La crisi, il “vecchio” e il “nuovo”

1. La crisi, oramai è noto a tutti, è diventata una cosa molto seria. La produzione manifatturiera, nei maggiori paesi avanzati, cade a tassi del 12-15% annuo, in Giappone addirittura del 30%. Le esportazioni, dalle quali dipende in modo decisivo il Pil di molti paesi, si avvitano verso il basso a tassi che superano, molto spesso, il 20% su base annua (ad esempio, per la Cina si stima che la caduta sia stata del 26% circa) e, in qualche caso, raggiungono vette ben più alte, come nel caso giapponese: -46%. La crisi non risparmia i paesi in via di sviluppo, spesso molto dipendenti dalle esportazioni verso il mondo avanzato, con il grave effetto di spingere un grande numero di persone sotto la soglia della povertà estrema. I progressi che, secondo molti, qualche decennio di globalizzazione aveva consentito di ottenere a questo riguardo, rischiano di svanire in pochi mesi, anche per la facilità con cui la crisi si propaga in un mondo, appunto, globalizzato.

Ancora, e inevitabilmente, l’occupazione cade, in modi che risentono delle specificità nazionali dei mercati del lavoro e dei sistemi di Welfare. In Italia, secondo l’Istat, nel 2008 il tasso di disoccupazione ha ripreso a crescere, dopo 9 anni di caduta ininterrotta: 6,7% contro il 6,1% dell’anno precedente. Nella valutazione di questo dato si deve tenere conto sia del fatto che la situazione è probabilmente molto peggiorata nei primi mesi di quest’anno sia di un altro aspetto molto preoccupante e già manifesto: la concentrazione della caduta dell’occupazione nel Mezzogiorno, dove circa 130.000 persone, hanno perso il proprio posto di lavoro nel corso degli ultimi tre mesi del 2008. Dunque, del tutto prevedibilmente, la crisi ha impatti territoriali diversificati che rischiano di aggravare distanze che nel nostro paese sono già gravi.

Di fronte ai dati sulla caduta della produzione industriale e delle esportazioni, dà quasi con sollievo leggere le stime che circolano sulla probabile caduta del Pil nel corso del 2009. Per l’Europa si parla, in generale, di una riduzione dell’ordine del 4% che un anno fa ci avrebbe condotto alla prostrazione ma che oggi, tenendo conto anche dei dati elencati in apertura, forse sottoscriveremmo senza troppi indugi.

In realtà il processo di avvitamento verso il basso in cui è incappata l’economia mondiale potrebbe essere più drammatico. Questo processo, che può assumere forza inaudita in assenza di correttivi, si alimenta della perversa interazione tra riduzione dei redditi, della domanda e dell’occupazione, in un contesto dominato dal deterioramento della fiducia, descritta con impeccabile chiarezza, oltre 70 anni fa, da Keynes. Questa perversa interazione può ulteriormente essere rafforzata dal prosciugarsi del credito, che è indispensabile per sostenere la domanda e la produzione. E questo è quello che sembra stia accadendo in un buon numero di paesi. Di fronte a tutto ciò è inevitabile chiedersi: “che fare”? E, soprattutto, è sufficiente quello che si sta facendo?

2. Rispondere a questi due quesiti non è facile. Anzitutto, mancano i dati necessari per definire con precisione una strategia e per valutarne i costi. Ad esempio, molte incertezze gravano ancora sull’entità dei titoli “tossici” in circolazione e sulla loro distribuzione, dalle quali dipendono le complessive strategie che l’intervento pubblico dovrebbe seguire.

In secondo luogo, e soprattutto, la risposta a questi quesiti dipende dagli obiettivi prioritari che si ritiene debbano essere raggiunti e, eventualmente, con quali costi. Chi ritenesse che l’obiettivo prioritario debba essere semplicemente quello di “frenare la crisi”, senza ulteriori qualificazioni, cadrebbe in errore: perché, palesemente, non è questo l’obiettivo prioritario per molti importanti attori, politici e accademici; perché, comunque, occorre misurarsi – eventualmente anche per considerarlo irrilevante – con il problema del “dopo crisi” e del lascito che potrà scaturire dalle misure di oggi.

