La crisi e il territorio: Ancona e le Marche

La crisi economica e sociale nella città dorica mostra pochi segni esteriori: nelle piazze non vi sono tende di fabbriche occupate e in crisi, nessuno è salito sui tetti o sulle gru del Porto per protestare, gli stessi cortei di lavoratori che reclamano provvidenze e una diversa politica economica, non sono frequenti.

 

Eppure la crisi c’è, è profonda ed erode come un fiume carsico la struttura economica della città e con essa antiche e consolidate certezze.

 

Ancona, è noto, è una città economicamente composita, sembra vocata essenzialmente al terziario ma, accanto alla diffusa struttura commerciale ed artigianale, si è venuta a consolidare una struttura manifatturiera che occupa svariate migliaia di persone. E’  in primo luogo una città di servizi, quelli pubblici con le strutture degli Enti comunali, provinciali, regionali e dello stato, e quelli che fanno capo alla estesa struttura sanitaria.

Questi Enti nel complesso, rappresentano oltre diecimila stipendi sicuri ogni mese – a cui vanno ad aggiungersi le circa 29.000 pensioni erogate, in media 760 euro, alcune con tutta evidenza cumulative, segno comunque di una città che invecchia precocemente – che certo hanno svolto e svolgono una funzione cuscinetto al fine di evitare effetti devastanti della crisi.

 

I  nomi di alcune aziende sono divenuti simboli di lotte per evitare nuova disoccupazione. E’ il caso della AETHRA, modernissima azienda informatica, l’innovazione fatta impresa, che occupa oltre 250 lavoratori e rischia la chiusura. Le cause? Mancanza di liquidità unita ad un’evidente incapacità gestionale.

Con la mediazione di Comune, Provincia e Regione – tutte governate dal PD e dal centro-sinistra –  si è cercato un acquirente e sicuramente le componenti più appetibili dell’impresa verranno cedute alla concorrenza, mentre quelle più tradizionali saranno inevitabilmente destinate alla chiusura lasciando a terra oltre la metà dei dipendenti.

 

Dal mese di novembre verrà collocato in cassa integrazione un terzo dei seicento dipendenti del Cantiere Navale (Fincantieri) che provocherà anche gravi ripercussioni occupazionali tra la miriade delle imprese in subappalto. Oggi, per ogni “arsenalotto” vi sono tre dipendenti delle ditte  appaltatrici (un rapporto rovesciato rispetto a 15/20 anni fa), relegati in lavori poco qualificati e dove è ovviamente diffusa la presenza di lavoratori immigrati, spesso sottoposti ad odiose discriminazioni (il loro contratto non consente di usufruire della mensa aziendale, diversi  di loro vivono in baracche di legno all’interno del perimetro aziendale). Spesso a sera queste persone  frequentano la mensa della Caritas; pochi si sono realmente impegnati per un loro inserimento nella vita sociale della città.

 

I Cantieri Crn di patron Ferretti hanno, sul mercato dei panfili e yacht di lusso, un buon nome. Non mancano le commesse da parte di vecchi e nuovi nababbi, dagli sceicchi di qualche paese arabo a quelli nostrani. Le ragioni delle attuali difficoltà nascono dal fallimento del garante finanziario inglese. Ci sono problemi di liquidità e con le banche, si sa, c’è poco da scherzare.

 

La liquidità è il problema che affligge l’impresa diffusa nel territorio, insieme a quella artigianale e commerciale che rappresenta  l’ossatura della struttura economica dell’intero territorio regionale. La Regione lo ha ben compreso e da mesi ha stipulato un accordo con la banche, mettendo a disposizione fino a 20 milioni di euro per dare nuova linfa al sistema di finanziamento delle imprese confidando su un effetto moltiplicatore. A livello locale si tratta della metodologia teorizzata da Tremonti, senza però i condizionamenti dei criticati Bond.

 

Ad oggi, gli effetti negativi della crisi si estendono all’insieme del territorio e del tessuto economico, ad esempio: nel primo semestre 2009 per la prima volta, la Cassa delle imprese artigiane in città  ha registrato una riduzione delle imprese attive.

