La dimensione sociale nella costruzione europea

Claudio De Vincenti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel suo intervento al workshop sull’Europa Sociale organizzato da Etica ed Economia, presso la Facoltà di Economia della Sapienza, il 17 giugno 2015, che qui riproduciamo, ha ripreso i temi trattati da Frank Vandenbroucke nella sua relazione introduttiva, una sintesi della quale è stata pubblicata sul n. 25 del Menabò. De Vincenti sottolinea l’importanza di un ben disegnato sistema di welfare nella costruzione dell’Europa e le sfide da superare per realizzarlo.

Quando ero giovane, per me l’Europa era un ideale, era il futuro, era un’idea carica di futuro. Tra l’altro era molto coerente con il mio appartenere alla sinistra e col mio essere italiano. Sono due caratteristiche della sinistra italiana: l’europeismo e la convinzione sull’importanza della costruzione di un’Europa che superi gli egoismi nazionali. Temo che oggi per i giovani l’idea di Europa non sia la stessa. Ormai da anni osserviamo un’Europa ripiegata su se stessa, un’Europa che non ha il coraggio della scommessa sul futuro. E questo, per quelli della mia generazione, in qualche modo è quasi paradossale anche se non è strano. Non è strano perché la costruzione europea che ha avuto tanti punti di forza e che ha segnato tanti passi avanti non è riuscita a superare degli elementi di debolezza che ne stanno incrinando la tenuta. Certamente, tra questi elementi di debolezza, come dice il Rapporto dei Friends of Europe sull’Unequal Europe, c’è una insufficiente consapevolezza che la dimensione sociale della costruzione europea non è altra cosa, non è in contrasto con la costruzione economica dell’Unione Europea, e anzi, le analisi che vengono sviluppate dal Rapporto, approfondiscono e chiariscono la relazione complessa, non scontata, ma importante tra dimensione economica e dimensione sociale della costruzione europea. Intendiamoci: il welfare è stato ed è un valore e una caratteristica importantissima dei Paesi europei. Quando parliamo di social security, di education, di sanità, parliamo di cose che hanno valore umano, di per sé. E non voglio assolutamente sottovalutare questo aspetto. Però una cosa che appare in modo molto chiaro e forte dalle analisi del Rapporto è che non c’è solo questo nel welfare ma c’è una retroazione positiva sulle possibilità di crescita dell’economia e sulla stessa competitività internazionale. Naturalmente è una relazione problematica, complessa. Non dobbiamo nasconderci che esiste un problema di carico fiscale e, come alcuni sostengono, di un peso del welfare sull’economia. Ma, nel bilanciamento complessivo tra peso e servizi che il welfare offre, credo che il contributo positivo che la seconda gamba, ovvero i servizi, dà alla competitività attraverso le esternalità che crea, superi il peso. Valore quindi dei sistemi di welfare per la stessa crescita economica.

Sul versante dell’offerta molte analisi ormai ci fanno vedere come sia i servizi formativi, la scuola e così via, sia la sanità hanno implicazioni importanti sulla formazione e, scusate il termine grigiamente economicista, sulla manutenzione del capitale umano. Ma non è solo questo. Tutta la social security, dalle pensioni agli strumenti di ammortizzatori sociali, gioca un ruolo molto importante per dare al mercato stesso la possibilità di muoversi meglio, con una rete di sicurezza che consente di far funzionare meglio lo stesso mercato del lavoro.

E poi c’è il lato della domanda. Io sono convinto che molto c’era già nel Rapporto Delors di vent’anni fa che purtroppo abbiamo utilizzato poco in Europa. Sono convinto che i servizi di welfare possano costituire – soprattutto i nuovi servizi di prossimità – degli sbocchi di domanda trainanti, dove, al di là di come vogliamo definire ora il PIL o l’indicatore di benessere su cui ha lavorato la Commissione Stiglitz, Fitoussi, Giovannini, è PIL in più che viene prodotto, sono servizi, è un PIL che si chiama servizi.

