La crisi orfana di politiche

I dati che si susseguono sulla situazione economica e il modo nel quale questi dati vengono, di volta in volta presentati o enfatizzati, rendono assai difficile farsi un’idea precisa e coerente su cosa stia realmente capitando e, soprattutto, se la crisi sia superata e la crescita sia tornata per restare, in una ristabilita normalità, a lungo con noi.
Proviamo, con le necessarie approssimazioni, a mettere qualche punto fermo. La crescita economica a livello globale è del tutto soddisfacente e promette di esserlo anche nel prossimo futuro. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, l’economia mondiale sta crescendo, quest’anno, al tasso del 4.2% e nel 2011 il risultato potrebbe essere anche migliore. Si tratta di un tasso di crescita decisamente molto elevato in rapporto all’esperienza degli ultimi decenni. Questo incoraggiante risultato è, però, largamente dovuto, alla performance dei paesi cosiddetti emergenti, molti dei quali sono stati a mala pena lambiti dalla crisi. Questi dati, quindi, non possono essere interpretati come prova dell’avvenuto superamento della crisi.
Il dato relativo alla sola crescita del Pil è, comunque, insufficiente per una appropriata valutazione. Se considerassimo l’andamento dell’occupazione resteremmo assai meno soddisfatti: secondo l’International Labour Office nel corso del 2009 (dati più recenti non sono disponibili) i disoccupati nel mondo sono aumentati di circa 30 milioni.
Anche rispetto alla disoccupazione, gli andamenti nelle grandi aree del mondo sono fortemente differenziati, ma – diversamente da quello che accade per il Pil – il maggiore dinamismo dei paesi emergenti non sembra sufficiente a compensare l’espulsione di lavoratori che sta avendo luogo nei paesi occidentali.
Focalizzando l’attenzione su questi paesi, emerge con chiarezza un aspetto che è del tutto coerente con il quadro sommariamente delineato: i loro risultati in termini di crescita del Pil sono largamente determinati dalla capacità di esportare nei più dinamici paesi emergenti, o, in via subordinata, negli altri paesi occidentali che a loro volta penetrano i mercati cinesi, indiani, brasiliani e via elencando.
Questo vale, come è ben noto, per la Germania che, secondo Eurostat, a marzo 2010 era cresciuta di un ragguardevole (per questi tempi) 1,5% rispetto a un anno prima e questo spiega anche il recente positivo andamento della produzione industriale italiana che, in base ai recenti dati resi noti dall’Istat, a giugno scorso è risultata in crescita dell’8,2% su base annua.
Quest’ultimo risultato – che, naturalmente, potrà essere o meno confermato nei prossimi mesi – ha interessato quasi esclusivamente i settori nei quali è consolidata la nostra capacità di esportazione. Ma nel complesso, soprattutto in Europa, la complessiva crescita del Pil è assai contenuta. Gli ultimi dati Eurostat ci dicono che nell’Unione europea essa è stata dello 0,2% tra il primo trimestre 2009 e il primo trimestre 2010 , contro lo 0,7% degli Stati Uniti e l’1,2% del Giappone.
La situazione relativa all’occupazione e alla disoccupazione è decisamente meno incoraggiante. Il tasso di disoccupazione nell’Unione Europea a maggio scorso era del 9,6% in crescita rispetto al 9% di un anno prima. Il significato di questi dati si può, però, cogliere meglio se si considera congiuntamente anche l’andamento del tasso di occupazione, cioè della quota di popolazione in età attiva che risulta occupata o in cerca di lavoro. Eurostat ci informa che a livello europeo questo dato è in calo, essendo sceso dal 65,9% del 2008 al 64,6% del 2009, invertendo una tendenza all’aumento che si era manifestata a partire dal 2002. Questo implica che il limitato peggioramento del tasso di disoccupazione sarebbe stato più pronunciato se non si fosse avuta una riduzione del numero di persone che cercano lavoro, malgrado ne siano prive, e che segnala una crescente sfiducia rispetto alla possibilità di trovare un lavoro.
In Italia, come è noto, i tassi di disoccupazione sono più bassi della media europea ( 8,5% contro 9,6%) ma i tassi di occupazione, secondo l’Istat, risultano calanti e, soprattutto, si è ampliato il ricorso alla Cassa Integrazione Straordinaria che in molti casi rappresenta l’anticamera del licenziamento.
Molti altri elementi potrebbero essere presi in considerazione; quelli elencati sono, però, sufficienti per individuare un aspetto saliente della situazione economica e per farsi un’idea più precisa circa la capacità dei paesi occidentali di superare la crisi: il dinamismo dei paesi emergenti spiega i soddisfacenti tassi di crescita del Pil mondiale e traina, ma debolmente, i paesi occidentali, ove l’occupazione resta un problema molto serio oltre che esposto al rischio di ulteriori peggioramenti. Dunque, in questi paesi crescita e occupazione sono questioni non risolte, soprattutto per ragioni “interne”. E’ interessante chiedersi se e come si pensi di fare fronte a queste debolezze e quali siano, nelle analisi oggi prevalenti, le cause e i possibili rimedi.
