La crisi nell’Unione Europea:le responsabilità politiche

A giugno ci saranno le elezioni europee. Probabilmente pochi elettori italiani o europei si recheranno alle urne pensando all’Unione europea. Saranno i fatti nazionali, le guerre, a fare i titoli dei giornali. Ciò non toglie che le sorti future, così come le passate, dei più importanti filoni politici europei siano fortemente intrecciate.
La mia impressione è che chi nel nostro Paese vorrà esprimere un giudizio epidermico contro la crisi finanziaria, gridare la sua insoddisfazione per i rigori della moneta unica, lamentare l’ingiustizia di un’economia che marcia facendo guerra ai poveri e al territorio, voterà – temo – Lega e Populismo della libertà. Si tratterebbe di un voto perfettamente razionale, perché la responsabilità principale del modo in cui si è sviluppata l’Unione europea, dell’indebolimento progressivo di garanzie sociali e di servizi pubblici, delle incontrollate pulsioni della finanza, della lotta di classe al contrario contro i poveri, ricadono interament non solo sui partiti conservatori ma anche sul più forte schieramento della sinistra, quello che proprio della difesa dei ceti più deboli dall’economia selvaggia avrebbe dovuto fare il cuore della sua azione politica. A tal punto la socialdemocrazia europea è oggi priva di risposte alla crisi economica in atto che una conservatrice come Angela Merkel ha recentemente dispiegato il piano più sostanzioso e socialmente impegnato, mentre un populista di destra, come il presidente francese Sarkozy, appare il più energico e attivo difensore dell’intervento pubblico, così come di una autonoma voce dell’Unione europea nello scenario internazionale. L’elettore europeo si chiederà, a ragione, quale vantaggio vi sia a votare socialdemocratico.
Perché le socialdemocrazie europee non si sono rivelate capaci di una risposta forte alla crisi economica europea in atto, né di offrire modelli alternativi? Per chi ha la memoria più lunga non mancano le motivazioni storiche.
Il Welfare europeo, dopo la Seconda guerra mondiale, non è stato semplicemente un’impresa socialdemocratica: alla sua creazione hanno contribuito anche partiti conservatori e liberali. In fondo il più strutturato e potente Welfare europeo, quella “economia sociale e di mercato” che è vista come prototipo del Modello sociale europeo, è stato edificato in Gran Bretagna da liberali e laburisti e, nella Repubblica federale tedesca, dal conservatore Hallstein, con l’aiuto dei liberali di Adenauer. Solo alla fine degli anni Sessanta è arrivato Willy Brandt. Sostanzialmente il welfare è stato concepito come un “costo” necessario: un’assicurazione del sistema che intanto procedeva per suo conto. E che dire dell’Italia? Qui tutto il processo di costruzione dello Stato sociale è passato, anche se controvoglia, dai ferri del partito che per 50 anni è stato al governo: la Democrazia cristiana. Si potrebbe anche ricordare che la socialdemocrazia europea fino a tutti gli anni Sessanta è stata il principale sostegno degli Stati Uniti, implicata in imprese coloniali come quella di Suez nel 56, tutto fuor che entusiasta dell’integrazione europea. Solo negli anni Settanta (ma di mezzo c’è stato quello scossone epocale che fu il ‘68) la socialdemocrazia europea ha espresso le sue versioni più progressiste, da Palme, a Brandt, a Kreisky, che noi oggi ricordiamo come fossero l’essenza di un movimento che invece in realtà ha vissuto profonde contraddizioni, ed è stato sempre piuttosto scettico su un troppo veloce avanzamento dell’integrazione europea. Lo Stato sociale europeo ha ricevuto un fondamentale contributo dai partiti e sindacati socialdemocratici, ma anche da quelli conservatori e liberali, in un’ottica di competizione con la sfida sociale ed economica lanciata nell’Europa dell’Est, e in tutto il Globo, dal socialismo reale. E senza tenere nella dovuta considerazione questa sfida del comunismo mondiale, nelle sue varie facce, non è possibile comprendere la vicenda dei socialdemocratici.
