La deregulation e i fattori della crisi

1. La crisi scoppiata nell’autunno del 2008 ha superato il suo punto più acuto ma pesa ancora sulle prospettive di crescita delle economie e sulla stabilità del sistema finanziario internazionale. Deve essere inclusa a pieno titolo nel ristrettissimo numero delle “grandi crisi” che hanno segnato la storia del capitalismo. Innescate da speculazioni le più svariate (si pensi  ai  tulipani olandesi), tutte le crisi finanziarie sono accomunate dalla sequenza che dallo scoppio della bolla speculativa conduce al crollo della fiducia, alla caduta dei prezzi, al prosciugamento del credito e alla recessione.

 

2. Quali sono stati i fattori principali che hanno favorito nell’ultimo decennio l’accumulo sfrenato di posizioni crescentemente rischiose da parte degli operatori finanziari?   

Il progresso tecnico  ha abbattuto i costi di comunicazione, di elaborazione e di conservazione dei dati; vi si è accompagnato un utilizzo massiccio di tecniche di ingegneria finanziaria sempre più sofisticate. Ne è disceso per le banche una contrazione dei rapporti di credito tradizionali, fondati sulla conoscenza del cliente, a fronte di una corrispondente diffusione rapidissima di strumenti trattati sui mercati finanziari, caratterizzati da una opacità sempre maggiore e di cui le cartolarizzazioni dei mutui immobiliari statunitensi costituiscono l’esempio paradigmatico. 

La deregulation ha abbattuto le barriere di entrata, stimolando la concorrenza fra i prodotti finanziari e le imprese sui vari mercati. Il venir meno di regole stringenti all’attività degli operatori ha accresciuto significativamente i profili di rischio. Basti menzionare le vittoriose resistenze opposte dai responsabili della politica economica americana alla regolazione del mercato dei Credit Default Swap, l’allentamento dei vincoli regolamentari posti in capo alle banche di investimento da parte della Security Exchange Commission. Se ne potrebbero fare altri. 

Nel complesso ne sono scaturiti per un periodo non breve effetti positivi sull’efficienza dei mercati finanziari (anche tramite l’affermazione del modello originate to distribute che consente di distribuire il rischio a una molteplicità di soggetti) e indirettamente sulla crescita delle economia; ma al prezzo di generare endogenamente  le forze che hanno poi condotto all’esplosione del sistema.

 

3. Tutto ciò era evitabile? La domanda tocca come è chiaro questioni di sostanza concernenti non solo l’azione delle autorità pubbliche, ma anche il ruolo svolto dalla teoria economica corrente; più in generale ancora, le ragioni sottostanti i fenomeni di  acuta instabilità del sistema capitalistico di cui questa crisi è manifestazione. Per alcuni tira aria da resa dei conti. Ad esempio, Robert Skidelsky, autore – oltre che di una monumentale e apprezzata biografia di Keynes – di un recentissimo volume sulla riacquistata attualità del pensiero keynesiano, indica in tre dogmi della professione il nucleo duro dell’incapacità degli economisti di percepire l’aumento dei rischi presenti nel sistema e – indirettamente – dei policy maker di governare i mercati finanziari:   aspettative razionali, modello di ciclo reale (real business cycle) e mercati efficienti. Le prime implicano che il valore atteso delle variabili rilevanti per le scelte economiche degli agenti è uguale (a meno di un errore casuale) a quello generato dal modello corretto dell’economia, che tutti conoscono e usano nel formare le proprie aspettative. Secondo il modello di ciclo reale, dato che domanda e offerta sono in equilibrio per l’assunto di aspettative razionali di cui sopra, le fluttuazioni dell’economia sono spiegabili  solo in termini di shocks che colpiscono il sistema produttivo. L’assunto di mercati efficienti proclama che i prezzi degli strumenti finanziari contengono la migliore stima possibile dei rischi ad essi associati, date le informazioni disponibili. I rischi si possono quindi calcolare con precisione statistica, utilizzando all’uopo distribuzioni di probabilità standard. 

 

4. Nel suo complesso, questa impostazione si basa  sulle  capacità di autocorrezione dei mercati, sulla connessa irrilevanza delle istituzioni preposte al loro corretto funzionamento, sull’esistenza di incentivi capaci di indurre automaticamente il grado di regolazione adeguato. Essa ha grandemente influenzato il contesto culturale entro cui si sono mosse le autorità; ne è risultata incrinata anche la capacità di cogliere il valore segnaletico delle turbolenze che hanno caratterizzato la storia finanziaria recente prima dell’attuale crisi (debito sudamericano nel 1982, caduta di Wall Street del 1987, Messico nel 1994, tigri asiatiche nel 1997, bolla dei titoli tecnologici del 2000). In tutte queste occasioni il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan reagì allentando la politica monetaria, ritenendo che ciò fosse sufficiente per domare quei fenomeni speculativi che in un discorso del 2002 rimasto ex post famoso definì come sintomo della normale fisiologia dei liberi mercati. L’ampia espansione monetaria praticata dalla Fed non si scontrò con lo scoglio dell’inflazione grazie alla pressione al ribasso sui prezzi al consumo esercitata dalla crescita esplosiva delle importazioni dalla Cina; questa stessa innalzava i prezzi degli asset, in particolare quelli delle abitazioni, favorendo la formazione della bolla.