Recentemente, ai primi di ottobre, si è svolto il congresso regionale della CNA (Confederazione Nazionale Artigianato) e con alcuni numeri si è dato il senso profondo della crisi: complessivamente 353 imprese in meno, con la perdita di circa mille posti di lavoro che hanno riguardato sia i settori trainanti del cosiddetto modello marchigiano (meccanica meno 111, abbigliamento meno 89, mobile meno 85, calzature meno 65) che settori più tradizionali come le  costruzioni (meno 128) ed il  commercio (meno 34).

Anche l’ UNIONCAMERE delle Marche in una recente elaborazione documenta che nei primi sei mesi dell’anno le imprese attive nelle Marche sono diminuite di 1.114 unità, in particolare nell’agricoltura (-533), manifatturiero (-290), il commercio (-219) e le costruzioni (-171).

 

Ad Ancona vi è, come in tutto il Paese, un restringimento dei consumi; una struttura della Grande Distribuzione Organizzata, la EMMEZETA, ha chiuso i battenti. Nella GDO molti contratti  individuali a termine (che riguardano nel complesso il 20-25% dei dipendenti) non vengono rinnovati, provocando così l’uscita silenziosa dal mercato del lavoro di  centinaia di persone.  Nella rete capillare di imprese commerciali non c’è posto per nuove assunzioni. Spesso vengono modificate le forme contrattuali, passando da dipendenti con contratto a termine a contratti ad intermittenza, il lavoratore viene chiamato a fine settimana o quando semplicemente c’è  lavoro.

 

Per i precari del pubblico impiego ci sono stati segnali sia positivi che negativi: il Comune e la Provincia hanno provveduto assorbendo i propri, circa 150 dipendenti ognuno; nella sanità, a livello regionale ve ne sono duemila in attesa; nella scuola, grazie ai provvedimenti della Gelmini, saranno un centinaio solo in città i precari che diventeranno disoccupati.

 

La precarietà oggi è codificata nei contratti di lavoro. I dati che però emergono dall’analisi statistica sono al di là di ogni immaginazione: le assunzioni realizzate in città nel secondo trimestre 2009 ammontano a 5.655, con una forte riduzione rispetto allo stesso periodo del 2008 che ne contava 6.543.

 

 Le modalità contrattuali sono le seguenti:

– contratto a tempo determinato        2.267 (2.932)

– somministrazione                           1.144 (1.345)

– contratto a  tempo  indeterminato      718    (939)

– collaborazioni                                   601    (468)

– intermittente                                      339       (2)

– apprendistato                                    232    (319)

– prestazioni occasionali                       198    (263)

– lavoro domestico                                86     (207)

– formazione                                          19      (37)

– altro                                                    51      (31)

 

Come si può constatare, i contratti a tempo indeterminato, il cosiddetto “posto fisso” che in realtà non lo è mai stato perché sempre soggetto ai sobbalzi del mercato, copre  ormai un misero 12% dell’insieme dei nuovi occupati.  Questa insicurezza nel lavoro si tramuta facilmente in insicurezza sociale, mina il ruolo del sindacato nel posto di lavoro e nella società, rende tutto precario, compresa l’adesione alla democrazia.

 

Nel contempo sono particolarmente significativi i dati della disoccupazione e quelli degli iscritti alle liste di mobilità, così come risultano dalla documentazione del Centro per l’impiego della Provincia di Ancona per il periodo Gennaio- Agosto 2009 comparato col medesimo periodo 2008.

Cominciamo con la disoccupazione, nel CIOF (Centro per l’Impiego, l’Orientamento e la Formazione) di Ancona (il capoluogo più 11 comuni limitrofi) risultano iscritte 5.224 persone (nel 2008, 3.410), più 53%; nell’insieme della Provincia sono 11.096 (2008, 7.664), più 44%.

Liste di mobilità 2009, nel CIOF di Ancona: 1.116 iscritti, il periodo precedente 533, con un incremento del 109%; nell’intera Provincia a fine Agosto risultano iscritte 2.679 persone rispetto ai 1.528 del periodo precedente, con un incremento del 75,3%. Nello specifico della città di Ancona, risulta nei primi sei mesi del 2009 – rispetto ad analogo periodo dell’anno precedente – che si è  passati da 121 agli attuali 342, con un incremento del 182%. A Castelfidardo, Comune alle porte di Ancona di antica tradizione industriale ed artigianale, si è passati da 33 a 193 unità (+484%).

