LA CRISI DI ROMA. Tendenze di lungo periodo e prospettive future

Alfredo Macchiati basa la sua interpretazione di lungo periodo della crisi di Roma sull’idea che essa sia sempre stata, secondo la tipizzazione di Adam Smith, una goverment town. Anche la fase a cavallo di questo secolo in cui è sembrato possibile un bilanciamento tra componente pubblica e imprenditoria privata diversificata, è stata solo una breve parentesi congiunturale. Macchiati sostiene che una politica di recupero della città debba partire dalla sua struttura produttiva e concentrarsi su alcuni ambiti distintivi, come l’economia culturale, la rigenerazione urbana e le infrastrutture.

Nella discussione sulla crisi di Roma si mette giustamente in luce come, al di là dei problemi dell’oggi (i trasporti, la raccolta dei rifiuti, il decoro urbano), pur acuti per il degrado che contribuiscono a determinare, sarebbero necessarie una progettualità e una visione sul futuro della città. Progettualità e visione da tempo drammaticamente assenti. E non a caso: da tempo, non si intravedono nella Capitale gli attori e le forze in grado di disegnare e realizzare un progetto che ne sani il malessere sociale, ne rilanci lo sviluppo economico e ne orienti l’evoluzione urbanistica.

Scopo di queste brevi note è contribuire alla riflessione sulle ragioni, di lungo periodo, non necessariamente legate all’attualità politica, della crisi romana; mi soffermo inoltre su alcuni aspetti della crisi che mi sono sembrati più rilevanti per una discussione sulle politiche possibili per una ripresa della città.

  1. Da quando divenne capitale del Regno d’Italia e poi della Repubblica, Roma è stata mal governata, pur con alcune eccezioni (la sindacatura di Nathan, la breve parentesi di Petroselli e la prima, ancorché in parte controversa, sindacatura di Rutelli). La ragione della perdurante inadeguatezza della politica locale romana deve essere ricercata, è questa la chiave interpretativa che propongo, nel mancato sviluppo capitalistico e delle forze produttive della città. E’ mancata quella che Marx chiamava la “funzione civilizzatrice del capitale”. E lo sviluppo delle forze produttive non è entrato in contrasto con i rapporti sociali di produzione che caratterizzavano prima lo stato pontificio, poi la città burocratica post unitaria, infine quella del secondo dopoguerra dominata dalla rendita edilizia. Le forme di produzione dominanti non sono mai entrate in contrasto con i rapporti sociali o vi sono entrate solo marginalmente. E le forme di relazione politico-istituzionali – che di quelle forme di produzione sono in buona parte espressione – nel corso dei centocinquantanni sono rimaste sostanzialmente arretrate, non si sono modernizzate.

 

  1. La debolezza della struttura produttiva è tratto persistente. Roma è sempre stata, ed è tutt’oggi, una goverment town, secondo quella efficace tipizzazione che risale ad Adamo Smith. Il che non vuol dire che non abbia attività economiche e produttive ma che queste sono decisamente minoritarie, da sempre. C’è stata una fase, a cavallo di questo secolo, in cui sembrava delinearsi una evoluzione positiva caratterizzata da un bilanciamento tra la componente pubblica e un’imprenditoria privata molteplice e diversificata, con un rafforzamento del “famoso” terziario avanzato. Ma era il frutto di alcune circostanze favorevoli (il fatto che Roma non avesse problemi di riassetto di grandi complessi industriali, una domanda pubblica sostenuta e l’eredità di una industria elettronica di un qualche rilievo che si era sviluppata già nel dopoguerrra). Quando è arrivata la crisi, quando l’innovazione tecnologica ha registrato una forte accelerazione, quando la domanda pubblica e di servizi alle imprese si è severamente contratta, quel modello ha mostrato tutti i suoi limiti. La famosa Tiburtina Valley – che sembrava dovesse divenire l’emblema di quella stagione e della Roma del futuro – è diventato luogo di emarginazione piuttosto che di innovazione e tecnologia.

Le capacità di recupero di fronte alla crisi si sono dimostrate limitate: rispetto al 2008, la Provincia di Roma registra, nel 2016, un incremento nel valore aggiunto del 2,7%; Milano del 10,8%. Dalla crisi emerge inoltre una quota prevalente dei settori a scarso contenuto di innovazione: alla fine del 2017 la quota di imprese operanti nel commercio all’ingrosso e al dettaglio (21,1%), nelle costruzioni (8,9%) nei servizi di alloggio e ristorazione (7,3%) copriva, complessivamente quasi il 40% delle imprese romane e il 25% in termini di addetti; tra il 2012 e il 2017 si registra l’esplosione della micro-impresa in settori a basso valore aggiunto, tipicamente destinati al turismo, come ristoranti (+17%) e affittacamere (+230%). Se è vero che le energie sociali si sono adattate alla crisi, va altresì sottolineato che la ricerca dell’equilibrio sembra essersi indirizzata verso modi di produzione a più basso contenuto di produttività e di innovazione.

