La curvatura lavoristica del Reddito di Cittadinanza

Lucia Valente muove della considerazione che il D.L. n. 4/2019 sembra ispirato al principio che occorre lavorare ad ogni costo e perciò il Reddito di Cittadinanza da strumento di lotta alla povertà diventa una politica attiva del lavoro. Riflettendo sulla curvatura lavoristica del RdC, Valente ne mette in luce gli aspetti più problematici: dalla necessità di coinvolgere le Regioni titolari dei Centri per l’impiego e della programmazione delle politiche attive, alla necessità di chiarire le tappe del percorso di attivazione del disoccupato in condizione di bisogno.

Il simbolo del progetto politico del M5S su cui è incardinata la vittoria elettorale del 4 marzo 2018, cioè il Reddito di Cittadinanza, vede aprire il proprio cantiere legislativo con la legge di bilancio n. 145/2018. Lo stanziamento necessario, però, dopo un negoziato difficilissimo con la Commissione Europea subisce una consistente decurtazione e vira verso misure di politica attiva del lavoro anziché misure di lotta alla povertà.

Ciò che ora il Governo si propone di realizzare non sembra rispondere né alla versione minimalista del reddito di cittadinanza inteso come reddito minimo garantito a tutte le persone che si trovino in una posizione di fragilità sociale ed economica; né alla versione massimalista e universale, che lo presenta in termini di basic income.

In attuazione della legge di bilancio il Governo vara il D. L. n.4/2019 nel quale il RdC è presentato come una misura di politica attiva del lavoro e costituisce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponili. La qualificazione della misura in termini prevalenti di politica attiva del lavoro fa rientrare nella titolarità delle Regioni la programmazione e la gestione del percorso di attivazione sui territori. Le Regioni lamentano il varo unilaterale della misura e denunciano la violazione delle loro prerogative costituzionali: esse ritengono che nel decreto restano irrisolti una serie di aspetti che riguardano il potenziamento, la formazione del personale dei centri per l’impiego coinvolto, l’adeguamento e la modernizzazione delle sedi, l’implementazione dei sistemi informativi, il dialogo tra le banche dati e la cooperazione tra i diversi soggetti chiamati a dare esecuzione alla riforma.

Il D.L. n. 4/2019 introduce una misura assai ambiziosa coniugando politiche di contrasto alla povertà e politiche per il lavoro ciascuna delle quali ha le sue logiche e le sue strumentazioni di intervento. Al Capo I (art. 1-13), come si legge nella relazione illustrativa, il decreto mira a realizzare misure sociali ed economiche con l’obiettivo di una ridefinizione del modello di benessere collettivo. Inoltre, intende garantire la sussistenza, incentivare la crescita personale e sociale dell’individuo attraverso la libera scelta del lavoro, favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura. Il RdC individua nella mancanza di un lavoro retribuito il problema cruciale nella lotta alla povertà e questo vale anche per la fascia dei più poveri in situazioni di marginalità, individui e famiglie che sono obbligatoriamente inseriti nel circuito promozionale di attivazione al lavoro pena la decadenza dal beneficio.

L’enorme mole di attività preliminari e successive alla erogazione del beneficio, dalla firma del Patto per il lavoro al percorso per la ricollocazione dei disoccupati attraverso l’assegno di ricollocazione, richiede una formazione mirata del personale in servizio nei Centri per l’Impiego che saranno chiamati in prima battuta a fornire i servizi necessari per ottenere il Rdc. Salvo ritenere che l’assunzione di 6000 navigator assunti dall’ANPAL servizi s.p.a. possa sopperire in due mesi alle gravi carenze del sistema lavoro dei territori regionali. La curvatura lavoristica della misura affida ai CpI un ruolo centrale nella gestione del flusso delle attività e delle verifiche sull’effettivo adempimento degli obblighi di attivazione, nei quali si concreta la c.d. condizionalità, cui è soggetto l’intero nucleo familiare. Al ministro del Lavoro resta il compito di dimostrare che i servizi pubblici per l’impiego possono essere riformati in tempi rapidi al fine di garantire il supporto alla formazione e al reinserimento al lavoro dei disoccupati in stato di bisogno.