Il settore più colpito è quello meccanico (+369%), segue quello “altre industrie” (+ 333%) e quello del commercio (+ 148%).

Smentendo ogni facile impressione, i dati dimostrano che la crisi morde forse più la città che la Provincia.

 

I dati della Cassa integrazione documentano ulteriormente la gravità della crisi. Seguono i dati della provincia di Ancona delle ore complessive (ordinaria più straordinaria) autorizzate nel periodo gennaio-settembre: 756.002 (2007); 2.177.307 (2008); 6.042.219 (2009). Nell’intera regione risultano: 2.061.344 (2007); 4.529.804 (2008); 15.504.198 (2009). Come dire, ogni commento sembra proprio superfluo.

 

I riscontri nel tessuto sociale sono semplici ed immediati: aumenta l’emarginazione sociale, documentata peraltro anche dall’affollamento presso le strutture della Caritas per usufruire di un pasto caldo, non più frequentato solo dai cosiddetti “barboni”, ma anche da lavoratori dipendenti ed impiegati, cittadini immigrati e anconetani.

Nascono tensioni con gli immigrati, che tendono ormai a raggiungere il 10% della popolazione residente. Ce ne ha parlato preoccupata il nuovo assessore all’economia del Comune di Ancona, Romana Mattaloni, rilevando che “fino ad oggi l’inserimento degli immigrati nella quotidianità cittadina non aveva creato problemi di sorta. Con la crisi lo spirito di accoglienza tende ad affievolirsi, si sono verificate anche alcune risse. In alcuni quartieri particolarmente degradati e popolati dagli immigrati vi sono state contrapposizioni persino per le frequentazioni scolastiche”.

Nel contempo, a causa dei costi non da tutti sostenibili, è stata registrata una diminuzione del numero delle richieste per usufruire delle mense scolastiche.

 

Il paradigma principale per capire l’economia della città e dell’insieme dell’economia locale, provinciale e regionale, è lo stato di salute del Porto con i suoi traffici mercantili. Non c’è da stare allegri.

Il 2008 si era chiuso con un lieve incremento che rispecchiava l’andamento altalenante del primo semestre con una crescita produttiva complessiva ed un secondo semestre con un raffreddamento  che avrebbe poi conosciuto nel corso di quest’anno momenti di maggiore difficoltà.

Nei primi nove mesi dell’anno in corso, il traffico delle merci registra un calo complessivo del 7%, ma il dato reale, al netto del trasporto collegato alla raffineria dell’Api, riferito alle merci solide che viaggiano sui TIR, indica un calo del 19%.

Nello specifico i prodotti metallurgici diminuiscono del 58%, quelli minerali del 66%, i cereali e i semi oleaginosi del 15%.

Il Presidente della Compagnia Portuale, Elio Libri, ci parla di un fenomeno nuovo come sintomo peggiore della crisi: sia nell’export che nell’import viaggiano molti contenitori vuoti e questo contraddice ogni logica economica. La crisi nei settori degli elettrodomestici, dei mobili, della siderurgia di Terni, si tramuta in una drastica riduzione dei traffici mercantili. Libri usa espressioni dure, “il porto sta morendo”, per denunciare il mancato rinnovamento delle attrezzature (“abbiamo gru obsolete, di 25 anni fa, che muovono 12 tonnellate, mentre oggi una moderna ne muove oltre 100”). Ci parla di banchine insufficienti, della mancanza di spazi, del fatto che non viene  dragato  lo specchio portuale da oltre 20 anni, che si fanno molte chiacchiere – l’autorità portuale in primis – ma in concreto non si fa nulla”. Ci sarà la ripresa economica, ma noi rimarremo indietro”,  è il suo commento.

Un dato pubblicato negli studi della Camera di Commercio di Ancona conferma la significativa  flessione dei traffici mercantili mostrando la riduzione del valore delle merci esportate della Provincia di Ancona: nel primo trimestre di quest’anno ammontava a 687 milioni di euro rispetto ai 957 milioni dell’analogo periodo dell’anno scorso, un calo del 28% (in Italia, nello stesso arco temporale, la diminuzione è stata del 22,8% ). Confrontato col medesimo periodo di due anni fa, la riduzione ammonta a oltre 500 milioni, pari al 43,5%. E’ la conseguenza della caduta dell’export del settore manifatturiero, in principal modo degli apparecchi per uso domestico, cioè la Merloni di Fabriano.

