La desertificazione del Mezzogiorno

Enrica Morlicchio sostiene che le difficoltà socio-economiche che oggi sta vivendo il Mezzogiorno rappresentano l’epicentro di fenomeni più generali, che investono tutto il paese. Secondo Morlicchio, però, nel Mezzogiorno le difficoltà hanno raggiunto un livello tale da far prevedere un salto qualitativo, che può determinare su scala più ampia fenomeni di collasso della struttura sociale e di disgregazione sociale molto simili a quelli verificatisi nell’”iperghetto” statunitense degli anni Settanta.

Questo intervento si articola in due parti. Nella prima parte mostreremo come il Mezzogiorno d’Italia rappresenta l’epicentro di fenomeni che riguardano in paese nella sua interezza. Le differenze riscontrate tra le due aree del paese – Nord e Sud – sono di livello, ma i dispositivi all’opera, quali la familizzazione delle povertà e il carattere gerontocratico e patriacale del mercato del lavoro per fare solo alcuni esempi, sono del tutto uguali. Nella seconda parte argomenteremo che quando questo scarto supera una certa soglia, come sta accadendo nel Mezzogiorno, esso diventa anche di tipo qualitativo e può produrre conseguenze importanti sul piano della coesione sociale.

Partiamo dai dati sulla diffusione della povertà. Come è noto nel Mezzogiorno vivono solo un terzo delle famiglie italiane ma si concentra oltre la metà di quelle con consumi al di sotto della media italiana resa equivalente in base alla dimensione familiare, famiglie cioè in condizione di povertà relativa. La tabella 1 ci consente di fare due ulteriori considerazioni. In primo luogo, nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà (cioè la diffusione della povertà all’interno di quella specifica tipologia familiare) è sistematicamente più elevata sia rispetto al Centro-Nord che alla media italiana sia che si tratti di coppie con figli, famiglie monogenitore o anziani che vivono soli o in coppia. In secondo luogo al Nord come al Sud sono sempre le famiglie con figli a presentare tassi di diffusione della povertà più alti. Ciò significa che non siamo in presenza di due distinti modelli di povertà, come si è talvolta sostenuto, caratterizzati rispettivamente al Sud da una maggiore esposizione al rischio di povertà di anziani e madri sole e al Nord da famiglie numerose con figli. ma di un modello con caratteristiche comuni in tutto il paese (e sostanzialmente simili a quelle di altri paesi del Mediterraneo) che si manifesta in maniera più accentuata nel Mezzogiorno a causa dell’intreccio di situazioni strutturali di svantaggio economico delle regioni interessate e di caratteristiche socio-demografiche delle famiglie residenti (queste ultime fortemente legate alle prime).

Veniamo ad un altro fenomeno, il sempre più accentuato carattere gerontografico del mercato del lavoro italiano, vale a dire la tendenza a preferire i lavoratori che nel dibattito sul mercato del lavoro degli anni Settanta si definivano “nel fiore dell’età” rispetto a quelli più giovani (15-34 anni). Ebbene anche il questo caso il confronto tra i grafici sottostanti, tratti dall’ultimo rapporto della Svimez, mostra come negli anni cosiddetti della crisi, vale a dire il decennio 2008-2017, si è verificato un forte calo dell’occupazione giovanile, sia nel Mezzogiorno che al Centro-Nord anzi con una più forte accentuazione proprio nelle aree più ricche del Paese dove si partiva da livelli più alti. La conseguenza è che il tasso di occupazione giovanile, che tiene conto anche dei contratti a termine, sia nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord è significativamente più basso di quello adulto (rispettivamente 28,5% e 48,1% a fronte del 52,5% e del 73,3 dei lavoratori con più di 34 anni), segnalando l’esistenza di un comune fattore di espulsione dei giovani dall’occupazione.

Il calo dell’occupazione giovanile è correlato ai processi di declino demografico e di intensificazione delle partenze verso l’estero che stanno riguardando anche in questo caso tutte le aree del paese. E come è noto si parte più dalle regioni centro-settentrionali che dal Mezzogiorno (nel periodo 2012-2017 più della metà della emigrazione netta registrata riguarda le prime con una media annua di 33mila partenze nette).

Potremmo andare avanti con molti altri esempi, tratti da studi e ricerche di sicura affidabilità. Ma i dati che abbiamo sin qui commentato sono già di per sé sufficienti per trarre alcune implicazioni di politica sociale e economica. La prima implicazione riguarda la necessità di giungere alla definizione di un quadro di riferimento comune, di standard condivisi e vincolanti, in tema di contrasto ai fenomeni richiamati. Tale necessità trova un suo valido fondamento nella natura stessa dei problemi che si intende affrontare che, come abbiamo visto, hanno carattere unitario, pur presentandosi con differenti livelli di intensità nelle diverse aree del Paese. L’orientamento verso una immunizzazione tendente a separare le regioni ricche, sottinteso virtuose, da quelle povere, quindi dissennate, equivale a pensare di poter guarire da una malattia tagliandosi un arto. In particolare per ciò che riguarda i fenomeni citati, la garanzia di condizioni di base perché una vita diventi “degna di essere vissuta”, per usare una espressione cara a Amartya Sen, è questione di rilevanza tale da non poter essere soltanto prospettata come possibilità legata alla ricchezza della regione di residenza, ma deve essere assicurata nel quadro di un sistema di cittadinanza nazionale che non riproduca diritti differenziati territorialmente. In tal caso infatti non sono in gioco servizi qualsiasi, ma tutte le prestazioni statali (a partire dalla sanità e dall’istruzione).

