La cultura nel PNRR tra nuove sensibilità e vecchi bias

Annalisa Cicerchia muovendo dalla considerazione che arte e cultura possono essere molto utili in una prospettiva di risanamento, ripresa e resilienza legge il PNRR alla luce del ruolo che esso riserva alla cultura. Cicerchia nota che la cultura è citata tra le primissime aree di intervento del PNRR e questo può essere motivo di soddisfazione; tuttavia, la lettura del Piano lascia affiorare anche alcuni vecchi bias che andrebbero superati per non indebolire l’efficacia degli interventi proposti.

La cultura è citata tra le primissime aree di intervento del PNRR. Questo può essere motivo di soddisfazione, ma affiorano anche alcuni vecchi bias, che vanno superati per non indebolire l’efficacia degli interventi proposti. Iniziamo con le ragioni della soddisfazione.

Nell’agenda della Commissione Europea, dalla metà dello scorso decennio, il patrimonio culturale è riconosciuto come bene comune da gestire in forme partecipative e come “fattore centrale dell’obiettivo reciproco dello sviluppo sostenibile, della diversità culturale, della creatività contemporanea“.

Per l’UNESCO, la cultura, il patrimonio e l’arte rappresentano un importante motore e attivatore del progresso e dello sviluppo sostenibile. E c’è di più. Mai così tanto spesso, negli ultimi, travagliati mesi, la frase “la cultura cura” è stata proposta, adottata e ripetuta, quasi a diventare un mantra. Che il coinvolgimento regolare in attività artistiche e culturali faccia bene e contribuisca al benessere psicofisico è cosa nota ormai da decenni (i primi studi scandinavi e inglesi risalgono all’inizio degli anni Novanta) e ultimamente ratificata addirittura da un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha messo in fila evidenze da oltre 3.000 studi. Un’indagine condotta durante il lockdown in Italia, Romania, Spagna e Belgio ha confermato che la pratica di arte e cultura ha agevolato la gestione dell’impatto della pandemia sulla vita delle persone.

Arte e cultura possono, pertanto, essere particolarmente utili in una prospettiva di risanamento, ripresa e resilienza. Sarebbe quindi logico aspettarsi che il documento programmatico del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rifletta questa percezione e la ponga alla base delle proprie strategie.

Come si è detto, è motivo di soddisfazione che la cultura sia citata tra le primissime aree di intervento del Piano. La prima Missione delle 6 che compongono il PNRR, infatti, è dedicata a “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”. Questa Missione, che vale circa 50 miliardi di euro (40,32 di risorse PNRR, 0,80 di REACT-EU e 8,74 di Fondo complementare), ha tre componenti. Le prime due sono dedicate a Digitalizzazione, innovazione e sicurezza, rispettivamente, nella PA e nel Sistema produttivo. La terza componente è intitolata “Turismo e Cultura 4.0”. A questa componente è assegnato poco più del 16 % delle risorse della Missione 1, e cioè 6,68 mld di fondi PNRR e 1,46 mld dal Fondo complementare, per un totale di 8,13 miliardi di euro.

“La Componente M1C3 ha l’obiettivo di rilanciare i settori economici della cultura e del turismo, che all’interno del sistema produttivo giocano un ruolo particolare, sia in quanto espressione dell’immagine e “brand” del Paese, sia per il peso che hanno nell’economia nazionale (il solo turismo rappresenta circa il 12 per cento del Pil).” (p.85). Inoltre, i settori del turismo e della cultura sono tra quelli con la più alta incidenza del lavoro giovanile e femminile.

Gli attori di questa strategia sono designati con una visione inclusiva e partecipata: “saranno anche coinvolti i privati, i cittadini e le comunità sia in termini di incentivazione delle sponsorship, sia attraverso forme di governance multilivello, in linea con la “Convenzione di Faro” sul valore del patrimonio culturale per la società, e con il Quadro di azione europeo per il patrimonio culturale, che invita a promuovere approcci integrati e partecipativi al fine di generare benefici nei quattro pilastri dello sviluppo sostenibile: l’economia, la diversità culturale, la società e l’ambiente”.