 

La consapevolezza della crisi è diffusa al di là di ciò che può apparire alla superficie. Nei primi mesi dell’anno i sindacati confederali avevano sottoscritto un accordo con la Regione Marche per la istituzione di un”Fondo di solidarietà” per far fronte alle conseguenze sociali più drammatiche, sostenere i redditi dei lavoratori colpiti, estendere i contratti di solidarietà, prevedere la deroga per la concessione della cassa integrazione per tutte le imprese sotto i 15 dipendenti per l’industria (tutto l’artigianato) ed i 50 per le strutture commerciali. A tal scopo sono  stati messi a disposizione circa 60 milioni di euro, più altri dieci destinati alla formazione, per il solo 2009, utilizzando fondi europei. Misure efficaci?

Sono misure che nell’immediato hanno attenuato l’incremento pur significativo della disoccupazione, che dovrebbero essere rinnovate per il prossimo anno, salvo parere contrario di Bruxelles per un uso distorto di propri fondi. Fanno fronte all’emergenza sociale, ma non modificano minimamente le cause della crisi, per questo molti si interrogano sulla loro reale efficacia.

A fine settembre si è riunito in seduta straordinaria il Consiglio Comunale aperto alle rappresentanze sindacali ed imprenditoriali. Nell’Aula sono echeggiati molti allarmi e denunce, ma  poche proposte e riflessioni sul futuro.

Il segretario della Camera del Lavoro Marco Manzotti, ha confermato il dato relativo al raddoppio  del numero dei disoccupati e degli iscritti nelle liste di mobilità, l’aumento esponenziale della cassa integrazione (“nei primi sei mesi del 2009 le ore richieste sono state un milione e 800 mila contro le 180 mila dell’anno scorso”) per poi reclamare “politiche sociali, anche da parte del Comune, che favoriscano le categorie più esposte”.

 

Pochi giorni dopo è stata resa pubblica una iniziativa che in altri tempi sarebbe stata clamorosa: sindacati e confindustria regionale, che fino a pochi giorni prima diffondevano analisi contrapposte sulla profondità ed estensione della crisi, hanno scritto unitariamente una lettera al governo nazionale per sollecitare l’approvazione degli Accordi di programma già concordati con la Regione, e dunque immediati interventi per rilanciare l’economia. Le parole usate sono ben più pesanti delle pietre evocate a suo tempo da Carlo Levi: “le aree del piceno e del fabrianese risultano quelle maggiormente in difficoltà ed è in queste zone che si localizzano le situazioni di crisi più gravi. In queste aree si vive un vero e proprio stato di emergenza: il momento socio economico più preoccupante dal secondo dopoguerra”.

 

Contemporaneamente Gianni Venturi, segretario regionale della CGIL, parlava di “situazione pesante, di dati drammatici” e denunciava che i lavoratori in gravi difficoltà (Cassa integrazione, mobilità, ecc.) ammontavano nell’intera Regione ad oltre 45 mila.

 

Non posso non completare questa rassegna sulla crisi sociale ed economica delle contrade anconetane e marchigiane, senza ricordare che recentemente il Sole 24 Ore ha pubblicato prima la graduatoria del BIL, ovvero il benessere interno lordo, elaborata con parametri che premiano la qualità del vivere piuttosto che dati quantitativi, da cui risulta che tutte le quattro province marchigiane (quella di Fermo non è valutata autonomamente) sono tra le prime dieci del Paese;  poi il quotidiano di Confindustria ha elaborato su dati Istat una classifica delle Regioni considerando la crescita del PIL nel periodo 1998-2008, depurata dagli effetti inflazionistici, da cui risulta  che le Marche con più 18,2% è la prima regione in Italia.

La crisi è venuta dopo, nell’autunno 2008. Nessuno ha messo in atto politiche  per contrastarla efficacemente. Ci si è affidati, chi più chi meno, alle banche e al fato. Non si è prospettata una politica economica diversa rispetto ai gruppi dominanti, il sindacato (la CGIL) è stato lasciato solo, comprese le sue debolezze. La centralità dell’impresa condivisa dall’insieme dello schieramento parlamentare ha fatto venire meno ogni analisi critica. Il peggio, secondo molti, deve ancora avvenire.

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