Nel caso si affermasse la concezione di un regionalismo differenziato, indifferente alle esigenze di perequazione territoriale e di generalizzazione di accettabili standard nella offerta di servizi, si perpetuerebbe quel ‘federalismo senza principi’ che la Commissione Onofri già nel 1997 additava come principale problema da affrontare nel quadro della riforma della spesa sociale. Cambiare la scala delle politiche sociali non è mai una un atto neutrale. Un conto è la sussidiarieta verticale, che avvicina i servizi ai cittadini, un altro conto è la disparità delle dotazioni di risorse che si verifica quando i meccanismi redistributivi previsti dalla nostra Costituzione sono assenti.

Abbiamo sin qui sottolineato come molti fenomeni che si attribuiscono al solo Mezzogiorno hanno in realtà un carattere nazionale. Ma è nel Mezzogiorno che la loro grandezza e persistenza nel tempo stanno determinando processi di desertificazione economica e sociale tali da far temere un collasso della struttura sociale molto simile a quello osservato negli anni Ottanta del secolo scorso da William Julius Wilson nelle inner cities di alcune città americane (Wilson W.J., The Truly Disadvantaged, The Inner City, The Underclass, and Public Policy, Chicago; University of Chicago press, 1987; Wilson W.J., When Work Disappears: the New World of Urban Poor, New York: Alfred A. Knopf, 1996). Per Wilson la perdita di posti di lavoro indotta dalla deindustrializzazione e dalla delocalizzazione industriale e la concentrazione della povertà oltre la soglia del 40% agiscono da fattore di accelerazione dei processi di impoverimento e di disgregazione sociale. Chi nasce in un “iperghetto”, vale a dire in un ghetto con una composizione sociale fortemente modificata rispetto al ghetto comunitario, ha minori probabilità di uscire dalla disoccupazione e dal contesto segregante del luogo in cui vive rispetto a chi, nato in un altro quartiere con una composizione sociale più eterogenea, può contare su un capitale sociale sia di tipo bridging, vale a dire su reti sociali che permettono il contatto tra ambienti socio-economici e culturali diversi sia di tipo linking cioè su relazioni con soggetti in posizione di potere all’interno di specifiche organizzazioni cruciali nel fornire accesso a servizi, occupazioni e risorse.

L’esperienza statunitense è istruttiva anche sotto un altro profilo. Lo spopolamento dei centri cittadini e la formazione di concentrazioni urbane di gruppi a basso reddito non sono stati soltanto il prodotto dalla deindustrializzazione. Molti programmi speciali contro la povertà, di edilizia abitativa, di formazione-lavoro, di sviluppo delle comunità sono stati cancellati o ridimensionati dalle amministrazioni repubblicane e democratiche alternatisi al governo dopo l’elezione di Ronald Reagan nel 1981 e il crollo della vecchia coalizione democratica che aveva dominato la politica del dopoguerra con i programmi di welfare avviati dal New Deal.

Questo intreccio perverso tra deindustrializzazione, declino delle politiche sociali, spopolamento e concentrazione di famiglie a basso reddito di cui hanno fatto esperienza le città americane può essere assunto come modello interpretativo anche in contesti in cui i livelli di segregazione su base etnica e razziale sono più modesti o pressoché inesistenti, come appunto quello meridionale. E’ lo stesso Wilson a sottolineare che il motore di tutto è la perdita di occasioni lavorative – appunto “When Work Disappears” – e il fatto che tutti quelli che possono abbandonare la nave del ghetto che affonda vanno via via determinando un processo di scrematura della struttura sociale lasciando sul campo solo chi non ha alternative. La segregazione razziale è dunque solo una aggravante della sindrome definita effetto di concentrazione che nel caso del Mezzogiorno può essere individuata piuttosto nel peso della criminalità organizzata.

A tutt’oggi nel Mezzogiorno, nonostante l’andamento opposto di povertà e disoccupazione descritto nella figura 3, non si sono ancora manifestati effetti di desertificazione e disgregazione sociale di portata simile a quelli dell’iperghetto in parte grazie al fatto che negli interstizi tra il retrenchment dello stato sociale e il collasso delle reti familiari depauperate dalla emigrazione dei soggetti più provveduti e dotati di risorse sono spuntate come fiori nel deserto, sia nella polpa spolpata delle aree urbane che nelle tradizionali zone dell’osso, interessanti iniziative di innovazione sociale, di specializzazione produttiva e recupero di tradizioni artigianali, pratiche di solidarietà comunitarie e esperienze artistiche. Nella sola città di Napoli sono state censite più di quaranta iniziative di recupero di luoghi abbandonati di interesse culturale. Tra i casi più famosi vi sono quelli delle Catacombe di San Gennaro, della galleria Borbonica e dell’Area Marina della Gaiola ma vi sono anche esempi meno noti come il progetto Cela Napoli, che ha puntato alla riscoperta degli ipogei ellenistici e romani; l’Acquedotto Augusteo reso visitabile grazie all’impegno dell’Associazione Vergini Sanità e la Chiesa di Santa Maria della Misericordia ai Vergini trasformata in un centro di arte contemporanea. Ci sarebbe da rallegrarsi se non fosse che, al pari delle piante grasse che muoiono per lo sforzo della fioritura, anche queste energie rischiano di implodere se non opportunamente inserite in un contesto sociale ed economico diverso da quello attuale trasformando il Mezzogiorno in un gigantesco iperghetto.

Schede e storico autori