Per far fronte alla necessità di velocizzare le procedure, il decreto crea un portale unico a livello nazionale dove tutti gli enti che a vario titolo intervengono nella gestione del programma per il RdC devono riversare le proprie informazioni. La piattaforma digitale del reddito di cittadinanza consente di raccogliere e condividere una serie di dati sia personali sia relativi al nucleo familiare del beneficiario del RdC; la condizione economica e patrimoniale; l’ammontare del beneficio economico e di altri benefici. Essa consente la condivisione delle informazioni sia tra le amministrazioni centrali e i servizi territoriali sia, nell’ambito dei servizi territoriali, tra i Centri per l’impiego e i servizi sociali con riferimento ai beneficiari residenti nei singoli territori.

CpI e Comuni devono segnalare alle piattaforme digitali l’elenco dei beneficiari per cui siano riscontrate anomalie sia nei consumi sia nei comportamenti dai quali possa desumersi la non veridicità dei requisiti economici, patrimoniali e reddituali dichiarati. Una sorta di attività di intelligence che affida sia ai comuni sia ai CpI il potere di ricavarne, a loro piacimento e in modo discrezionale, sia dall’uso della carta Rdc sia dagli stili di vita del beneficiario, notizie utili per le segnalazioni all’ANPAL e al ministero del Lavoro.

Al pari di ogni politica attiva per il lavoro anche il RdC prevede un percorso di accompagnamento per l’inserimento o il reinserimento del disoccupato in stato di bisogno nel mercato del lavoro. Nel flusso di attività del RdC la situazione di bisogno costituisce un requisito oggettivo che, però, diversamente da quanto previsto per il REI, da solo non basta per ottenere e conservare il sussidio. Per questo la persona è obbligata ad attivarsi e deve dimostrare di essere meritevole della “solidarietà” collettiva e della protezione sociale riconosciuta dal legislatore ai cittadini bisognosi.

La norma non dice con esattezza quale sia l’ufficio competente per prendere in carico il disoccupato in condizioni di bisogno e se il primo incontro preliminare all’inizio del percorso debba avvenire presso il Cpi oppure presso i servizi sociali dei Comuni che devono valutare la situazione della persona e decidere se avviarla o no al lavoro. Per evitare perdite di tempo e incresciosi rimpalli tra amministrazioni, sarebbe quindi opportuno dire chiaramente che l’ufficio competente per la presa in carco del disoccupato in stato di bisogno legato al disagio sociale e all’indigenza è l’ufficio dei servizi sociali del Comune.

Dopo aver ottenuto il beneficio dall’INPS, entro 30 giorni, ogni membro maggiorenne della famiglia deve rendere la Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavoro (DID) o telematicamente tramite piattaforma digitale quando sarà pronta oppure di persona. Questa seconda opzione, che causerà un significativo afflusso di utenza nei CpI e un appesantimento del carico burocratico, denota l’arretratezza in cui versano i sistemi informatici dei servizi per il lavoro.

Dopo aver compilato la DID ogni membro della famiglia che abbia raggiunto la maggiore età deve confermare il proprio impegno a cercare effettivamente un lavoro attraverso la firma del il Patto per il lavoro e aderire a un progetto personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale.

Il Patto per il lavoro obbliga l’intero nucleo familiare, e non la singola persona, a collaborare con l’operatore alla redazione del bilancio delle competenze ad accettare espressamente gli obblighi e rispettare gli impegni previsti nel Patto. In particolare i membri del nucleo familiare devono registrarsi sulla piattaforma digitale che deve essere consultata quotidianamente quale supporto nella ricerca del lavoro; devono svolgere una ricerca attiva di lavoro sulla base di quanto concordato nel diario delle attività settimanali e devono dimostrare di averle effettivamente svolte; accettare di essere avviati a corsi di formazione o riqualificazione professionale o a progetti per favorire l’autoimprenditorialità, tenuto conto del bilancio delle competenze effettuato prima della redazione del Patto per il lavoro e delle inclinazioni professionali; sostenere colloqui psicoattitudinali e partecipare alle selezioni attinenti alle competenze certificate che gli saranno indicati dai servizi competenti; accettare almeno una delle tre offerte di lavoro ritenute congrue sulla base della mera distanza dal luogo di lavoro e in base alla durata della disoccupazione.

Sempre nel Patto per i lavoro il beneficiario deve obbligarsi in caso di rinnovo della misura ad accettare, a pena di decadenza dal beneficio, la prima offerta utile di lavoro congrua ovunque collocata sul territorio nazionale. Il comportamento o la condotta omissiva od ostruzionistica o non cooperativa di un solo membro della famiglia, rilevata dai servizi competenti incide, sulla erogazione del trattamento nei confronti dei restanti membri della famiglia. È dunque necessario che vi sia anche un controllo e una cooperazione interna tra i membri del nucleo familiare se si vuole conservare il trattamento economico per il periodo più lungo possibile.

