La crisi di Roma: l’ingegneria istituzionale non basta

Walter Tocci afferma che per Roma è finito il ciclo iniziato a Porta Pia e si sono esaurite le tre rendite - centralismo statale, consumo del territorio e eredità storica – di cui finora ha beneficiato. Da qui derivano tante emergenze quotidiane e la necessità di nuove ambizioni: la funzione internazionale di Roma nella produzione culturale; la realizzazione di una moderna rete dei trasporti; il superamento del paradigma fordista dei servizi pubblici, la riforma istituzionale della capitale. Tutto ciò richiede una nuova classe dirigente che può nascere solo da una riscossa civica.

La crisi di Roma è più grave di come appare. Non voglio dire che ci sia qualcosa di più grave degli autobus in fiamme, dei rifiuti per strada, degli alberi che cadono addosso ai passanti, del discredito nazionale e internazionale. Tutto ciò è la superficie visibile, ma c’è una crisi più profonda.

È finito il ciclo storico iniziato a Porta Pia. Il vecchio modello di capitale non ha futuro. Siamo vissuti con tre rendite: il centralismo statale, il consumo immobiliare della campagna romana, il simbolo di un’immeritata eredità storica. Pur con tanti squilibri hanno trasformato un piccolo borgo papalino ottocentesco in una delle più grandi città europee. È evidente, però, che le rendite non funzioneranno più nel secolo appena cominciato. Quando di esaurisce un ciclo storico si aprono le buche non solo nelle strade, ma anche nell’economia, nella società e nella politica. E ciò apre domande difficili e appassionanti: quale forma urbana si darà Roma? Come potrà rielaborare l’antico nella produzione culturale contemporanea? E soprattutto di che cosa vivrà? Che è la domanda di Alfredo Macchiati nell’articolo sulla struttura economica.

Ci sono tante emergenze da risolvere, affanni quotidiani da affrontare, servizi da migliorare, ma si possono fare le piccole cose solo avendo in mente un’ambizione per il secolo nuovo. Non vale il contrario: se manca l’ambizione non si realizzano neppure le piccole cose, come è sotto gli occhi di tutti.

  1. Nella globalizzazione Roma non ha ancora giocato la sua carta migliore di essere città del mondo. La funzione internazionale si misura nella capacità attrattiva dei giovani. Sono loro che indicano le tracce dell’innovazione urbana, come si è visto a Berlino negli ultimi venti anni.

Purtroppo, qui si registra la principale inadeguatezza. Non solo non arrivano ma c’è un esodo di giovani verso l’estero. Eppure per tutta l’epoca moderna il viaggio a Roma è stato un elemento irrinunciabile della formazione dei giovani creativi europei. Questa tradizione può essere rinnovata. Nel mondo c’è una crescente domanda di formazione specializzata.

Si può immaginare un polo mondiale di formazione sull’arte e la città. A realizzarlo dovrebbero essere chiamate le nostre accademie, gli istituti dei beni culturali, l’Auditorium e le università e i centri di cultura stranieri, circa un centinaio, che potrebbero diventare un formidabile veicolo di internazionalizzazione.

Anche le nostre università possono fare di più per la città. Dovrebbero essere coinvolte nel governo locale in modo sistematico. Basti pensare alla funzione decisiva che i due Politecnici di Torino e Milano hanno svolto nella transizione postindustriale. A Roma ci sono competenze scientifiche e tecnologiche perfino superiori, ma sono disperse nei dipartimenti e nei centri di ricerca. E invece potrebbero essere integrate – almeno nell’attività di ricerca, pur rimanendo distinte nelle organizzazioni accademiche – per costituire un virtuale Politecnico di Roma, in grado di guidare la transizione tecnologica della città.

  1. La priorità è la rete dei trasporti su ferro. C’è una grande opportunità non ancora messa a frutto: la conclusione dell’Alta Velocità ha alleggerito il traffico nazionale sulle ferrovie per Napoli e per la Toscana, le cui potenzialità non sono state ancora riutilizzate pienamente nel trasporto locale. È possibile dotare il territorio romano-laziale di una moderna rete di metropolitane regionali, come le S-Bhan tedesche o la RER parigina.

E basta con la favoletta che mancano i soldi per la cura del ferro. Negli ultimi venti anni il Comune non ha portato al Ministero nessun progetto esecutivo per il finanziamento di nuove opere di trasporto oltre quelle già in cantiere, nessun nuovo tram, metro o ferrovia. Mentre i politici romani ripetevano la cantilena dei soldi mancanti, gli amministratori di Napoli e Milano presentavano progetti esecutivi e ottenevano circa 4 miliardi di euro. Non mancano i soldi, mancano la volontà politica e soprattutto la capacità di elaborare progetti esecutivi.

Come si vede nel cantiere della metro C. Il tempo stringe: a fine anno la talpa che viene da San Giovanni arriverà al Colosseo e poi, come previsto dal contratto, proseguirà per un breve tratto fermandosi proprio sotto il Foro di Traiano. Se non si presentano al ministero i progetti per proseguire l’opera la talpa sarà abbandonata in profondità, perché diventerà impossibile tirarla fuori. Spero ancora che il Comune si svegli, altrimenti i futuri archeologi, fra cento anni, troveranno sotto il foro di Traiano realizzato dal grande Apollodoro di Damasco l’ammasso di ferraglie della talpa, come monumento alla miseria del nostro tempo.