In realtà, molti manifestano una preoccupazione per gli scenari futuri così viva da far nascere l’impressione che nella loro valutazione i rischi a cui milioni di persone sono oggi esposte in caso di aggravamento della crisi, siano meno importanti della probabile deviazione del sistema che verrà da quello che essi stessi considerano ideale. Mi riferisco a quanti avversano l’espansione della spesa pubblica, ovviamente in deficit, e un’eventuale ingresso dello stato nella proprietà delle imprese e delle banche sulla base dell’anticipazione che un sistema così – una volta tornata la normalità – sarà gravato da drammatici difetti e distorsioni, quelli che la storia passata ci avrebbe mostrato con chiarezza. Al di là dell’interpretazione di quello che la storia avrebbe mostrato (non si dovrebbe dimenticare il contesto in cui la crisi è nata e si è sviluppata) resta la domanda: se la conservazione di un modello di capitalismo con poco stato e poca spesa pubblica implicasse una drammatica e non risarcibile perdita di benessere per milioni di persone, quasi sempre già inizialmente in difficoltà a raggiungere un tenore di vita dignitoso, non dovremmo preoccuparci piuttosto poco della deviazione dal modello “ideale” futuro? E, inoltre, cosa impedisce di operare perché ciò che è necessario oggi non sia dannoso domani, immaginando processi reversibili rispetto ai quali la pressione, anche politica e intellettuale, di domani potrà fungere da garanzia? Per molti, evidentemente, non è così e, dunque, la loro valutazione di cosa occorrerebbe fare e di cosa si sta facendo si discosta da quella di chi, avendo altri obiettivi, dà un peso rilevante alla perdita immediata di benessere e pensa che si possano correggere in corso d’opera gli eventuali indesiderabili lasciti di questa stagione di straordinari interventi pubblici.

3. Con questi obiettivi in mente si possono individuare due cose molto importanti che oggi dovrebbero essere fatte: frenare tempestivamente la terribile spirale della crisi; fissare la cornice di un nuovo sistema, possibilmente sottratto ai rischi ai quali è stato esposto quello sperimentato, in gran parte dei paesi ricchi, negli ultimi decenni. Entrambi i compiti, è bene dirlo, sono estremamente complessi e gravosi.

Rispetto al primo, per frenare la spirale discendente e cercare di allestire un “pavimento” per il rimbalzo dell’economia, non sembra che vi siano misure migliori di un’azione congiunta a sostegno della domanda e del credito necessario perchè gli stimoli fiscali si esplichino efficacemente. Dunque non solo politiche fiscali espansive ma anche politiche monetarie e creditizie adeguate a creare flussi adeguati al raggiungimento di un elevato livello di occupazione. Una politica di questo tipo è illustrata con chiarezza in un bel libro, proprio di recente pubblicato da due prestigiosi economisti, Akerlof e Shiller, dal titolo inequivocabilmente keynesiano: Animal Spirits.

Difficilmente di può dubitare che quasi tutti i paesi occidentali necessitano di una ricetta simile, anche se la sua declinazione dovrrà tenere conto di importanti specificità nazionali.

Negli Stati Uniti di Obama sono state compiute scelte che corrispondono, almeno nell’insieme, a questo schema di riferimento. Politica fiscale, politica monetaria e del credito sono mobilitate in questa direzione e in modo coordinato.

In Europa le cose stanno piuttosto diversamente. Il problema non è solo, o prevalentemente, quello – pur rilevante – della entità delle risorse messe a disposizione della politica fiscale, generalmente considerate insufficienti. Fare confronti, a questo riguardo, tra l’ampiezza della manovra europea e quella statunitense può essere più complesso di quanto normalmente si ritenga, perché, ad esempio, noi disponiamo di un sistema di Welfare più esteso che automaticamente attiverà spesa quando la disoccupazione lo renderà necessario (ma chi non è coperto da quel sistema, come avviene in Italia per i lavoratori atipici, avrà ben poco da trarre da questo sistema).

Il problema è anche quello del coordinamento degli aspetti fiscali, monetari e creditizi. Il nodo, ampiamente discusso, della sostanziale assenza di una politica fiscale europea e, soprattutto, del difetto di coordinamento con la politica monetaria torna drammaticamente al pettine, con conseguenze potenzialmente molto gravi. Inoltre, e forse soprattutto, c’ è il solito problema di superare le logiche nazionali che conducono, praticamente in modo certo, a esiti peggiori per tutti, proprio a causa del difetto di coordinamento, che vuol dire assenza di “visione complessiva” di un problema, appunto, “complessivo”.