L’idea oggi più diffusa sembra essere la seguente: l’espansione della spesa pubblica, anche se realizzata su scala variabile nei diversi paesi, nel corso degli ultimi due anni è stata complessivamente di entità tale da generare deficit e debiti pubblici insostenibili. Questo impone un’immediata correzione. E’, questa, la linea della fiscal consolidation che si è affermata nell’ultimo G20 di fine giugno a Toronto e che vede schierati in prima fila importantissimi organismi internazionali, tra i quali la Banca Centrale Europea. Un gruppo consistenti di autorevoli economisti ha dato il proprio convinto assenso a questa posizione, sulla base di argomenti che altri autorevoli economisti trovano ben poco convincenti.
In realtà, il giudizio sulla tollerabilità di elevati deficit pubblici può essere molto diverso sia per i criteri in base ai quali il giudizio viene espresso, sia per i meccanismi economici considerati responsabili dei loro effetti. Ad esempio, si può essere favorevoli alla fiscal consolidation semplicemente perché si è convinti che un’ampia presenza pubblica nell’economia, variamente intesa, sia di per sé un male, soprattutto per la libertà individuale. Tra i sostenitori della politica di rientro dai deficit pubblici certamente ve ne sono molti che aderiscono a questa idea.
D’altro canto, e questo è ciò che a noi più interessa, si può essere a favore della fiscal consolidation perché si ritiene, in base a precise ipotesi sul funzionamento dei mercati, che essa stessa sia una politica idonea a favorire il superamento della crisi e la ripresa stabile della crescita. Alcuni economisti hanno sostenuto questa tesi invocando, a sostegno, sia un selezionato numero di precedenti storici sia l’esistenza di potenti “effetti non keynesiani” della riduzione dei deficit pubblici. Questi ultimi consisterebbero, essenzialmente, nel positivo effetto sulla domanda della riduzione dei deficit per il tramite della riduzione della probabilità di instabilità finanziaria e di futuri incrementi nell’imposizione fiscale. Senza entrare nel merito della questione – la quale, peraltro, segnala che contrariamente a quanto si diceva qualche tempo fa “non siamo tutti keynesiani”, neanche nella crisi – si può osservare che questi effetti non keynesiani sulla domanda interna tardano a manifestarsi e che questo deve avere qualcosa a che fare con la solidità dei meccanismi che dovrebbero provocarli.
Quanto ai precedenti episodi in cui la crescita avrebbe positivamente risentito della riduzione dei deficit, l’interpretazione proposta è stata oggetto di numerose critiche soprattutto a causa del fatto che non vengono opportunamente considerate altre condizioni di contesto, rilevanti in ciascun caso; in particolare, si sottovaluta l’utilizzo in senso espansivo della politica monetaria e del cambio, che oggi è precluso dalla massa enorme di liquidità in circolazione e dal livello già bassissimo dei tassi di interesse.
Forse anche a causa di questo, acquisisce, almeno in apparenza, consensi crescenti l’idea che occorra mettere mano a quelle riforme strutturali di cui si parla da un tempo ben più lungo di quello che è trascorso da quando la crisi si è manifestata. Questa posizione è sostenuta con particolare forza e spesso con ottimi argomenti dall’OCSE che ha elencato gli ambiti nei quali sono più urgenti queste riforme, opportunamente differenziandoli per paese. Si tratta di misure che dovrebbero migliorare il sistema dell’istruzione, i sistemi di governance delle imprese, il grado di competitività nei mercati, la flessibilità nel mercato del lavoro e altro ancora
Naturalmente, misure di questo tipo non sono in contrasto con la politica della fiscal consolidation e forse si può anche dire che la loro combinazione costituisce la ricetta che meglio rappresenta oggi la “saggezza convenzionale”.
Possiamo però chiederci come esse potrebbero risolvere il problema che abbiamo individuato in precedenza e cioè le difficoltà “interne” ai paesi avanzati nel far fronte alle sfide della crisi economica. Le riforme strutturali contribuiscono ben poco alla domanda interna; possono- almeno alcune di esse – migliorare la capacità competitiva dei paesi occidentali e, dunque, l’effetto di traino esercitato dalle esportazioni attivate dal dinamismo dei paesi emergenti; soprattutto, manifestano i loro effetti su orizzonti temporali comunque troppo lunghi rispetto alla dinamica della crisi. Dunque, al di là della loro utilità per sostenere la crescita del lungo periodo, esse non possono essere considerate politiche di contrasto alla crisi. Lo stesso può dirsi per la fiscal consolidation alla luce degli argomenti già esposti. La conclusione da trarre sembra molto semplice: l’occidente parla, largamente, di altro, parla di problemi (il riequilibrio della pubbliche finanze, le capacità di crescita future) certamente rilevanti di per sé ma si mostra largamente insensibile rispetto alla crisi, soprattutto dell’occupazione. Forse anche per questo molti non rinunciano a cogliere l’occasione che qualche dato positivo fornisce per dichiarare la crisi superata. Certamente, per questo, è consentito parlare di crisi orfana di politiche.