La crescita dei servizi per il turismo riflette un notevolissimo aumento della domanda. A metà degli anni novanta il numero dei pernottamenti è di 5 milioni di turisti; nel 2018 sono stati 15 milioni. Restringendo lo spazio temporale agli anni più recenti, la crescita del numero dei pernottamenti dal 2010 è di quasi il 40%, anche se inferiore a quella di Parigi, Berlino e Milano. I dati più recenti indicano infatti una perdita della capacità di attrazione, che risulta inferiore a quella di altre grandi capitali europee, con un basso numero di giorni di permanenza media e una collocazione deludente (ventesima posizione) nella graduatoria delle capitali attrattive nel turismo congressuale (la cosiddetta MICE industry), notoriamente più ricco. La conseguenza è una spesa media bassa e con benefici economici che vanno condivisi con il Vaticano, proprietario di molte strutture turistiche.

In sintesi, una struttura produttiva storicamente debole che si va sempre più orientando verso i servizi per il turismo, ma che anche in questo settore sembra ritagliarsi una fascia di mercato low cost.

  1. Se questa è la struttura dell’economia romana le politiche pubbliche dovrebbero focalizzarsi sul rafforzamento dei settori distintivi piuttosto che cercare di costruire in settori dove la presenza imprenditoriale non c’è o è debole: rafforzare i settori dove il gap di competitività rispetto ad altre città è troppo elevato non appare una strada da intraprendere. In questa prospettiva si dovrebbe puntare alla valorizzazione dell’”economia culturale della città”. La cultura e le arti sono divenute uno dei punti di forza delle grandi città internazionali: creano posti di lavoro, attraggono investimenti, generano introiti fiscali, stimolano le economie locali attraverso il turismo; hanno anche delle esternalità positive sulle altre industrie in quanto inducono creatività e innovazione; possono aiutare lo sviluppo delle aree depresse all’interno delle città.

Walter Tocci (I sentieri interrotti di Roma capitale in Roma altrimenti a cura di G. Caudo, Roma edizioni Conversazioni su Roma, 2017) ha già proposto la costituzione di un polo di formazione sull’arte e la città, integrando l’offerta didattica delle tre università, delle accademie, dei musei, della stessa soprintendenza: un progetto di alta qualità scientifica a cui invitare anche le università straniere, con l’utilizzo di edifici pubblici scarsamente utilizzati. Questa ipotesi andrebbe sviluppata.

Ma una tale politica non sarebbe sufficiente. Dovrebbe essere affiancata dalla ripresa dei progetti di rigenerazione urbana che per più di dieci anni sono rimasti bloccati o, come nel caso dell’ex-Mattatoio, hanno dato risultati assai poco convincenti. Si potrebbe partire da un’agenda pubblica di priorità negli interventi di rigenerazione urbana, non limitati al centro storico, e poi un’agenda degli investimenti infrastrutturali più necessari. La conseguente ripresa nel settore delle costruzioni avrebbe certamente un effetto positivo sull’economia cittadina.

  1. La debolezza della struttura economica si è riflessa nella questione sociale. Anche questo è un tratto storico, di lunghissimo periodo ed è difficile stabilire se e come sia peggiorato, per non risalire troppo indietro nel tempo, rispetto alle analisi di Franco Ferrarotti e alle rappresentazioni pasoliniane della periferia romana degli anni sessanta. Al disagio sociale ha contribuito, nell’ultimo decennio l’imponente mutazione della geografia abitativa: negli anni tra il 2001 e il 2015 il centro e la periferia storica hanno visto ridursi il numero di abitanti del 7,6% mentre la periferia anulare registra un leggero aumento (+1,9%) e i quartieri esterni al GRA una crescita eccezionale del 31,3%.

La trasformazione urbanistica – con la realizzazione di una sorta di arcipelago insediativo a cavallo del GRA – è una delle caratteristiche della disuguaglianza sociale a Roma. A questa struttura urbana così diffusa corrispondono infatti acute differenze socio-economiche su cui esiste una ampia documentazione, soprattutto per merito di un gruppo di ricercatori dell’università di Roma Tre (si veda K. Lelo, S. Monni, F. Tomassi, Le mappe della disuguaglianza, Donzelli Editore).

Se modifichiamo la prospettiva e guardiamo alla città nel suo insieme, non alle differenze territoriali al suo interno, la dimensione della questione sociale presenta alcune aree critiche ben evidenti. Se, da un lato, il reddito medio per contribuente della Città metropolitana è il terzo dopo Milano e Bologna e si colloca in una posizione intermedia tra le città del Nord e quelle del Sud, sono invece preoccupanti gli indicatori del mercato del lavoro e del disagio occupazionale. Il tasso di disoccupazione (9,8% nel 2018) resta assai più elevato di prima della crisi (5,7% nel 2007), secondo una tendenza generale del paese ma che a Roma si manifesta in forma più elevata rispetto ad altre città metropolitane. Inoltre, un numero crescente di persone, pur trovandosi nel pieno dell’età lavorativa, rinuncia a cercare un lavoro, arrendendosi ad una condizione di inattività; insieme a quanti sono alla ricerca attiva di un lavoro, ammontano a Roma a circa 352mila persone. Una città nella città.

