo mentore politico della mia esperienza, subito dopo la mia laurea, insieme anche ad altre persone, anche a Claudio De Vincenti che verrà qui tra poco. Con Luciano abbiamo iniziato, in un contesto politico evidentemente molto diverso, stiamo parlando della metà degli anni ’70, un esperimento culturale, ma soprattutto politico, di – oggi si chiamerebbe – “modernizzazione” di una certa cultura politica di sinistra. Non so se quell’esperimento abbia avuto successo o se abbia gettato semi di sviluppo. Però io la ricordo come una delle esperienze più intense, anche umane, della mia carriera – diciamo così – di intellettuale, se posso usare questo termine. Quindi il mio ringraziamento va a Luciano in modo molto affettuoso e mi fa molto piacere essere qui, proprio in questo giorno, in questa occasione.

Grazie molte, Frank, del tuo intervento. Quello che dirò sarà diretto a rafforzare i tuoi punti. Sono molto d’accordo con l’idea di fondo del Rapporto, e sarebbe interessante discutere i dettagli. In sintesi, il mio punto è che oggi, mentre discutiamo ufficialmente il futuro dell’Unione europea e dell’Europa – e questo è inevitabile per la questione “Brexit”, dico “Brexit” non “Grexit” – abbiamo bisogno di mettere in primo piano la dimensione sociale. E vorrei riflettere sul perché ne abbiamo bisogno, e cosa possiamo fare per introdurre una dimensione sociale. Si tratterebbe di un passo in una direzione diversa dalla questione che ha a lungo monopolizzato il dibattito in Europa e che può essere sintetizzata in “austerità sì, austerità no”.

Fortunatamente non siamo più in quel contesto di dibattito politico. Ce ne stiamo allontanando e – questo è quanto percepisco dal mio attuale punto di osservazione – stiamo mettendo gli investimenti, la crescita e i posti di lavoro al primo posto. Naturalmente la politica fiscale resta cruciale e, dato il mio incarico, direi che deve restare cruciale. Non possiamo fare a meno di sane politiche fiscali perché sono essenziali per raggiungere altri obiettivi. Ma perché occorre, adesso, mettere la dimensione sociale in primo piano? Perché l’Europa – con la sua intelaiatura istituzionale, Unione Monetaria inclusa – si trova a un bivio. Finalmente vediamo profilarsi la crescita economica ma è ancora debole e non sufficiente per incidere sulla disoccupazione. In effetti, la disoccupazione è ancora alta, la disuguaglianza è cresciuta, come ha mostrato Frank, e la fiducia nel progetto Europeo si sta indebolendo. Per questo in molti paesi, incluso il nostro, l’Europa rischia di essere percepita dai cittadini europei, nella loro vita quotidiana, come parte del problema e non della soluzione.

Quindi per tutti coloro che continuano credere che il progetto europeo è valido – e io sono tra questi – si tratta di una sfida molto impegnativa, probabilmente la più impegnativa da quando è stata introdotta la moneta unica. Dobbiamo quindi riconoscere che l’Europa ha davanti a sé due alternative. La prima è quella che chiamerei “cercare di cavarsela”: nei prossimi anni cerchiamo di avere un po’ di crescita, un po’ di ripresa nell’occupazione ma accettiamo l’idea che non possiamo fare molto di più. Questa idea non può essere condivisa. Il potenziale dell’Europa – così come di questo paese – è enorme e deve essere sfruttato. Questo è il compito della politica in Europa, almeno di quella parte della politica che crede che l’Europa debba raccogliere in pieno questa sfida e non affrontarla lateralmente. E’ per questo motivo che occorre mettere la dimensione sociale al centro del dibattito politico. Dobbiamo collegare la dimensione sociale alle prospettive di evoluzione della moneta unica.

La moneta unica, l’Unione Monetaria, è molto cambiata da quando è nata. La crisi scoppiata in Grecia nel 2010 ha indotto, come sappiamo, importanti cambiamenti istituzionali. Ora abbiamo un’Unione Bancaria che è un pilastro essenziale dell’Unione Monetaria. Stiamo andando verso una forma di mutualizzazione delle risorse. Questo è molto importante perché vuol dire che stiamo iniziando a accettare l’idea che, se siamo parte di un’Unione, allora sempre più risorse – finanziarie, culturali e politiche – dovrebbero essere meno nazionali e più europee. Occorre accettare il principio che la condivisione della risorse permette di meglio perseguire gli obiettivi comuni. Per affrontare la sfida europea è necessaria un’idea condivisa di mutualizzazione. Se non sbaglio, nella prima diapositiva Frank faceva uso di una nozione simile. Non voglio appropriarmi delle sue idee ma credo che, al di là dei termini, stiamo parlando della stessa cosa.

