La decisione di bilancio nell’esperienza italiana

Marco Polese ricostruendo l’evoluzione del processo di bilancio a partire dall’approvazione della Costituzione e dell’art. 81 sul pareggio di bilancio, ricorda che negli anni ’60 si affermò un’interpretazione estensiva del principio del pareggio nel timore che ostacolasse il riconoscimento dei diritti sociali sanciti dalla Costituzione. La possibilità di deficit di bilancio impose di rivedere la normativa della contabilità e così nacque la legge finanziaria cui seguì quella di stabilità. Polese sottolinea il ruolo dell’Unione Europea in questo processo.

Lo scorso 15 ottobre è iniziata in Parlamento la sessione di bilancio, periodo che si concluderà il 31 dicembre e nel quale le Camere sono chiamate ad esaminare e approvare la legge di bilancio, nonché i provvedimenti normativi ad essa collegati, presentati dal Governo. Si tratta di un momento fondamentale nei rapporti fra i due organi costituzionali, poiché la decisione riguardante l’allocazione delle risorse rappresenta un momento di snodo centrale nell’attuazione del programma di governo, in cui le assemblee rappresentative sono chiamate ad esercitare il loro potere di indirizzo e controllo sulla politica dell’esecutivo. L’attuale configurazione del processo di bilancio, tuttavia, risulta notevolmente differente rispetto all’assetto vigente al momento dell’approvazione della Costituzione, in quanto sono intervenute nel corso degli anni numerose modifiche, che hanno interessato dapprima la legislazione ordinaria e recentemente anche quella costituzionale (art. 81 Cost.). Inoltre, a partire dagli anni ’90, si sono fatti sempre più incisivi i vincoli introdotti a livello europeo, che hanno limitato la possibilità degli Stati membri di determinare autonomamente le proprie decisioni di bilancio.

Ogni considerazione sul tema deve quindi prendere le mosse dal quadro normativo dei primi anni dell’età repubblicana e, in particolare, dal coevo dibattito dottrinale che si era sviluppato intorno all’art. 81 Cost. Sotto tale profilo, infatti, si era ritenuto che l’obbligo di copertura delle spese, sancito al quarto comma, fosse da intendersi come indicativo di un principio di tendenziale pareggio di bilancio, in virtù del quale le spese dello Stato non avrebbero potuto essere superiori alle entrate.

A partire dagli anni ’60, tuttavia, ci si rese conto che tale principio rappresentava un ostacolo all’attuazione della forma di Stato delineata dalla Costituzione e, segnatamente, al riconoscimento dei diritti sociali ivi sanciti; nel contempo, andavano affermandosi indirizzi conformi ad un’idea di indebitamento pubblico funzionale al rilancio dell’economia in momenti di crisi.

Per queste ragioni, iniziò a farsi strada in dottrina una interpretazione estensiva dell’art. 81 Cost., a mente della quale era possibile stanziare dei fondi di finanziamento delle spese future, senza la necessità di individuare previamente delle entrate, ma rinviando agli esercizi successivi. Tale interpretazione fu confermata anche dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 1/1966, che riconobbe l’indebitamento come una possibile forma di copertura finanziaria delle spese.

L’apertura alla possibilità di prevedere un bilancio in deficit, se da un lato ha consentito l’incremento di politiche redistributive, dall’altro ha richiesto una revisione organica della normativa sulla contabilità, al fine di superare un ulteriore elemento di rigidità previsto dall’art. 81 Cost. L’ultimo comma di tale norma, infatti, configurava la legge di bilancio come meramente formale, espressione con la quale si fa riferimento alla sua inidoneità ad innovare l’ordinamento giuridico, dovendo, al contrario, limitarsi a fotografare le entrate e le spese già previste nella legislazione sostanziale. Si rendeva necessario, in altri termini, un intervento normativo che trasformasse la decisione di bilancio da momento meramente ricognitivo a sede in cui razionalizzare i vari interventi di spesa, anche al fine di contenere la prassi – all’epoca già invalsa – della proliferazione delle erogazioni finanziarie per soddisfare le più disparate esigenze.

In base a tali premesse, con la l. 468/1978 sono state riformate alcune disposizioni in materia di contabilità pubblica, introducendo, fra l’altro, la legge finanziaria (art. 11), il cui disegno di legge andava presentato dal Governo contemporaneamente con quello di approvazione del bilancio. Tale legge, libera dai vincoli costituzionali, si configurava come di spesa in senso sostanziale, potendo procedere alle «modifiche ed integrazioni a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio». Si caratterizzava inoltre per l’indicazione del «livello massimo del ricorso al mercato finanziario», allo scopo di limitare l’aumento della spesa pubblica, e per la determinazione delle risorse accantonate nei fondi speciali destinati alla copertura degli oneri «derivanti da progetti di legge che si prevede possano essere approvati nel corso dell’esercizio». Nella prassi, tuttavia, tali strumenti non riuscirono ad arginare il moltiplicarsi delle voci di spesa, che, al contrario, trovarono nella corsia preferenziale prevista per il bilancio la sede per una rapida approvazione.