Certo il welfare europeo, anche questo emerge bene dal Rapporto, ha bisogno di rinnovarsi per rispondere a nuove sfide che stanno davanti a noi. Le trasformazioni intervenute nell’economia, non solo negli ultimi sette anni di grave crisi ma anche perlomeno negli ultimi 20 e forse più anni, e di conseguenza nella società, hanno fatto emergere nuovi fattori di sofferenza in termini di precarietà del lavoro e di nuove povertà. Tutti nuovi carichi che vanno sulle famiglie che sono ormai sempre più comunità che ammortizzano gli elementi di frustrazione che vano dalle situazioni di precarietà e di povertà fino ai nuovi bisogni che sono legati, per esempio, all’invecchiamento della popolazione. Una tematica che non è solo un problema per il sistema pensionistico ma che in realtà evidenzia un nuovo mondo di bisogni che sono il frutto del fatto che i nostri stili di vita sono migliorati, che il nostro sistema sanitario è migliorato, che la nostra educazione è migliorata, che stiamo meglio, per cui campiamo di più, e campiamo più a lungo in salute.

In qualche modo il welfare è chiamato a rispondere a nuovi bisogni e a nuove sfide. E quindi ha bisogno di rinnovarsi. E qui c’è un problema di quantità di risorse. Da questo punto di vista io credo che sia giusto essere insoddisfatti delle scelte fatte, nella costruzione dell’ultimo bilancio dell’Unione europea. Però c’è anche un problema di modo in cui usiamo le risorse. C’è un problema di efficienza, c’è un problema di efficacia, cioè di capacità di rispondere ai bisogni, di stare sui bisogni. In questi anni abbiamo spesso sentito, come dicevo prima, accentuare il discorso sul peso del welfare, salvo adesso renderci conto fino in fondo che le società europee sono percosse da tensioni che chiedono invece di affrontare i nuovi bisogni.

La nuova Commissione europea sta mostrando una sensibilità maggiore a questi temi. Come Governo italiano abbiamo lavorato molto in questa direzione e permettetemi di rivendicare la nostra azione se oggi in Europa si è messo al centro del dibattito come sostenere la crescita, anche con le insufficienze con cui questo viene fatto in questo momento. Il piano Juncker, che andrà rafforzato sia in termini di risorse sia in termini di regole di funzionamento, è un primo segnale. La cosiddetta clausola di investimento, cioè la possibilità di considerare fuori del Patto di stabilità interno la quota di cofinanziamento nazionale ai programmi europei e ai fondi strutturali, è un altro segnale. Anche qui c’è da fare molto ancora: per esempio – e stiamo discutendo con la Commissione europea su questo punto – c’è da modificare regole, vincoli all’applicazione della clausola di investimento che rendono molto difficile ad alcuni Paesi, tra cui all’Italia, l’utilizzo della clausola stessa. Questa è una richiesta che noi facciamo con forza e su cui stiamo in questo momento intensificando il confronto con la Commissione europea. È stato anche un segnale importante il fatto che i fondi strutturali – poi qui c’è Ludovica Agrò che è a pieno impegnata su questo terreno – oggi sono aperti alla dimensione sociale e culturale. Ci sono una serie di programmi che stiamo mettendo in piedi, e che sono coerenti con le nuove indicazioni che vengono dalla Commissione europea, dove gli investimenti che facciamo sono anche investimenti sul terreno culturale e sociale. Ripeto, sono prime aperture, si tratta di utilizzare questi spiragli per allargarli al massimo.