Nella mia valutazione questa è la lezione più importante che si può trarre dalla crisi che, almeno per quello che riguarda la Grecia, non è ancora superata. Tutto ciò si può tradurre in un insieme di raccomandazioni specifiche e tecniche. Un’ovvia raccomandazione, che è interna al dibattito sulla sorveglianza macroeconomica nell’Unione Monetaria, riguarda la nozione di simmetria. Naturalmente le accezioni di questo termine possono essere molteplici. Per i macroeconomisti, almeno per un macroeconomista come me, la simmetria è essenzialmente una spinta all’aggiustamento che grava uniformemente su tutti i paesi e non soltanto, come avviene oggi, su quelli più deboli che subiscono oltre alla pressione della politica anche quella dei mercati. Più esplicitamente: i paesi con surplus di parte corrente ampi e persistenti dovrebbero fare di più, contribuendo non soltanto al proprio aggiustamento ma anche all’evoluzione dell’Unione Monetaria. Questo possiamo farlo e sappiamo come farlo.

La vera questione, e questo è il mio secondo punto, è: perché è così difficile? Nella mia recente esperienza di Ministro sono giunto a una conclusione: il difetto di simmetria e di mutualizzazione che avvertiamo è largamente dovuto alla mancanza di fiducia reciproca. Siamo parte di un’impresa comune ma la fiducia di ciascuno negli altri è molto bassa. In molti casi quello che viene richiesto a un paese dagli altri non è semplicemente di rispettare una regola perché la regola è buona per quel paese. La richiesta è di rispettare quella regola per dare prova della propria affidabilità, per mostrare che ci si può fidare. E questo vale indipendentemente dal contenuto della regola. Sto esagerando un po’, ma non troppo. Di questo io sono sempre più convinto. Perciò, finché mancherà la fiducia sarà difficile andare verso la mutualizzazione e, naturalmente, verso la dimensione sociale. Di nuovo la mia prospettiva è parziale poiché, lavorando con i miei colleghi Ministri delle Finanze dobbiamo avere presenti soprattutto altre priorità. Non di meno, l’Unione Monetaria è una costruzione unica, l’Europa è una costruzione unica. Separare le varie dimensioni è un artificio: ciascuna interagisce con le altre e abbiamo bisogno di una visione complessiva.

Ma possiamo costruire la fiducia? Io penso di sì. Dobbiamo affrontare questo problema in modo esplicito: qualche volta lo affrontiamo senza riconoscerlo. Permettetemi di fare un altro esempio. Ho fatto riferimento all’Unione Bancaria che sembra essere una questione molto tecnica. Ma è anche una questione politica ed è un esempio poco valorizzato di mutualizzazione. Brevemente: il fondo di salvataggio è unico (Single Resolution Fund); si tratta di uno strumento che è finanziato da diversi paesi e che deve fornire protezione e risorse in caso di crisi bancarie. Una delle trattative più faticose in cui sono stato coinvolto con i miei colleghi ha riguardato l’entità, la tempistica e l’introduzione di una dimensione di reciprocità nella costruzione di un unico Fondo, che di per sé è poca cosa in termini di denaro. La questione veramente importante in quelle trattative riguardava non i contributi monetari al fondo ma l’accettazione dell’idea che il denaro di ognuno diventasse il denaro di tutti. E non subito, ma nel volgere di alcuni anni. Esempio di mancanza di reciproca fiducia. Ma nonostante tutto stiamo facendo progressi. A mio parere occorre una forte accelerazione nell’ampiezza, negli scopi e nella tempistica del processo di mutualizzazione. E dobbiamo farlo non per la mutualizzazione in se stessa ma perché la sfida sociale è la sfida più grande che l’Europa ha davanti. Dobbiamo renderci conto che in assenza di mutualizzazione e di uno sforzo comune non ci saranno soluzioni nazionali ai problemi dei paesi membri dell’Unione Europea.

Vi sono un paio di aree dove, in pratica, ciò può essere realizzato. Sottolineo “in pratica”, altrimenti le mie osservazioni resterebbero solo parole, insiemi di concetti. È importante, invece, la traduzione in azione. In una prospettiva di implementazione, occorre introdurre meccanismi il cui funzionamento richieda una qualche mutualità.