Sul finire degli anni ’80, si ritenne pertanto necessario un ulteriore intervento normativo (l. 362/1988), che, da un lato, restituisse alla legge finanziaria il suo ruolo originario, tipizzandone il contenuto attraverso la definizione di precisi limiti e, dall’altro, introducesse una scansione temporale della decisione di bilancio, in modo da consentire al Parlamento di conoscere le intenzioni del Governo, mediante la presentazione, fra l’altro, del DPEF.

Anche queste misure tuttavia non riuscirono a rappresentare un argine al ricorso all’indebitamento dello Stato, ma fu solo a partire dagli anni ’90 che si assistette a una inversione di tendenza, con l’Unione economica e monetaria. A partire dal Trattato di Maastricht (1992) – che prevedeva i celebri parametri del 60% e del 3% quanto al rapporto, rispettivamente, del debito e del deficit in relazione al Pil – l’Italia comincia infatti ad essere sottoposta agli obblighi di derivazione europea e la disciplina statale in tema di bilancio si intreccia con i vincoli sovranazionali.

In una prima fase, che si sviluppa sul finire del XX secolo, il ruolo delle istituzioni europee si caratterizza, da un punto di vista temporale, per intervenire successivamente all’adozione da parte degli Stati delle proprie decisioni di bilancio. Rientra in questa fase, oltre al Trattato di Maastricht, il successivo Patto di stabilità e crescita (1997), nel quale, fra l’altro: a) si introduce una disciplina più severa per i disavanzi di bilancio; b) si prevede l’obbligo per ciascuno Stato di adottare annualmente un programma di stabilità; misure, queste, recepite dalla l. 208/1999. Più recentemente, il deflagrare della crisi e il collasso del debito pubblico di alcuni Stati ha richiesto, in assenza di una disciplina organica a livello sovranazionale, l’adozione di una nuova governance europea, ulteriormente limitativa della possibilità per gli Stati di determinare la propria politica economica.

Fra le numerose misure adottate, giova richiamare quelle che hanno maggiormente inciso sulla decisione di bilancio dei Paesi membri, il cui denominatore comune è costituito dal controllo, non più successivo, ma preventivo. Il primo intervento in tal senso è rappresentato dal c.d. semestre europeo (2010), che si caratterizza per la previsione di un continuo dialogo fra istituzioni europee e Stati, finalizzato a concordare le politiche economiche e di bilancio nazionali. A distanza di poco tempo è stato approvato il c.d. six pack (2011) – seguito dal c.d. two pack (2013) – provvedimenti, questi, che hanno modificato il Patto di stabilità, rafforzando ulteriormente la sorveglianza preventiva e prevendendo anche il controllo dei dati macroeconomici dei Paesi membri.

Il percorso che ha portato a un esame sempre più stringente sui vincoli di bilancio è poi culminato nel Trattato sul c.d. Fiscal compact (2012), stipulato fuori dalla cornice europea, in cui gli Stati si sono impegnati ad introdurre nei rispettivi ordinamenti il pareggio di bilancio, mediante norme di carattere «preferibilmente costituzionale» (art. 3).

Per tale ragione, con l. cost. 1/2012, sono state modificate alcune disposizioni costituzionali, fra cui l’art. 81 Cost., al cui interno è oggi sancito il principio dell’equilibrio di bilancio, formula, questa, significativamente diversa da quella di pareggio di bilancio, richiamata dal titolo della riforma. L’art. 81 Cost. inoltre rinvia a una legge rinforzata (successivamente approvata: v. l. 243/2012) l’individuazione delle situazioni al cui verificarsi è possibile ricorrere all’indebitamento: tali situazioni vengono tuttavia identificate mediante un mero rinvio ai criteri adottati dall’UE, delegando ancora una volta alle istituzioni europee, e segnatamente alla Commissione, il controllo sulle decisioni di bilancio.

Deve osservarsi, tuttavia, che già in data anteriore alla riforma costituzionale era stato modificato per intero il sistema della contabilità pubblica (l. 196/2009, seguita dalla l. 39/2011). Tale riforma si era posta, in particolare, l’obiettivo di adeguare la disciplina della finanza pubblica ai sempre più incisivi vincoli imposti dall’UE, da un lato, mediante una nuova scansione procedimentale del ciclo di bilancio, a partire dalla presentazione del DEF; dall’altro, attraverso la sostituzione della legge finanziaria con la legge di stabilità (art. 11), precisando che quest’ultima non possa «contenere norme di delega o di carattere ordinamentale o organizzatorio, né interventi di natura localistica o microsettoriale», divieti pensati al fine di evitare le distorsioni che avevano caratterizzato la legge finanziaria.

Si trattava, in definitiva, di una corposa riforma, la cui lettura sistematica con i già esistenti vincoli di derivazione europea avrebbe consentito di limitare le modifiche imposte dal Fiscal compact alla normativa ordinaria. Il legislatore costituzionale si è tuttavia orientato diversamente ed ha preferito affidare alle istituzioni europee anche il ruolo di verificare la sussistenza delle condizioni che consentono margini di flessibilità, potenziando gli strumenti di una gestione rigoristica delle finanze pubbliche, a sempre maggiore detrimento di politiche rivolte alla garanzia di diritti fondamentali dei cittadini.

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