Sulla seconda questione ben poco si è fatto anche se abbastanza si è discusso, ma in modo piuttosto inconcludente e soltanto rispetto a un punto: quello della riforma della regolazione finanziaria. Tutto ciò è deludente perché non si tiene conto del fatto che non soltanto nella debole regolazione finanziaria si nascondevano i problemi – anche se certamente lì ve ne erano di gravi e numerosi. Occorre una riflessione rinnovata e approfondita sui rapporti tra stato e mercato e sugli obiettivi verso i quali orientare le politiche, sottraendo alla crescita economica (per di più immediata) il ruolo di traguardo unico. Preoccuparsi un po’ di più delle disuguaglianze – anche se questo implicasse di macchiare il proprio modello ideale di economia di mercato e la propria devozione alla crescita massima – appare quanto mai raccomandabile. Senza poter troppo approfondire questo punto, vale forse la pena di ricordare che se oggi chiamiamo “crisi” quel che accade, per molti la “crisi” è in atto da molto tempo, ben prima che i grandi aggregati, reali e finanziari, flettessero drammaticamente verso il basso.

Dunque, del futuro assetto si discute poco; più di frequente, come si è ricordato, si evoca il pericolo che per frenare la crisi si allestisca un sistema – guardato con ogni sospetto – caratterizzato da estesisa e irreversibile presenza pubblica. Ma cosa impedisce di affrontare con maggiore serenità e serietà questo problema? Anche per ricostruire la fiducia, occorrerebbe sapere che qualcuno è impegnato a disegnare un sistema nuovo, migliore di quello che abbiamo conosciuto, e non soltanto perché meno esposto al rischio di crisi finanziarie. In realtà si ha l’impressione che domini – con qualche limitata eccezione – un forte, e largamente ingiustificato, attaccamento al “vecchio”. E questa non sarebbe davvero una buona notizia. Le crisi, si dice, hanno di buono che costringono a pensare il “nuovo”. Che motivi abbiamo per ritenere che la crisi in corso rispetterà questa previsione?

4. Non ne abbiamo molti, almeno per ora. Obama certamente è “nuovo” e molto ha innovato nel suo paese. Ma non è (ancora?) abbastanza “nuovo” in alcuni importanti aspetti. Non si vede il nuovo modello, né nei suoi contorni più generali, né rispetto a questioni specifiche e di sicuro urgenti come, appunto, la regolazione finanziaria su cui ben poco si sa delle scelte americane. Il sospetto che a frenare il nuovo, almeno in alcuni ambiti, siano potenti e forse ben rappresentate lobbies non può essere facilmente messo a tacere. Il rischio è che il “vecchio” torni, nella sua pienezza, non appena il piano Obama raggiungerà, come si spera, i suoi risultati.

Non molto “nuova” è l’Europa con il suo attaccamento a regole di policy che non sembrano giustificabili in questa fase, così come non sono “nuovi” taluni comportamenti piuttosto “conservatori” di importanti policy makers; decisamente non nuova è l’incapacità di superare definitivamente la zavorra delle prospettive e degli interessi nazionali.

E non “nuove” sono le posizioni sia di chi se la prende genericamente con il capitalismo e il liberismo sia, sul fronte opposto, di quegli economisti liberisti nostri connazionali molto impegnati a spiegare che, in fondo, la crisi non è da attribuire ai mercati ma alla politica. E’ lei, la responsabile, perché quei mercati non ha saputo adeguatamente regolare. Al di là di ogni altra considerazione, risulta difficile capire come questa idea si combini con le affermazioni di uno dei grandi artefici in negativo della non regolazione, Alan Greenspan a lungo responsabile della Federal Reserve, il quale, pochi mesi fa, ha candidamente dichiarato di trovarsi in uno stato di “sconvolta incredulità” di fronte all’evidenza che i mercati – contrariamente alle sue convinzioni – non erano stati in grado di autoregolarsi. Se i regolatori non regolano perché hanno fiducia nel mercato forse il punto di partenza dovrebbe essere un esame di quel che vi è di erroneo in questa fiducia, piuttosto che dare tutta la responsabilità alla politica. La quale, sia ben chiaro, di responsabilità ne ha molte. Ma proprio perché anche essa ne ha avute e potrà ancora averne si pone, con drammatica urgenza, il problema di pensare il “nuovo”, superando l’attaccamento al “vecchio” che gli interessi e le ideologie contribuiscono, perversamente, a rafforzare.

Chi potrà raccogliere questa sfida, che è quella che Keynes vinse negli anni ’30? Ci potranno aiutare idee come quella che è stata espressa da un autorevole economista italiano, Luigi Zingales, in un interessante dibattito avviato dall’Economist sulla seguente affermazione: “Siamo tutti Keynesiani”, che qui riporto in originale: “Keynesianism has conquered the hearts and minds of politicians and ordinary people alike because it provides a theoretical justification for irresponsible behaviour. Unfortunately, Keynesian economists ….. tell politicians, who are addicted to spending our money, that government expenditures are good…. In medicine, such behaviour would get you expelled from the medical profession; in economics, it gives you a job in Washington”. Ai posteri l’ardua sentenza.

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