Il Rapporto si sofferma su un tema di fondo. Qual è la relazione tra politiche che può fare l’Europa in materia sociale e politiche nazionali, e competenze nazionali. Tradizionalmente abbiamo sempre ragionato, anche nella strategia di Lisbona, assumendo che le competenze in materia di politiche sociali sono essenzialmente competenze nazionali. Nella strategia di Lisbona – qui c’è Raffaele [Tangorra] che ci ha lavorato a lungo sopra, anche come attuatore della strategia in Italia – un po’ a priori si è dato per scontato questo aspetto e si è puntato molto sul metodo aperto di coordinamento, l’Open Method of Coordination. Ormai da tempo siamo insoddisfatti di questo assetto, i risultati sono stati veramente molto limitati, la convergenza sul terreno sociale non c’è stata nella sostanza. Io credo che il fatto che i fondi strutturali abbiano cominciato ad aprirsi alla dimensione culturale e sociale è un primo segnale di consapevolezza che l’Europa può giocare un ruolo un po’ più attivo nel costruire la convergenza sociale. E allora, prendendo come spunto la lezione dei fondi strutturali, possiamo cominciare a muoverci sul fatto che l’intervento dell’Unione europea sul piano sociale sia più attivo e, diciamolo pure, condizionante nei confronti dei Paesi membri, usando strumenti come i fondi strutturali per quanto riguarda, per quanto fin qui ha riguardato soprattutto gli investimenti infrastrutturali.

Cosa significa questo? Significa che noi dobbiamo pensare che l’Unione europea deve cominciare a cofinanziare programmi sociali nei Paesi membri, programmi sociali che siano gestibili in termini di cofinanziamento, e quindi di premialità e sanzioni. Mettere a disposizione risorse comunitarie come incentivo e sostegno, ma anche però sanzionare comportamenti che non siano in grado di usare quei fondi. Allora abbiamo bisogno di obiettivi verificabili, osservabili, che consentano ex post la verifica. Consentano ex post, esattamente come facciamo con i fondi strutturali, la sanzione. Non è facile sul terreno sociale pensare obiettivi di questo genere, però non è impossibile. E comunque può far parte della dimensione europea. Con Raffaele ci abbiamo lavorato in passato. Solo per fare un esempio – magari poi voi ne saprete molto più di me e quindi l’esempio poi me lo distruggete, ma io ci provo, per dare un’idea -, nel settore dell’assistenza all’infanzia, definire un obiettivo verificabile, osservabile e quindi verificabile, che può essere il numero di posti nido per bambini, differenziarlo a seconda delle Regioni (non possiamo dare lo stesso obiettivo in Calabria o in Toscana), cofinanziare il raggiungimento dell’obiettivo, i programmi di raggiungimento dell’obiettivo, e poi verificarli. Non so se l’esempio calzi bene. Il mio problema è solo dire: troviamo degli indicatori su cui ha senso incentivo e sanzione. E su quelli mettiamo risorse europee che portino verso la convergenza, che facciano dell’Unione europea un soggetto attivo, protagonista delle politiche sociali, non solo un soggetto di monitoraggio e confronto. Poi naturalmente molto sta agli Stati nazionali, molto sta alla capacità degli Stati nazionali di rinnovare il welfare nella direzione dell’efficienza e dell’efficacia e, la dico con una espressione molto sintetica, come a me viene da dirla, un welfare che risponde alle sfide che abbiamo davanti, ai nuovi bisogni.

In sintesi, un welfare che promuove la capacità di autodeterminazione dei cittadini di essere protagonisti della propria vita, delle proprie scelte. Per fare questo abbiamo bisogno anche di spazi di bilancio, abbiamo bisogno di risorse. E qui credo che, ma il discorso si amplia molto, la sfida che dobbiamo affrontare in Europa è realmente quella di un nuovo ruolo del bilancio europeo. Dobbiamo essere insoddisfatti delle scelte di bilancio europeo fatte, se non ricordo male, due anni fa e prepararci a scelte diverse: preparare il terreno culturale e la convinzione di politica economica che porti a scelte diverse sul bilancio europeo e anche sul coordinamento delle politiche di bilancio nazionali. Ma questo ci porta su un terreno che è il punto di riferimento ovvero la capacità di costruire una politica economica realmente sovranazionale, che faccia veramente da perno per l’insieme dell’Unione europea, e nella quale la finalizzazione sociale della politica economica, e torno qui a Etica ed Economia e all’insegnamento di Luciano, è quello che ci aiuta a far parlare la politica economica ai cittadini europei. E quindi a far di nuovo vivere ai giovani di oggi quello che vivevo io tanti anni fa: l’Europa come la speranza, come il futuro in cui riconoscersi. Grazie.

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