La difficoltà, rispetto alla quale il silenzio è grande, riguarda come conciliare l’esigenza di intervenire a sostegno della produzione e dell’occupazione con la necessità di delineare un più lontano futuro nel quale le finanze pubbliche siano sostenibili e le capacità di crescita (possibilmente anch’essa sostenibile) siano rafforzate.
In questa situazione, in molti paesi occidentali altri importanti cambiamenti sembrano essere in corso e si tratta di cambiamenti che possono essere considerati strutturali anche se non necessariamente risultano compresi nella dettagliata lista elaborata dall’OCSE. Si tratta, sostanzialmente, di un profondo cambiamento nelle relazioni industriali e nel più complessivo funzionamento del mercato del lavoro. Non soltanto in Italia, ma soprattutto in Italia, questo cambiamento sembra essere piuttosto ben visibile, come le vicende collegate alla Fiat mostrano molto chiaramente. Queste evoluzioni danno alla domanda interna un contributo il cui segno è facilmente immaginabile ma, soprattutto, esse rendono evidente un aspetto piuttosto preoccupante della crisi: il suo ruolo di veicolo per il pieno manifestarsi, nei paesi occidentali, di uno dei più temuti effetti negativi della globalizzazione e cioè il drammatico peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (soprattutto, ma non soltanto, i meno qualificati) per effetto della competizione aperta con i ben più poveri lavoratori dei paesi emergenti.
Forse esagerando un po’ si può affermare che sia in atto tra i paesi occidentali una sorta di gara ad accrescere la propria competitività per questa via. Negli anni ’30 ciascun paese tentò di difendere i propri livelli di attività attraverso le svalutazioni competitive i cui effetti complessivi, come è ben noto, furono disastrosi. Oggi si rischia di ripetere l’errore di favorire la competizione laddove occorrerebbe maggiore cooperazione ma si modifica , per una serie di ragioni, l’ambito nel quale questa competizione avviene. Gli effetti, anche se certamente non devastanti come 80 anni fa, rischiano di essere comunque tali da prolungare lo stato di “arrancamento” in cui si trova gran parte dell’occidente.
Oltre ai negativi effetti di breve termine, questi sviluppi rischiano di definire un futuro caratterizzato da disuguaglianze crescenti e condizioni di vita difficili per un segmento sempre più ampio della popolazione. Se si ricorda quale fosse, sotto questo aspetto, la situazione negli anni precedenti la crisi non si faticherà a trovare in tutto questo un serio motivo di preoccupazione. In Italia poi, le preoccupazioni per il futuro rischiano di essere ancora maggiori, se si pone mente a un dato particolarmente inquietante reso noto dall’Istat ai primi di agosto: tra il 2007 e il 2009 la produttività del lavoro è diminuita del 2,7%. Anche in questo caso, ricordare la situazione nella quale ci trovavamo prima della crisi serve a comprendere quanto possa essere drammatico il quadro che si viene delineando. E serve anche a chiedersi che razza di modifiche strutturali siano in corso nel nostro paese, se l’effetto è quello di ridurre la produttività e abbassare i salari.
In conclusione, la crisi sembra essere davvero orfana di politiche specifiche. Sembra che, per molti, l’equilibrio dei conti pubblici e le capacità di crescita futura siano problemi ben più seri della crisi in atto o, perfino, che affrontandoli anche la crisi svanirà. Il fondato timore è che le cose non stiano affatto così. Prendere sul serio la crisi sembra indispensabile per superarla. Ma occorre farlo nella consapevolezza che i conti pubblici non sono sempre residuali e che la crescita dipenda anche da interventi dal lato dell’offerta, soprattutto da misure che sostengano la produttività. Non solo. Occorre riconoscere che, al di là delle discussioni di teoria economica, appare essersi consolidato, ben prima della crisi, un blocco di interessi – dal quale la politica fatica a mostrarsi indipendente – che vede in questa crisi l’occasione per realizzare un disegno che promette poco sul piano della crescita e dell’occupazione e molto, invece, sotto il profilo dei vantaggi distributivi. Si pensi, ad esempio, a quanto sarebbe sensata una manovra diretta a realizzare una diversa distribuzione del carico fiscale, che ne sposti il peso sui ricchi e super-ricchi e che trasformi, in uno dei vari modi possibili, almeno parte delle conseguenti maggiore entrate in ampliamento della domanda interna. Questa manovra suscita fierissima opposizione ed è, al riguardo, particolarmente istruttiva la reazione che si è scatenata negli Stati Uniti quando si è sussurrato che forse non sarebbe stato opportuno rinnovare i tagli fiscali concessi da Bush ai super ricchi in scadenza alla fine dell’anno.
Ma su tutto questo sembra esservi un ritardo di analisi piuttosto generalizzato che preoccupa. Per questo appare urgente riservare all’argomento una rinnovata riflessione che permetta alla crisi di non restare più a lungo orfana di adeguate politiche.

Schede e storico autori