  1. Soprattutto ci vuole molta determinazione per affrontare i due più grandi problemi di Roma: Atac e Ama. Diciamo la verità, non sono più servizi pubblici, sono pericoli pubblici. Sono pericoli per il bilancio comunale e soprattutto per la vita quotidiana della città. Sono carrozzoni inefficienti e corporativi che dissipano risorse all’interno e solo quello che avanza lo danno ai cittadini. Ed è sempre di meno. L’Atac oggi produce un servizio inferiore al livello per cui è finanziata dal Comune. Quindi i soldi ci sono ma non producono servizio per i cittadini. La media della produzione è diminuita del 30% rispetto ai primi anni Duemila, ma in periferia la diminuzione supera il 50%. In alcune borgate sono rimaste solo le paline a testimoniare che una volta ci passava l’autobus. Atac e Ama fanno male soprattutto alla povera gente. Questi carrozzoni vanno rivoltati come un pedalino, non solo per renderli più efficaci, ma per ripensarne la logica di funzionamento.

Le nuove generazioni non avranno più il mito dell’automobile in proprietà e useranno in modi intelligenti i mezzi della mobilità sostenibile, car-sharing, car-pooling, bici, pattini e altri mezzi tecnologici che verranno. Le aziende pubbliche del futuro dovranno sostenere questa capacità dei cittadini di scegliere diverse modalità di trasporto, dovranno integrare i mezzi innovativi e flessibili con le tradizionali reti fisse, e governare i big data dei flussi di mobilità. Analogamente, i rifiuti, invece di caricarli sui treni, almeno quelli biologici potrebbero essere usati come concime negli oltre tremila ettari di terreni agricoli di cui oggi è proprietario il Comune; sarebbe l’avvio dell’economia circolare.

Non abbiamo più bisogno di vecchie aziende pubbliche fordiste basate solo sulla forza lavoro di venti mila dipendenti, peraltro gestita molto male, ma di agenzie pubbliche che accompagnino i cambiamenti degli stili di vita. Il servizio pubblico del futuro consisterà nell’organizzazione dell’intelligenza sociale. Sarebbe fantastico se si affermasse una nuova idea di servizio pubblico proprio dove è naufragata la vecchia concezione.

  1. Oggi al governo si sono alleati due partiti che fino a ieri hanno polemizzato duramente su Roma. Come risolveranno la contraddizione? Certo non sarebbe elegante fare finta di nulla, ma non possono neppure rimanere prigionieri del passato. Dovrebbero fare un passo avanti e un passo indietro per Roma.

Il passo avanti consiste nel presentare in Parlamento un disegno di legge per la riforma istituzionale della capitale, sulla base di un accordo della coalizione di governo, cercando un dialogo anche con le opposizioni, come è doveroso su tale materia. È noto come la penso: bisogna eliminare il Comune di Roma. Non si perde nulla perché l’amministrazione capitolina è già al collasso. Sarebbe, invece, l’occasione per una vera riforma. Le attuali funzioni comunali potrebbero essere trasferite in due direzioni: in alto, verso la Città Metropolitana, che è già istituita, purtroppo è una scatola vuota, ma può diventare il livello di governo delle strategie di area vasta e gestire le relazioni della capitale con lo Stato; in basso, elevando gli attuali municipi allo status di veri comuni pienamente responsabili della vita dei quartieri e dei servizi alla persona, in modo che si possa scrivere sulla porta di ingresso “qui è vietato dire non è di mia competenza”. Però non basta l’ingegneria istituzionale. Mentre il Parlamento discute, il Consiglio comunale potrebbe approvare, in coerenza con la legge, un piano di riforma dell’amministrazione: la semplificazione delle procedure, il ringiovanimento degli organici, l’arricchimento professionale.

Alle prossime elezioni si potrebbe votare per le nuove istituzioni. Sarebbe l’evento che inverte il ciclo della crisi e rigenera la fiducia. PD e M5S si confronterebbero sul futuro della città e riscuoterebbero un grande successo politico come protagonisti della riforma.

  1. La loro credibilità aumenterebbe ulteriormente se fossero capaci anche di fare il passo indietro: annunciare da subito per le prossime elezioni comunali la rinuncia ai propri simboli al fine di promuovere insieme una grande Lista Civica unitaria. Non un elenco di candidati precostituiti, ma lo strumento per l’immediata attivazione di un movimento civico; i nomi arriveranno solo alla fine e saranno selezionati in base alle competenze e alla popolarità. Aggiungo l’aggettivo “unitaria” per indicare che deve essere di tutti e di nessuno. Non si deve ripetere l’esperienza passata delle Liste civiche, che si sono rivelate spesso formazioni fragili o settoriali e talvolta hanno fornito un imbellettamento al ceto politico per continuare come prima.

Gli elettorati dei due partiti hanno espresso, anche con l’astensionismo, tutta la loro insoddisfazione, ma sarebbero disposti a mobilitarsi di nuovo se i vertici fossero capaci di voltare pagina. E soprattutto la novità della Lista Civica unitaria avrebbe una capacità espansiva e potrebbe incuriosire una vasta opinione pubblica.

Pd e M5S devono esserne i promotori, impegnando le loro migliori risorse e proposte. Però devono avere la lungimiranza di rinunciare al comando, favorendo la nascita di un Forum permanente tra gli esponenti della coalizione politica e i rappresentanti di soggetti sociali e civici. Un luogo di iniziativa e di confronto tra tutte le persone che operano quotidianamente per il cambiamento della città, nei quartieri, nel lavoro, nella cura dell’ambiente, nelle innovazioni produttive, nella cultura, nell’educazione, nel volontariato. Un luogo accogliente per scambiarsi le esperienze, elaborare un convincente programma di governo e promuovere una nuova classe dirigente capace di portarlo avanti. E in ogni quartiere la Lista civica dovrebbe aprire un presidio sociale, coordinando le attività delle associazioni e dei gruppi che aderiscono al progetto e aprendosi anche al contributo di singoli cittadini. Potrebbe nascere un movimento popolare per la rinascita di Roma.

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