Gli obiettivi generali della Componente M1C3 sono l’aumento del livello di attrattività turistica e culturale del paese attraverso la modernizzazione delle infrastrutture materiali e immateriali del patrimonio storico e artistico; il miglioramento della fruibilità della cultura e l’accessibilità turistica attraverso investimenti digitali e investimenti volti alla rimozione delle barriere fisiche e cognitive al patrimonio; la rigenerazione dei borghi attraverso la promozione della partecipazione alla cultura e il rilancio del turismo sostenibile; il miglioramento della sicurezza sismica dei luoghi di culto e il ricovero delle opere d’arte coinvolti da eventi calamitosi; la modernizzazione dell’offerta turistica anche attraverso la riqualificazione della ricettività e il potenziamento di infrastrutture e servizi; il sostegno alla transizione digitale e verde nei settori del turismo e della cultura; il sostegno all’industria turistica culturale e creativa. Qui mi concentrerò esclusivamente sulle parti riferite alla cultura, trascurando la linea dedicata al turismo.

L’esperienza del lockdown ha impartito una dura lezione a un sistema di risorse culturali che fino a tutto il 2019 erano accessibili solo in una proporzione minima in modalità digitale. Nel PNRR, gli interventi sul patrimonio “fisico” saranno accompagnati da un importante sforzo per la digitalizzazione di quanto custodito in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, così da consentire a cittadini e operatori di settore di esplorare nuove forme di fruizione. La strategia è volta a sostenere la creazione di nuovi contenuti culturali e lo sviluppo di servizi digitali da parte di imprese culturali/creative e start-up innovative.

La Componente Turismo e cultura 4.0 del PNRR assegna 1,10 mld alla linea “Patrimonio culturale per la prossima generazione”, che comprende interventi per strategia digitale e piattaforme per il patrimonio culturale (0,50 mld), rimozione delle barriere fisiche e cognitive in musei, biblioteche, e archivi (0,30 mld), miglioramento dell’efficienza energetica di cinema, teatri e musei (0,30 mld). La cifra, a conti fatti, non è principesca. Considerando – un po’ all’ingrosso e certamente per difetto – che i luoghi dello spettacolo in Italia sono poco più di 56.600, i musei circa 5.000, le biblioteche di pubblica lettura censite dall’Istat 7.000, si tratta di una media di 16.000 euro a istituto per digitalizzarsi, rimuovere le barriere ed efficientarsi sotto il profilo energetico. Ma l’importante è cominciare.

Più ricca la dote, 2,72 mld di euro, per la seconda linea di investimenti, che è finalizzata a Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale religioso e rurale. Comprende azioni per l’attrattività dei borghi (1,02 mld), la tutela e la valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale (0,60 mld), la valorizzazione dell’identità dei luoghi: parchi e giardini storici (0,30 mld), e infine sicurezza sismica dei luoghi di culto, restauro degli edifici del Fondo Edifici di Culto (ex legge delle Guarentige) e Recovery Art (0,80 mld). Per dare una idea della potenziale platea di beneficiari, il Sistema Informativo Vincoli in Rete del MiC registra per l’Italia circa 32.000 fra chiese, cattedrali, duomi, ai quali vanno aggiunte altre tipologie di edifici di culto, come cappelle, santuari, ecc. La media per la messa in sicurezza per edificio non sarà quindi lauta, certamente inferiore ai 25.000 euro. Ma l’importante è cominciare.

La terza misura sulla cultura prevede due linee di intervento, alle quali assegna 0,46 mld. La prima riguarda gli investimenti nel settore cinematografico e audiovisivo per migliorarne la competitività attraverso il polo per la produzione cinematografica e televisiva di Cinecittà a Roma e vale 0,30 mld di euro. La seconda linea di intervento, con 0,16 mld, è volta a supportare l’evoluzione degli operatori dell’industria culturale e creativa, intervenendo sia sui processi del settore, rivedendo gli appalti pubblici per gli eventi culturali in logica di maggiore sostenibilità ambientale, sia sulle competenze, supportando il capability building degli operatori su temi green e digitali.

L’intera componente Turismo e cultura 4.0 presenta non pochi elementi di notevole interesse in risposta a necessità reali e spesso di antica data. Tuttavia, nella sua impostazione affiorano qua e là tre vecchi bias, che hanno caratterizzato le politiche economiche della cultura in Italia almeno dalla metà degli anni Ottanta, quando fu avviato lo sfortunato programma noto come Giacimenti culturali.