Tutti i beneficiari sottoscrittori di un Patto per il lavoro o di un Patto per l’inclusione sociale sono obbligati a partecipare ai progetti di pubblica utilità che vengano promossi dai Comuni da svolgere presso il medesimo comune di residenza, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con le altre attività del beneficiario e comunque non superiore al numero di otto ore settimanali.

La disciplina dell’offerta di lavoro congrua e della condizionalità sono il fulcro attorno al quale ruota il successo o l’insuccesso del RdC come misura di politica attiva. Il decreto del Governo mitiga fino ad escludere completamente dalla nozione di offerta congrua il requisito della “coerenza tra l’offerta di lavoro e competenze maturate” fondando la congruità dell’offerta su un mix tra la durata della fruizione del beneficio e la distanza dal luogo di lavoro. Non si applica il D.M. n. 4/2018 che aveva puntigliosamente declinato i parametri professionali e reddituali per la congruità dell’offerta. Nel caso del disoccupato in stato di bisogno ciò che rileva è la distanza dal luogo di residenza in relazione alla durata della disoccupazione. Nei primi 12 mesi di fruizione del benefico è congrua l’offerta fino a 100 km di distanza dal luogo di residenza del beneficiario o che sia raggiungibile in 100 minuti con i mezzi pubblici, se si tratta di prima offerta; la seconda offerta può essere entro 250 Km, la terza offerta può essere su tutto il territorio nazionale.

Dopo 12 mesi di fruizione del beneficio l’offerta è congrua entro 250 km di distanza dalla residenza del beneficiario nel caso si tratti di prima o di seconda offerta ovvero su tutto il territorio nazionale se si tratta di terza offerta. In caso di rinnovo del beneficio, dopo 18 mesi, è congrua una offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano, anche se si tratti di prima offerta.

Se nel nucleo familiare sono presenti persone con disabilità ai fini ISEE, allora la terza offerta è congrua entro i 250 km. indipendentemente dal periodo di fruizione del beneficio. In altre parole, la terza offerta può essere rifiutata se ecceda tale distanza.

Quel che emerge in conclusione è che il disoccupato in condizioni di bisogno deve accettare qualsiasi offerta di lavoro indipendentemente dagli interessi e dalle attitudini emerse nel corso del colloquio sostenuto presso il Centro per l’Impiego ovvero presso i servizi dei Comuni. Inoltre ogni beneficiario del RdC è obbligato a farsi ricollocare da un Centro per l’impiego o da un ente privato accredito utilizzando l’Assegno di ricollocazione che viene sospeso per i percettori di Naspi da più di quattro mesi e destinato esclusivamente ai percettori del RdC. Questi sono obbligati a iniziare il percorso di accompagnamento al lavoro entro 30 giorni dalla data di liquidazione della prestazione ricevendo direttamente dall’ANPAL l’Assegno di ricollocazione. La misura sembra sperimentale in quanto destinata a durare, per il momento, fino al 31 dicembre 2021.

La curvatura lavoristica del RdC è confermata altresì dal sistema di incentivi alle imprese che assumono il beneficiario del RdC che sottolinea un approccio molto orientato alle politiche attive e al reinserimento nel mercato del lavoro da parte dei beneficiari. Il beneficio è erogato sotto forma di esonero contributivo. L’impressione che si ricava è che nei lavori preparatori del provvedimento tutta l’attenzione dei policy makers si sia concentrata soltanto sulla questione della copertura finanziaria, mentre è stata largamente sottovalutata la questione della copertura amministrativa, ovvero della disponibilità di strutture operative idonee a svolgere tutta l’attività amministrativa indispensabile per l’implementazione delle nuove norme.

Questo, del resto, è un vizio antico di cui soffre gran parte della legislazione italiana, anche in conseguenza di una lacuna della Costituzione, che impone soltanto la verifica della copertura finanziaria e non di quella amministrativa. È chiaro che ogni giorno di ritardo avrà rilevanti conseguenze che si potranno risolvere in un solo modo: in deroga alle norme appena emanate consentire l’erogazione del RdC a pioggia sulla base di una mera autocertificazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla norma. Per i disoccupati in stato di bisogno più difficilmente collocabili meglio sarebbe stato sganciare il sostegno del reddito da ogni condizionalità e rendere la misura totalmente solidaristica e assistenziale: chiamare le cose con il loro nome è sempre la politica migliore dal punto di vista dei risultati oltre che da quello dell’etica pubblica.

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