 

5. Alcuni autori osservano che la crisi ha riflesso non solo la miopia delle autorità di politica economica, ma anche l’azione di altri fattori che hanno reso sostenibile nel tempo la bolla finanziaria, prolungando l’espansione straordinaria dell’economia americana prima del 2008. Tommaso Padoa Schioppa, nel suo recente La veduta corta, li individua nella forte dinamica del consumo delle famiglie statunitensi favorito dalla bolla immobiliare, nel connesso formarsi di un cospicuo disavanzo delle partite correnti negli USA e nell’impiego dell’enorme formazione di risparmio da parte della Cina nell’acquisto di titoli di debito statunitensi, che ha neutralizzato la pressione al ribasso sul dollaro che si sarebbe altrimenti materializzata. Con la crisi sarebbe venuto meno il modello di crescita che ha caratterizzato il sistema economico mondiale negli ultimi venti anni.

 

Conclusioni più radicali possono essere tratte se si vede nella crisi il segno del declino del modello che ha dominato la cultura economica e – in non piccola parte – anche politica a partire dalla svolta liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher alla fine degli anni settanta. In questa vena, il punto essenziale sarebbe quello di riconoscere nuovamente un ruolo essenziale all’operatore pubblico, non solo in termini di regolatore, ma anche in termini di offerta pubblica di beni sociali essenziali, quali l’istruzione, la sanità, la previdenza: insomma, di nuovo come negli anni trenta, più Stato e meno mercato.

 

6. Naturalmente non sono venuti meno i difensori convinti della cultura economica dominante, per i quali le crisi finanziarie non solo sono per loro natura imprevedibili ma rappresentano il minore dei mali: il libero mercato non è perfetto, ma gli interventi pubblici sortiscono, tranne pochi e ben individuati casi, effetti ancora peggiori. Ma posizioni così estreme sono minoritarie anche fra chi ritiene che la teoria economica non abbia responsabilità significative in ciò che è successo; secondo costoro è all’interno di questo pensiero – più propriamente all’interno della parte microeconomica di tale teoria –  che si sono maggiormente sviluppati gli studi sulle innumerevoli deviazioni dall’ipotesi d’efficienza e d’informazione perfetta che possono spiegare la formazione di bolle speculative nei prezzi delle attività.

In realtà  non può essere messo in dubbio che l’analisi macroeconomica del settore finanziario e in particolare del mercato del credito – cruciale per comprendere ciò che è successo – non è stata oggetto di significativi sviluppi negli ultimi decenni nell’ambito di quel paradigma. Vi ha, ad esempio, contribuito maggiormente un economista keynesiano come Hyman Minsky.

 

7. In questo contesto, l’entità e la natura degli interventi pubblici sono ancora  oggetto, soprattutto negli Stati Uniti, di un forte dibattito fra gli economisti, incentrato in primo luogo sull’utilità dell’intervento di bilancio a sostegno delle economie nell’azione di contrasto della crisi, utilità che è sostanzialmente negata dagli economisti della scuola dominante per i quali l’impatto delle manovre di bilancio sull’economia non può che essere, al di là del brevissimo periodo, pressoché nullo. 

Comunque la si voglia mettere, appare comunque difficile esorcizzare l’influenza della Teoria Generale e della esperienza successiva sul modo con cui la politica economica ha reagito a questa crisi. Quella del 1929 vide una caduta dei corsi azionari  di analoga entità a quella registrata oggi, ma l’impatto sulle economie reali fu nettamente superiore a quello attuale: nel 1929-32 il Pil mondiale cadde del 17%;  secondo le previsioni degli organismi internazionali, nel 2009 la flessione del PIL mondiale sarebbe di circa un punto percentuale (3 % nelle economie avanzate), a cui seguirebbe una dinamica di segno nuovamente positivo l’anno successivo.

Questa differenza di andamento risente sicuramente delle diversa natura degli squilibri dell’economia mondiale nei due casi, ma non vi è dubbio che l’efficacia delle politiche di stabilizzazione – sostanzialmente neglette nel pensiero economico degli anni venti – sia oggi enormemente superiore. L’apporto delle autorità di politica economica è stato decisivo nel sostenere i mercati con manovre non convenzionali di politica monetaria, nel soccorrere in vario modo le istituzioni finanziarie, in generale  con un’espansione massiccia dei bilanci per supportare la domanda e l’occupazione. L’azione pubblica si è rilevata essenziale per ridurre il rischio di un collasso del sistema finanziario, anche avviando revisioni radicali nella regolazione dei mercati e degli intermediari finanziari e nella attività di supervisione a fini prudenziali. Rimangono ancora naturalmente tutt’altro che trascurabili i rischi di ricadute legati al necessario smantellamento degli aiuti e alla graduale correzione dei forti squilibri nei conti pubblici che si sono creati.

 

8. La crisi, confermando che i mercati non sono capaci di autoregolamentarsi, ha altresì confermato le difficoltà di far coesistere un mercato mondiale tendenzialmente sempre più integrato con l’assenza di una autorità di pari livello capace di regolarlo. Il conflitto latente fra Stati nazionali e globalizzazione dell’economia è emerso in altri modi e con esiti tragici all’inizio del XX secolo. Se, come ci mostra nuovamente questa crisi, le soluzioni non possono essere ricercate nelle proprietà taumaturgiche del doux commerce vagheggiate da Montesquieu, non possono di certo neanche basarsi su nuove forme di nazionalismo e di protezionismo.    

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