Il primo bias è la stanca e falsa leggenda della cultura come petrolio italiano, che è solo l’altra faccia della medaglia, altrettanto falsa e stanca, della cultura che non dà da mangiare. Entrambe suggeriscono che la cultura conti solo se produce denaro. Se ne produce, è un giacimento, se non ne produce, non dà da mangiare (ed è quindi un lusso). Tracce di questa filosofia hanno ispirato il passaggio a pag. 84 del PNRR, con cui si argomenta che intervenire su Turismo e Cultura è urgente. “Uno dei fattori che limitano la crescita di produttività è il basso livello di investimenti in digitalizzazione e innovazione, soprattutto da parte delle piccole e medie imprese (…). Questi problemi riguardano anche il settore della cultura e del turismo: nonostante l’Italia sia il paese con il maggior numero di siti UNESCO, non riesce a posizionarsi al vertice in Europa come numero di visitatori. E le aziende del settore sono tra quelle colpite in modo più significativo dalla pandemia”. (p.83-4). Il passaggio – e non sarà l’unico – rivela una visione muscolare e petroliera del ruolo della cultura: tanti siti, ergo tanti turisti, ergo tanti soldi.

Il secondo bias è più sottile e più recente, e trova le sue origini nella stagione d’oro 2000-2006 del Quadro Comunitario di Sostegno, che dedicava addirittura un intero asse strategico all’investimento nelle risorse culturali e storiche. La strategia si fondava in gran parte sull’assioma per cui la domanda di cultura capace di generare ritorni è esogena (turistica) e non interna. Riecheggia, pure con qualche apprezzabile correzione che include la domanda residente, nelle pagine del PNRR: “L’Italia dispone di un patrimonio unico al mondo, ma molti siti/edifici sul territorio richiedono investimenti volti a migliorare capacità attrattiva, accessibilità e sicurezza. Gli investimenti identificati toccheranno tutte le “anime” del territorio e riguarderanno i siti culturali delle grandi aree metropolitane, sfruttando la partecipazione culturale come leva di inclusione e “rigenerazione” sociale. Ma riguarderanno anche i piccoli centri (“borghi”) e le aree rurali, per favorire la nascita di nuove esperienze turistiche/culturali, bilanciare i flussi turistici in modo sostenibile (“overtourism”), sostenere la ripresa dello sviluppo e delle attività turistico-culturali nelle isole minori, in quanto aree particolarmente fragili e distribuite in ampia parte del territorio nazionale”. Questa specificazione merita di essere salutata come un affrancamento (era ora!) dalla schiavitù delle politiche del patrimonio al dominio dei cosiddetti Grandi Attrattori.

Infine, il terzo bias, anch’esso generato al tempo dei Fondi strutturali, che ammettevano per le risorse culturali e storiche solo investimenti in conto capitale. Negli anni successivi al 2006 è stato più volte sottolineato come la sostenibilità degli interventi, che pure furono ingenti, fosse spesso compromessa dalla mancanza di risorse destinate alla gestione ordinaria e alle indispensabili capacità tecnologiche, manageriali e cognitive. Il vizio di fondo che questa pur inarrivabile stagione programmatica ha lasciato nella filosofia delle politiche culturali sta nella loro prospettiva esclusivamente asset-based, che guarda (lodevolmente) al patrimonio, ma non vede le attività, le relazioni, i processi, le pratiche e non se ne cura; che non si interroga sulla composizione della domanda, ma si inebria di flussi, calcolati con l’ormai impresentabile indicatore degli ingressi annuali negli istituti museali statali (che, per inciso, per quanto eccellenti e universalmente ammirati, non si trovano nelle Regioni a Statuto speciale e sono meno di 500, su circa 5.000 siti e luoghi attivi in tutto il territorio nazionale).

Le politiche culturali italiane, soprattutto quelle di contenuto economico, sono relativamente giovani e ci vorrà tempo prima che si liberino dai loro preconcetti. Il PNRR, che pure di quei bias mantiene tracce, apre spiragli a prospettive importanti: la piena accessibilità e l’abbattimento delle barriere di ogni tipo, la partecipazione, la riqualificazione fisica e relazionale dei luoghi e delle comunità. Manca la saldatura verso la riduzione delle disuguaglianze nel benessere e nel capitale culturale. Per quello occorreranno coinvolgimento, vigilanza e advocacy.

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