Ma torniamo all’importante responsabilità che la socialdemocrazia condivide nell’attuale assetto economico nell’Unione europea. Uno dei promotori del progetto del Mercato unico e quindi dell’integrazione monetaria, fu un “compagno di strada” del socialismo europeo come Jacques Delors, nominato nel 1985 presidente della Commissione europea. L’altro promotore di primo piano dell’Unione monetaria, dopo l’iniziale sbandata per il “socialismo in un solo Paese”, fu il presidente francese e socialista Mitterrand che forzò un riluttante Helmut Kohl a pagare il prezzo della rinuncia al marco, in nome della riunificazione della Germania. Fu la scelta del Mercato unico e dell’Unione monetaria di Maastricht un’operazione politica mirabile e coraggiosa, ma tutta e solo tutta incentrata sulla necessità di competere a livello globale con il mondo asiatico emergente, dal Giappone alle Tigri del Pacifico, e di vincere la sfida tecnologica con gli Stati Uniti.
Ma, ainoi, questo grandioso progetto, in grado di scatenare fantasie ed energie di imprenditori e finanzieri, di suscitare le speranze di migliaia di giovani universitari, non ha voluto fare i conti con le ragioni del crollo del Socialismo Reale, se non per assumere “in toto” il pensiero prevalente del nemico capitalista. Tale appiattimento del progetto politico ed economico della socialdemocrazia europea sull’idea di competizione e di liberazione dei vincoli del capitale si è ben palesato con la strategia di Lisbona del 2000: una socialdemocrazia europea all’apice del suo potere (erano socialisti 13 governi europei su 15) scelse come obiettivo principale quello di rendere l’economia europea “la più competitiva del mondo entro il 2010”, e inneggiò ad una vagheggiata “economia della conoscenza”, mentre già in tutto il Continente fioriva la speculazione edilizia e finanziaria, decadevano servizi pubblici, dilagava il precariato, e quote sempre maggiori di reddito di spostavano dai salari verso rendite e profitti.
Con la strategia di Lisbona il socialismo europeo, senza avvertir e i suoi militanti, aveva ritoccato i suoi obiettivi, passando dalla marcia verso il Sole dell’Avvenire e l’emancipazione dei lavoratori, alla ricerca di maggiore competitività per le imprese e della crescita ad ogni costo Nel 1989 è crollato il muro di Berlino, ed insieme ad esso si è dissolto il principale interlocutore e stimolo del mondo socialdemocratico. Dopo il sisma, la socialdemocrazia non ha saputo ridefinire un autonomo progetto politico. L’Unione europea è diventata sempre più grande, arrivando ad inglobare quasi l’intera Europa dell’Est, mentre il potere di indirizzo politico delle istituzioni europee si è fatto sempre più piccolo, fino a scomparire con l’attuale presidente della Commissione Europea portoghese Barroso.
Tutto ciò che l’Unione europea rappresentava in termini di indirizzo politico è stato affidato a commi legislativi, protocolli, a lobby accanite di gruppi industriali e finanziari sempre più potenti che invocavano privatizzazioni, moderazione salariale, flessibilità. La politica monetaria e di bilancio affidate al protocollo di Maastricht che, esotericamente, obbligava a venerare numeri immodificabili con l’unico obiettivo di controllare inflazione e la spesa pubblica. Abbiamo ancora l’euro, il principale risultato politico dell’Europa di Maastricht, ma gli immutabili parametri che ne dovevano sostenere l’esistenza sono tutti andati a gambe all’aria nell’impatto con la crisi (nel 2009 i deficit del Paesi Ue saranno compresi fra il 4 e il 12 per cento), insieme agli economisti che ne avevano sostenuto la saggezza. Servizi e reti pubbliche, talvolta scorporati e venduti ai privati, talaltra ancora di proprietà pubblica, ma gestiti secondo le logiche delle società per azioni, non rispondono a fini pubblici e, come nel caso dei fondi pensione privati, rischiano di offrire prestazioni peggiori di quelli garantiti dallo Stato. La ricchezza e la capacita competitiva si è accentrata nelle regioni più ricche e solide del Continente lasciando indietro quelle periferiche, come aveva previsto qualsiasi teorico dell’integrazione monetaria, in assenza di un ruolo fortemente redistributivo della fiscalità dell’Unione europea, e di una politica economica coordinata nell’eurozona. De Cecco ha fatto notare come la Germania sia diventata una “hub industriale” per i suoi Paesi limitrofi.