Il Governo italiano ha contribuito in modo informale, poiché questo è un processo informale, alla redazione del cosiddetto “Rapporto dei quattro Presidenti”, che è una nuova versione di un vecchio documento. In quel documento, abbiamo introdotto uno strumento, che Frank gentilmente menziona, di assicurazione sociale e contro la disoccupazione, il quale rappresenta un esempio di come una Unione Monetaria potrebbe beneficiare di un meccanismo di condivisione comune dei rischi.

Uno dei problemi con gli aggiustamenti – questo è un punto centrale nella teoria delle aree valutarie – è che quando si verifica uno shock e non si può fare affidamento sul tasso di cambio, o manca una politica monetaria, e la politica fiscale è esposta ad altri vincoli, allora tutto dipende dall’aggiustamento nei mercati e soprattutto, nel mercato del lavoro. Tale aggiustamento può essere molto doloroso ed è stato molto doloroso in molti casi della storia recente. Dunque, se riconosciamo che dobbiamo fare affidamento sull’aggiustamento nel mercato del lavoro, e riconosciamo che ciò è doloroso e, inoltre, riconosciamo che questo è ciò che si verifica nell’Unione Monetaria, allora a me sembra assolutamente evidente che abbiamo bisogno di una dimensione europea per facilitare quell’aggiustamento. Un meccanismo comune di assicurazione è la soluzione più ovvia.

Siamo ancora agli albori di questa riflessione nel dibattito politico. Dunque, ci vorrà tempo prima che questa idea possa generare risultati, ammesso che sia in grado di farlo. Ma lasciatemi ricordare un episodio che forse non è molto noto. In una delle riunioni dell’Ecofin sotto la Presidenza Italiana, l’anno scorso a Milano, abbiamo avuto una discussione informale, a porte chiuse, fra tutti i Ministri delle Finanze, su questo progetto, sull’idea, appunto, di un meccanismo di assicurazione contro la disoccupazione. La discussione è stata molto interessante, non scherzo, perché i singoli Ministri hanno contribuito, ovviamente da punti di vista diversi, all’idea. Molti, inclusi alcuni Ministri che non si sarebbe pensato fossero d’accordo, si dimostrarono favorevoli. Non faccio nomi. Semplicemente dico che erano favorevoli. La conclusione, da parte di quasi tutti, fu, ovviamente, che il contesto politico non era ancora maturo. Ma nel prossimo futuro i tempi potrebbero essere maturi.

Il secondo aspetto, e mi avvio a concludere, si muove esattamente nella direzione della tabella indicata da Frank: il ruolo del capitale umano. Il capitale umano, sia per la mia conoscenza sia per la mia esperienza, è l’investimento di gran lunga più importante per generare crescita, lavoro e una più uguale distribuzione della ricchezza. L’evidenza ce lo dice. Se qualcuno mi chiedesse quale fra le riforme strutturali generi i migliori risultati, la risposta è: l’investimento in capitale umano. Naturalmente, in questo caso l’orizzonte temporale è più lungo, copre quasi l’arco della vita.

Bisogna iniziare cambiando il funzionamento dei sistemi di istruzione, ma servono anche soldi, risorse. Occorrono entrambi gli aspetti. Bisogna generare migliore capitale umano con le risorse impiegate e introdurre il capitale umano nell’economia, per avere più crescita, più conoscenza, più innovazione e, dunque, più reddito e più benessere nel lungo periodo.

In ogni caso, come qualcuno ha detto, qualsiasi grande cambiamento inizia con un piccolo passo. Dunque, noi, e dicendo “noi” ora mi riferisco a questo paese, dobbiamo assolutamente colmare il grande gap, messo in evidenza dalle tabelle di Frank. L’Italia è indietro in diverse cose, ma certamente l’istruzione è una delle più importanti. Un simile investimento può e deve essere fatto considerando sia la dimensione italiana sia la dimensione europea. Gli stati-nazione hanno il dovere di destinare risorse all’investimento in capitale umano, hanno il dovere di ridisegnare le modalità di funzionamento del sistema dell’istruzione. L’Europa ha il dovere di contribuire. Io sono d’accordo con l’idea che le risorse che rientrano nel “Piano Juncker” devono includere l’investimento in capitale umano poiché questo è – anche in termini puramente economici – l’investimento più profittevole che si possa fare. E, certamente, ha un’influenza molto forte e crescente nel tempo sulla coesione, sulla crescita e sul benessere. Dunque, queste due dimensioni, una più nel breve termine, l’altra più nel lungo termine, dovrebbero rappresentare gli elementi centrali della strategia europea. Grazie molte.

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