Potremmo concludere che Roma è una città con una disuguaglianza elevata rispetto alle altre grandi città italiane, con una situazione occupazionale preoccupante e con aree di disagio grave ed esteso. Della questione sociale, del malessere che attanaglia la città è preoccupante indicatore l’ostilità dei romani nei confronti dell’immigrazione: secondo un sondaggio dell’Eurostat, la percentuale di cittadini che nel 2015 considerava non positiva la presenza di stranieri nella propria città (47%) è la più alta tra le città europee dopo Atene (a Berlino è il 16%).

Uno sviluppo urbano più equilibrato ed inclusivo resta un obiettivo decisivo per un diverso futuro della città: se non si ridà fiducia nella capacità della politica di garantire alcuni servizi essenziali ma anche di creare maggiori opportunità nel mercato del lavoro non si ripristina un minimo di coesione sociale.

  1. Il disagio sociale si traduce inevitabilmente in una domanda di politiche redistributive. Ma queste, così come la gestione dei servizi, risentono, oggi più che in passato, di una “macchina comunale” (governance, capacità amministrative, risorse finanziarie) disfunzionale, inadeguata. Gli assetti istituzionali dei rapporti tra Comune e Regione generano, in estrema sintesi, “relazioni non cooperative” – oscillanti tra subalternità e interdizione – tra sindaco e governatore con effetti negativi per il funzionamento della città. Di qui la discussione sui nuovi assetti di governance, con il rafforzamento della Città Metropolitana e la trasformazione dei municipi in Comuni. Non è chiaro però come si dovrebbero riorganizzare le competenze dei nuovi enti. E’ evidente il rischio di una valutazione tutta politica, dove il fattore più importante è solo a chi si ridistribuisce il potere sulle leve di spesa più rilevanti (sanità, trasporti).

Per quanto riguarda la capacità dell’amministrazione, a parte le notizie di cronaca più o meno recenti, come il rifiuto di usare la posta certificata, la incapacità/nolontà di organizzare le gare e l’esercizio discrezionale, non scevro da profili corruttivi, del potere burocratico, sembrano emergere un’attitudine e una cultura amministrativa assai preoccupanti. Walter Tocci è stato testimone di una stagione diversa, più positiva come ha raccontato in uno dei suoi libri (Roma Non si piange su una città coloniale, goWare 2015). Trovare una risposta al perché quella stagione di impegno attivo dei dipendenti comunali sembra essersi esaurita sarebbe un bel esercizio per gli esperti di organizzazione.

Infine, le risorse finanziarie. Come noto, vi è un debito pregresso la cui emersione e gestione fu anche frutto di una speculazione politica negli anni 2008-2010 e che peraltro viene rimborsato dai romani solo in misura minima. Marco Causi ha scritto qualche mese fa un articolo su Huffington post in cui ricostruisce puntualmente quella vicenda e gli effetti finanziari (a cui vanno aggiunti quelli politici) che ancora oggi genera. Nel contempo le risorse correnti riflettono un sistema, quello dei costi standard, che determina una sostanziale conferma dello status quo nell’attribuzione delle risorse finanziarie ai Comuni, senza tener adeguatamente conto della domanda di servizi che non viene soddisfatta con i fondi storicamente messi a disposizione. Il che solleva, mi pare, un rilevante problema che non riguarda soltanto Roma.

  1. Possiamo essere ottimisti sul futuro di Roma? Nella risposta a questa domanda non si può ignorare che la crisi di Roma, che è anche crisi della sua capacità di essere capitale, si colloca in una fase storica in cui l’idea risorgimentale dello stato unitario è da tempo in crisi e le spinte centrifughe sono forti e crescenti. In epoca di autonomie regionali differenziate, di divaricazioni apparentemente irreversibili nella crescita economica tra Nord e Sud, la possibilità che il resto del Paese concorra per recuperare il ruolo di Roma, per risolvere la “nuova questione romana”, appare piuttosto remota. Il che non esclude che nelle infrastrutture e nella rigenerazione urbana venga predisposto un piano con progetti esecutivi da discutere con il governo centrale.

Resta la speranza che lo stato di grave e perdurante prostrazione della Capitale produca una convergenza di forze e persone di diversa estrazione culturale e professionale con la rinuncia agli spiriti identitari e alle recriminazioni sulle colpe del passato più o meno recente: una sorta di “partito della città” ispirato al perseguimento dell’interesse generale.

* Questo testo è una sintesi, con alcune revisioni, di quello più ampio preparato per il seminario del 27 settembre “Quale futuro per Roma?” organizzato presso la FUIS da Etica e Economia. Il documento più ampio è disponibile al seguente link https://eticaeconomia.it/appuntamento/quale-futuro-per-roma/

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