E’ questo un giudizio duro sul grandioso progetto di integrazione europea, ma è purtroppo realistico. Senza l’Unione europea si starebbe indubbiamente peggio, essa offre opportunità di coordinamento e cooperazione, certo, ma non è un grande consolazione. Oggi l’Irlanda, un tempo fiore all’occhiello del processo d’integrazione, essendo passata da terreno da pascolo e poesia, ad una delle eurozone più ricche e tecnologicamente avanzate (si diceva grazie all’intelligente impiego dei Fondi strutturali), è in preda alla più severa delle crisi economiche, dovuta all’azione parassitaria che su di essa hanno compiuto i capitali attratti dalla bassa tassazione. Il deficit pubblico irlandese sarà pari al 12 per cento, così come il tasso di disoccupazione. Le imprese tecnologiche come Dell, che ne avevano fatto la gloria, sono in fuga; i prezzi delle case di Dublino crollano rovinando i cittadini che si erano indebitati per comprarle. Molti manuali di economia dovranno essere riscritti nel capitolo “miracolo irlandese”, mentre circola la battuta: “Cosa distingue Irlanda e Islanda (il Paese che è andato in bancarotta)? Una lettera e sei mesi di tempo”. Gli speculatori di tutto il mondo scommettono in questi giorni sulla prossima fine dell’euro, puntando soprattutto contro i “Pigs” (Maiali: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), fatto riscontrabile dal differenziale dei tassi di interesse sul debito pubblico tedesco, rispetto a quello dei Paesi mediterranei. In Grecia e in Italia esplodono rivolte di giovani e precari che perdono speranze di lavoro, e sono costretti a tornare all’emigrazione.
Lo stesso dicasi per i Paesi del Baltico, sconvolti da ondate di protesta come non se ne vedevano dal crollo dell’Unione Sovietica. Ogni Paese europeo, per suo conto, e in assenza di qualunque forma di coordinamento della spesa da parte dei Venticinque, traccia piani economici per sostenere i consumi interni, contenere la povertà di massa, sovvenzionare imprese e banche, il settore dell’automobile. Lo fanno i socialisti di Zapatero, cosi come gli ex fascisti di Berlusconi, ma senza prospettare alcun modello alternativo economico per il dopo crisi, in cui le scelte possano passare dal totale arbitrio di capitalisti a finanzieri a un maggior ruolo per i lavoratori, utenti dei servizi e cittadini, in cui i destini di relazioni umane e di ricchezze sociali e culturali non siano totalmente in balia dell’arbitrio dell’attuale mercato deregolato. Con la crisi si rafforzano i sentimenti regionalisti che stanno indebolendo le solidarietà nazionali, fino a rischiare di spaccare a metà il Belgio, la Spagna, l’Italia, nella totale assenza di un progetto del socialismo europeo che abbia una vocazione internazionalista, non dico mondiale, ma almeno europea.
Sperare che questa crisi possa contribuire a far ragionare i socialisti europei sulla loro costante perdita di adesioni in favore, sia della destra che di partiti della sinistra radicale e ambientalista, è forse troppo?
Ma senza un nuovo programma del socialismo europeo che faccia i conti finalmente con il fatto che la strategia di Lisbona non può essere considerata una risposta adeguata alla fine del mondo del comunismo e al permanere delle attese che avevano portato ad esso,il socialismo europeo è destinato progressivamente, ma inesorabilmente, a scomparire.

Giuliano Garavini

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